Alberto Mario Banti - Il risorgimento italiano
Introduzione
Che cos’è il Risorgimento? Nel 1861 si forma il Regno d’Italia: dopo molti secoli
di frammentazione statale la penisola è così riunita in un’unica compagine, il
cui contorno territoriale viene completato nei dieci anni seguenti con
l’annessione del Veneto e di Venezia (1866) e poi del Lazio e di Roma (1870).
Ma non è né il frutto dell’opera di un uomo solo (Cavour o Garibaldi) né
l’effetto esclusivo di una fortunata congiuntura internazionale, che induce la
Francia di Napoleone III ad aiutare attivamente, e la Gran Bretagna ad
accettare benevolmente questa importante trasformazione. È l’esito di un
processo culturale e politico che prende avvio alla fine del XVIII secolo e che
precisa poi i suoi caratteri nei primi decenni dell’Ottocento. Questo processo
porta a identificare la nazione italiana come la comunità di riferimento che
fonda le pretese o i progetti di costruzione di uno stato nazionale italiano. Nuova
è l’enfasi sul carattere pienamente politico del concetto di nazione: con esso,
dalla fine del Settecento, sulla suggestione del pensiero di Rousseau e
dell’elaborazione politica della Rivoluzione francese, si intende una comunità
di individui legati da tratti comuni che, in virtù di quel nesso, hanno
collettivamente diritto a esprimersi politicamente all’interno di uno stato
nazione creato da loro stessi o in loro nome; e nuovo è anche il formarsi,
intorno a questo assunto, non solo di un movimento culturale ma di un vero e
proprio movimento politico che tende a quel fine. Quell’obiettivo (uno stato
nazione italiano) viene raggiunto anche se il movimento nazionale deve operare
a dispetto di numerosi fattori avversi. In primo luogo il concetto di nazione,
che viene ripreso dal dibattito francese, sembra trovare pochi elementi di
concretezza nel caso italiano, che all’epoca non ne ha moltissimi nemmeno
altrove, né in Francia, né in Gran Bretagna, né in Germania). Ciò che consente
di parlare di nazione italiana è l’esistenza di una grande tradizione
letteraria in volgare italiano, esistente sin dal XIV secolo, e la comune
confessione religiosa, due aspetti che saranno sfruttati intensamente dai primi
intellettuali patrioti del periodo che ci interessa. Ma in sé e per sé la
cattolicità rende gli abitanti della penisola parte di una comunità
sovranazionale; e la tradizione letteraria è una questione che riguarda solo
un’élite ristretta. Nel 1861 gli italiofoni oscillano tra il 2,5 e il 9,5% del
totale della popolazione della penisola. Il 22% della popolazione dichiara di
saper leggere e scrivere, e dunque di capire l’italiano. Da questo punto di
vista gli elementi di coesione nazionale sono assai tenui. Essi non risultano
maggiori se si osservano gli interessi economici di proprietari, imprenditori o
commercianti attivi all’epoca nella penisola: le campagne italiane o gli
opifici (quelli situati nella valle padana già si segnalano per la loro
importanza) producono merci che solo in misura minima sono destinate ai mercati
interni, prendendo piuttosto la via dei mercati francesi, inglesi, tedeschi o
perfino americani. Così, ad esempio, a metà Ottocento le esportazioni che vanno
dalla parte continentale del Regno delle Due Sicilie verso gli altri stati
italiani sono solo l’11,8% sul valore totale delle esportazioni meridionali,
mentre i rapporti inversi sono perfino più ridotti poiché sempre alla stessa
data le importazioni dagli stati italiani preunitari sono l’8,5% del valore di
tutte le merci che entrano nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie.
Non c’è alcun mercato nazionale a cui aspiri la borghesia italiana. Non sono
tanto gli interessi economici per un grande mercato interno a promuovere il
movimento nazionale, quanto il movimento nazionale a sollecitare quegli stessi
interessi in quella direzione. Senza una solida base nelle configurazioni
sociali esistenti, il discorso patriottico trae sostanza dall’esempio della
Francia rivoluzionaria, dalle sue idee, dalle sue sperimentazioni politiche e a
partire da questo modello i patrioti italiani elaborano, nei modi che si vedrà,
un discorso complessivo che tra la fine del Settecento e l’unificazione
risulterà altamente convincente per molte centinaia di migliaia di persone. E
ciò nonostante che gli ideali nazionali e i progetti costituzionali che ne
derivano siano considerati dagli establishment politici (e polizieschi) che si
susseguono in quegli anni nella penisola come pericolosissimamente eversivi, e
per questo tenacemente ostacolati. Il movimento nazionale opera avendo di
fronte enormi handicap ambientali, di natura sociale, culturale o politica; e
tuttavia, sebbene all’inizio dell’Ottocento niente possa farlo presagire, anzi,
sebbene tutti gli indicatori predittivi possano far propendere per il
contrario, puire alla fine quel movimento raggiunge l’obiettivo di uno stato
per la nazione Italia.
Che vuol dire Risorgimento? Risurrezione,
con una risonanza religiosa che si presenta, in forma di slogan, una delle
componenti più importanti dell’ideologia nazional-patriottica; e in effetti il
termine che a metà Ottocento appartiene pienamente al lessico della propaganda
politica allude alla risurrezione della patria, caduta sotto i colpi delle
invasioni straniere e delle divisioni intestine.
Nel Triennio 1796-1799 si
assiste ad un vero sconvolgimento delle istituzioni e degli assetti geopolitici
della penisola, e rigenerazione è il termine più usato per indicare il
rinnovamento socio-politico, lemma che fa riferimento sia all’ambito discorsivo
della tradizione religiosa, sia a quello delle scienze fisiche e naturali. In
questo caso la risurrezione riguarda la repubblica, piuttosto che la nazione
italiana. In questa direzione si era mosso Alfieri con il suo Misogallo
(1799-1814) e da lì in poi il termine “risorgimento” verrà sempre più
utilizzato. Se il termine, con un chiaro significato politico, è ormai entrato
nell’uso dei decenni seguenti esso preciserà la sua stabile collocazione
all’interno del linguaggio dell’eversione nazionale. C’è in esso l’idea della
risurrezione spirituale ma anche politica di una nazione oppressa. È in questa
veste che troviamo il lemma negli scritti di Mazzini successivi alla fondazione
della Giovine Italia (1831) alla quale egli assegna il compito di realizzare il
risorgimento dell’Italia. Come lo troviamo nei riomanzi di Guerrazzi, o in Del
primato morale e civile degli Italiani (1843) di Gioberti, nel quale egli
prospetta il nazionale e politico risorgimento dell’Italia, o ancora in
innumerevoli altri testi, fino ad essere scelto come titolo di un giornale di
ispirazione liberal-nazionale fondato a Torino alla fine del 1847 e diretto da
Camillo Cavour. A partire dagli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento, quindi, lo
slogan entra definitivamente nel lessico politico. A partire dagli anni Ottanta
anche nel lessico storiografico, attraverso la Storia critica del Risorgimento
italiano di Carlo Tivaroni (1888-1897) o le Letture del Risorgimento italiano
(1749-1870) di Giosue Carducci (1895-1896) o ancora la Rivista storica del
risorgimento italiano del 1895, o la Biblioteca storica del Risorgimento
italiano del 1897, fino alla costituzione della Società nazionale per la storia
del Risorgimento del 1907- un intero ambito disciplinare si è intitolato
utilizzando lo slogan di un movimento politico a mostrare quanta partecipazione
militante abbia guidato i primi studi sul movimento nazionale ottocentesco.
Quando comincia il Risorgimento? Il Risorgimento deve essere considerato un processo
politico-culturale che si fonda sull’idea di nazione e che ha come scopo la costruzione di uno stato
italiano. Una produzione storiografica di grande rilievo, che dagli anni
Cinquanta si è addensata sul Triennio repubblicano, ovvero sul periodo
1796-1799 ha mostrato la grandissima novità dei dibattiti che allora ebbero
iniziom ivi inclusa la discussione su cosa fosse una nazione, e una nazione
italiana in particolare. Fu in quella fase che per la proma volta si cominciò a
parlare di rigenerazione (o di risorgimento) della nazione; fu in quel periodo
che alcuni ambienti politico.-intellettuali formularono per la prima volta
chiari progetti di costruzione di uno stato unitario, intorno ai quali si tentò
anche di mobilitare energie e individui. È qui il momento in cui si posero le
fondamenta dei principi ideali che animarono l’esperienza risorgimentale, ed è
sempre qui che inizia la descrizione degli eventi che si verificarono nella
primavera del 1796 e che diedero l’avvio al Risorgimento italiano.
Il Risorgimento italiano
Capitolo 1 – Il Triennio repubblicano
(1796-1799)
Il Direttorio, Bonaparte e l’Italia - Nei primi mesi del 1796 il Direttorio della Repubblica
francese approva il progetto di un’offensiva militare che dovrà svolgersi anche
sul quadrante italiano, considerato tuttavia un fronte di impegno secondario.
Al comando della modesta armata d’Italia viene messo però il giovane generale
Napoleone Bonaparte, che con un’imprevedibile serie di vittorie riesce a
trasformare l’Italia nel più importante teatro di guerra in cui sono impegnati
gli eserciti francesi.
L’epopea dell’Armata d’Italia
e del generale Bonaparte viene inaugurata dalle vittorie di Montenotte,
Millesimo, Dego e Mondovì (12-21 aprile) che costringono Vittorio Amedeo III,
re di Sardegna, ad accettare l’armistizio siglato a Cherasco il 28 aprile.
Con la pace di Parigi del 15
maggio il Piemonte rimane formalmente autonomo sotto il suo sovrano legittimo,
dovendo però cedere Savoia e Nizza alla Repubblica francese. In quello stesso
giorno, dopo aver sconfitto gli austriaci a Lodi il 10 maggio, Bonaparte fa il
suo ingresso a Milano.
Il 20 maggio vengono
sottoscritti accordi di tregua con i duchi di Parma e di Modena (ma
quest’ultimo fugge a Venezia, lasciando in sua vece una reggenza).
Tra maggio e giugno
l’esercito francese entra nel territorio della Repubblica veneta e dello Stato pontificio,
occupando Bologna, Ferrara e le Legazioni. A fine giugno è la volta di Carrara,
Massa e Livorno. Entro i primi di ottobre anche Modena e Reggio sono sotto
controllo francese.
Il 16 ottobre, per volontà di
Bonaparte, si riunisce a Modena un Congresso dei rappresentanti delle città di
Bologna, Ferrrara, Modena e Reggio, che delibera la costituzione di una lega
militare, diretta da una Giunta di difesa generale.
Il 27 dicembre viene
convocato a Reggio un secondo Congresso composto da 110 deputati eletti nelle 4
repubbliche di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, con elezioni a triplice
grado.
Il 30 dicembre il Congresso
approva una mozione secondo la quale le 4 popolazioni formeranno un Popolo
solo, una sola famiglia per tutti gli effetti tanto passati quanto futuri, che
proclama l’istituzione della Repubblica cispadana.
Il 7 gennaio 1797, su
proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, il Congresso decreta che la bandiera
del nuovo stato sia tricolore bianco, verde e rosso. Due giorni dopo Bonaparte,
recatosi personalmente a Reggio, sollecita i deputati a redigere al più presto
una costituzione per il nuovo stato. Frattanto Massa, Carrara e Imola, unite
alla <cispadana, mandano i loro deputati al Congresso, che ora funziona come
una vera e propria assemblea costituente: anzi si tratta dell’unica costituente
italiana del Triennio, poiché la costituzione delle altre repubbliche che si
formeranno verranno redatte o dalle autorità francesi o dai comitati non eletti
dal popolo ma nominati dai governi provvisori. La costituzione, approvata dal
Congresso, viene riveduta e corretta personalmente da Bonaparte; subito dopo si
tengono le elezioni del Corpo legislativo, che si riunisce per la prima volta a
Bologna il 26 aprile. La vita di questa nuova repubblica costituzionale è,
tuttavia, brevissima. Il 19 maggio, infatti, Bonaparte decide di costituire un
nuovo stato chiamato Repubblica cisalpina, aggregando alla Lombardia i
territori di Reggio, Modena, Garfagnana, Massa e Carrara; il moncone restante
di Cispadana viene invece unito con la Romagna. Il 29 giugno viene proclamata
ufficialmente la formazione della nuova Repubblica cisalpina, alla quale, circa
un mese più tardi, viene annesso anche ciò che restava della Cispadana. Nel
giugno del 1797 si procede anche alla creazione di un’autonoma Repubblica
ligure, che si sostituisce all’antica repubblica oligarchica di Genova.
Frattanto, dopo l’insuccesso
di un’offensiva tentata dall’esercito
pontificio, i rappresentanti del papa sono costretti a firmare la pace di Tolentino
(19 febbraio 1797) che riconosce l’occupazione francese delle Legazioni e di
Ancona. Contemporaneamente, l’esercito francese dilaga dentro i confini della
Repubblica di Venezia, da dove si spinge ben dentro i territori dinastici della
casa d’Asburgo, fino a Leoben, dove il 18 aprile vengono firmati i preliminari
di pace tra Francia e Austria. La Repubblica di Venezia viene democratizzata
(12 maggio), ma ha vita breve: il trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797
stabilisce che la parte orientale dei territori della ex Repubblica (Venezia
compresa) venga ceduta all’Impero austriaco e che le zone di Bertgano, Brescia
e Crema siano aggregate alla Cisalpina, alla quale sono unite anche la
Valtellina (22 ottobre 1797) e i territori di Pesaro e del Montefeltro (marzo
1798).
Un incidente avvenuto a Roma
il 28 dicembre 1797 (l’uccisione del generale francese Duphot da parte delle
truppe pontificie) offre al Direttorio l’occasione per invadere ciò che restava
dello Stato Pontificio. Le truppe francesi, comandate dal generale Berthier,
muovono da Ancona il 24 gennaio 1798 e arrivano nei pressi di Roma il 10
febbraio, per occupare la città nei giorni seguenti.
Il 15 febbraio numerosi
patrioti proclamano la formazione della Repubblica romana. Le autorità francesi,
riconosciuta la formazione della Repubblica, prendono il controllo di tutta la
città e dopo aver chiesto al pontefice Pio VI di rinunciare al potere temporale
e averne ricevuto diniego, gli intimano di andarsene.
Il 20 febbraio il papa lascia
la città per rifugiarsi in Toscana. La costituzione della Repubblica romana
viene elaborata da una commissione di tre francesi, nominati dal Direttorio, ed
è promulgata il 20 marzo.
Il 23 novembre 1798 la
Repubblica romana viene attaccata dall’esercito del Regno di Napoli, comandato
dal generale austriaco Mack. Alla fine di novembre le truppe napoletane e lo
stesso Ferdinando IV di Borbone entrano a Roma, dove però rimangono solo fino
al 12 dicembre, quando devono cedere alla controffensiva francese, guidata dal
generale Championnet. La ritirata si trasforma in un vero tracollo con i
francesi, che penetrano all’interno del Regno.
Il 21 dicembre Ferdinando IV
e sua moglie Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, si imbarcano sulla nave
ammiraglia della flotta inglese, comandata dall’ammiraglio Nelson, e il 23
abbandonano Napoli, dirigendosi a Palermo. A gennaio Napoli è in preda a
violenti tumulti antifrancesi provocati dalla plebe urbana. L’esercito
francese, al suo arrivo, deve contendere la città palmo a palmo ai gruppi di
lazzaroni fedeli al Borbone, e solo dopo tre giorni di combattimento, il 23
gennaio 1799, riesce ad assicurarsene il controllo. Il giorno prima i patrioti
napoletano hanno proclamato la formazione della Repubblica napoletana, subito
riconosciuta dal generale Championnet, che il 24 gennaio provvede alla nomina
di un Governo provvisorio.
Parallelamente
all’occupazione della parte continentale del Regno di Napoli, l’esercito
francese occupa anche il Piemonte; l’8 dicembre 1798 Carlo Emanuele IV
(successo a Vittorio Amedeo III nell’ottobre delò 1796) viene costretto a
firmare un atto col quale cede alle autorità francesi il controllo del
Piemonte; il giorno dopo è costretto a partire con la sua famiglia per Parma,
da cui si trasferisce in Toscana e poi in Sardegna. Al principio di gennaio
1799 infine viene occupata la Repubblica di Lucca, democratizzata a febbraio,
mentre nel marzo dello stesso anno viene occupato il Granduscato di Toscana:
Ferdinando III è costretto ad andarsene, il papa fatto prigioniero, è condotto
in Francia e muore durante il viaggio. A Firenze viene costituita
un’amministrazione provvisoria, controllata da un commissario francese.
Questo è il momento della
massima espansione francese: all’epoca la carta della penisola prevede cinque
repubbliche formalmente autonome, un ducato altrettanto formalmente autonomo
(parma e Piacenza) e due aree controllate direttamente dalle autorità francesi
(il Piemonte e la Toscana); parti del Nord-est della penisola,. Con Venezia,
sono annesse all’Austria, mentre la Sicilia e la Sardegna rimangono escluse
dall’occupazione e sono in mano, rispettivamente, ai Borbone e ai Savoia.
L’opinione pubblica nel triennio - Talora l’accoglienza riservata alle truppe francesi
dalle popolazioni della penisola (nel Bergamasco, Bresciano, Romagne, Genova,
Roma, Napoli) è decisamente violenta. Insorgenze antifrancesi o
antirepubblicane, condotte da preti, da notabili e da notabili locali vengono
represse con rapidità e violenza. In generale però le principali città delle
zone occupate dall’Armata d’Italia assistono a un’iniziale vivacissima
dilatazione degli spazi del dibattito politico: si fondano giornali, si
costituiscono associazioni, si scrivono trattati, opuscoli, si organizzano
feste civiche, si compongono inni ispirati a nuove vicende. Tuttavia l’opinione
pubblica non ha affatto una posizione unanime di fronte a ciò che sta
avvenendo. Bonaparte, nel 1796, sostiene che in Lombardia e nella Cispadana ci
sono tre sezioni principali dell’opinione pubblica, una moderata filo francese,
una austriacante e una radicale-giacobina, di fronte alle quali egli intende
sostenere il primo gruppo, reprimere il secondo e controllare il terzo.
Quella che anima l’intensa
discussione politica di questi anni è certo quella più radicale; è un’area
prevalentemente composta da giovani di varia estrazione sociale, ma con una
buona formazione intellettuale, che tendono a chiamare se stessi patrioti,
mentre vengono chiamati dagli avversari giacobini, o meglio ancora anarchistes, due termini che hanno
allora una potente carica negativa (con un evidente riferimento a Robespierre e
al Terrore.
Il dibattito politico-costituzionale tra
i patrioti - Nel lessico politico
dei patrioti campeggiano due lemmi-chiave: democrazia e repubblica, che
tracciano tre diversi progetti di repubblica.
Una prima ipotesi sviluppa o
ripete soluzioni tratte dal Contratto sociale di Rousseau, salvo che su un
punto, dal quale essenzialmente tutti i più autorevoli patrioti prendono le
distanze; se, in termini rousseauiani, la sovranità politica deve appartenere a
tutta la nazione, essa deve essere espressa attraverso sistemi di
rappresentanza elettorale, che consentano di eleggere i più idonei alle cariche
politiche previste dalla costituzione (ecco lo scarto da Roiusseau, sostenitore,
invece, di forme di democrazia diretta). In questa architettura costituzionale,
un peso preminente dovrebbe spettare poi all’assemblea legislativa, della quale
il potere esecutivo (il Governo) non può che essere una sorta di mera
emanazione.
Un secondo progetto tenta di
conciliare il modello delineato da Rousseau con la prescrizione normativa della
divisione dei poteri, elaborata originariamente da Montesquieu; in questa
seconda ipotesi è centrale l’idea che il legislativo sia autonomo dall’esecutivo
e che entrambi non abbiano a interferire col giudiziario, una soluzione,
questa, che sembra adeguata a garantire la repubblica da eventuali arbitri di
oligarchi o di tiranni.
Comune a queste proposte è
l’idea che solo l’eguaglianza civile, e non anche quella socio economica, debba
essere la base della comune convivenza. A fianco di posizioni di questo tipo se
ne delinea una terza che, invece, appare interessata più alle riforme
economico-sociali che a quelle costituzionali, nella convinzione che la perfetta
repubblica democratica sia quella che si fonda su norme che prescrivono il
mantenimento della assoluta eguaglianza, tanto civile che economico sociale,
tra i cittadini.
Qual è il posto per le donne?
Alcune rare voci femminili si alzano per chiedere un’equiparazione dei diritti
politici tra i due sessi (vedi documento 1). Alcuni, ancora più rari, patrioti
ammettono che si debbano cancellare anche le differenze di genere. Molti altri
non affrontano la questione. In altri casi, invece, si sostiene che alle donne
non possa competere la partecipazione alla vita politica. Le motivazioni
dell’esclusione sono la naturale dipendenza delle donne nei confronti delle
figure maschili corrispondenti che ne fa soggetti incapaci di formarsi ed
esprimere liberamente delle opinioni indipendenti; per questo devono essere
escluse dalla vita politica, così come lo sono altri soggetti che non sono
autonomi: i minori, i domestici, i carcerati, i folli. Non poche donne hanno
cercato di partecipare attivamente alla vita politica: Eleonora Fonseca
Pimentel era responsabile del “Monitore napoletano”, giornale che esce a Napoli
dal 2 febbraio 1799 che ha un posto di spicco nella pubblicistica patriottica,
dove Eleonora parla e scrive come un uomo, non parlando di divisioni di generi.
I patrioti e l’idea unitaria - La convinzione diffusa tra l’opinione pubblica
patriottica era che il fondamento ultimo della sovranità stia nel
popolo-nazione e che la più fondamentale delle virtù civiche sia il
patriottismo, inteso come amore per le istituzioni libere, per la democrazia e
per la repubblica, un amore che, nelle parole di molti di questi scrittori, può
portare fino al sacrificio della vita, se le circostanze lo richiedono l’idea
(di derivazione rousseauiana) secondo cui la sovranità spetta a un soggetto
unico, e che nei confronti di esso si debba manifestare una virtuosa e
illimitata lealtà patriottica, ha come importante corollario una critica
serrata alle divisioni politiche che possono spezzare l’unità della nazione. Si
parla di nazione e di patria anche se in quel periodo sono ancora riferiti alle
patrie regionali. Ma allo stesso tempo, proprio all’interno dell’ambiente
politico patriottico si fromula per la prima volta anche l’ipotesi della
formazione di uno stato unitario che raccolga tutti gli italiani. A sollecitare
la riflessione e l’azione per la costruzione di un possibile stato unitario
italiano si impegna intensamente Filippo Buonarroti, un 35enne toscano di
nobili origini ma di idealità giacobine, che nei primi mesi del 1796 mentre
segretamente lavora alla congiura degli Eguali organizzata a Parigi da Gracco
Babeuf con l’obiettivo di realizzare una società radicalmente comunista, svolge
per conto del Direttorio il ruolo di mediatore fra l’Armata d’Italia e gli
italiani favorevoli alla Repubblica francese. Idee di questo genere, per quanto
originali siano, non vengono abbandonate dopo che Buonarroti è arrestato in
quanto membro della congiura di Babeuf (10 maggio 1796) ma si fanno strada con
velocità sorprendente tra i filo repubblicani italiani.
Anche se c’è il desiderio di
una repubblica italiana unitaria, i centralisti insistono sulla forza politica
e militare e sulla coerenza politico-amministrativa che deriverebbero
dall’istituzione di un’unica compagine repubblicana, oltre che sulla presunta
coesione culturale dei popoli italiani, mentre i federalisti affermano che le
diversità storiche e culturali che caratterizzano le varie parti della
penisola, da tanti secoli politicamente divise fra loro, farebbero preferire
una soluzione federale che consenta l’unità senza forzare necessariamente a
un’artificiale omogeneità (documento 3).
L’attenzione dei patrioti si
concentra soprattutto sulle questioni di carattere politico-costituzionale,
cioè sull’ingegneria costituzionale e sull’ingegneria geopolitica. Il dibattito
è dominato da la nazione italiana che esiste e ha il diritto a un’espansione
statuale. L’idea è che una grande repubblica unitaria dia maggiori garanzie di
forza e di indipendenza che una costellazione di repubblichette autonome.
Nondimeno, fatto questo passo, per giustificarlo i patrioti sono spinti dalla
stessa logica del linguaggio rivoluzionario che hanno imparato a parlare, a
supporre l’esistenza di una nazione italiana che preesiste e giustifica ttutto
ciò, anche se non è ben chiaro quali ne siano i tratti coesivi più profondi.
La vita politica nelle repubbliche - Nel Triennio repubblicano la riorganizzazione della
carta della penisola non conduce ad alcun tipo di organica costruzione di unoi
stato unitariioo italiano, anche se la Cisalpina rappresenta pur sempre una
grande innovazione. E ciò perché mai né al Direttorio della Repubblica
francese, né al comandante dell’Armata d’Italia viene in mente di procedere
alla costruzione di una solida compagine statuale sulla penisola. Il piano,
ampiamente realizzato, è un altro: costruire degli stati cuscinetto che possano
svolgere due funzioni: servire da aree per i rifornimenti economici e
finanziari sia per l’Armata d’Italia che per le stesse casse della Repubblica
francese e costituire degli avamposti militari che facciano arretrare lo spazio
territoriale occupato dall’Austria o da suoi alleati.
Inoltre è anche vero che se
tutte queste repubbliche di nuova formazione sono dotate di costituzioni e di
istituti rappresentativi modellati sulla costituzione francese del 1795, tali
assetti istituzionali sulla carta assolutamente innovativi, hanno un grado di
applicazione estremamente modesto. Ciò che conta davvero, in ciascuno di questi
nuovi stati, è l’equilibrio, sempre precario, che si realizza tra il ministro
degli Esteri della Repubblica francese, i commissari civili e militari francesi
presenti sui territori occupati e le strategie politico-militari personalmente
elaborate da Bonaparte.
La Repubblica cisalpina nasce
per una decisione personale di Bonaparte (19 maggio 1797). La costituzione,
promulgata l’8 luglio dello stesso anno, è elaborata da una commissione
nominata da lui; il testo lo rivede lui stesso; il primo esecutivo viene
nominato egualmente da lui, lo stesso giorno della promulgazione della
costituzione. Anche il Corpo legislativo, composto di due camere, il Consiglio
dei seniori e il Gran Consiglio, non viene eletto: i suoi membri vengono scelti
personalmente da Bonaparte. Il Corpo legislativo si riunisce per la prima volta
alla fine del novembre 1797 e il suo esordio è coraggioso. Il 22 febbraio del
1798 viene firmato un trattato di alleanza tra la Repubblica francese e la
Cisalpina, sottoscritto dai membri dei rispettivi Direttori; il trattato è
estremamente sfavorevole alla Cisalpina, gravoso finanziariamente, e quindi il
Corpo legislativo della Cisalpina si rifiuta di ratificarlo. Tuttavia, a marzo,
il trattato viene approvato. A questo punto inizia una sarabanda vertiginosa di
colpi di stato orchestrati, secondo obiettivi diversi, dai responsabili civili
e militari francesi che, iniziata il 13 aprile 1898 con la destinazione di 9
membri del Corpo legislativo e due membri del Direttorio cisalpino, tra i più
moderati, si conclude qualche mese dopo con l’elaborazione di una nuova
costituzione, più moderata della prima e con una dura stretta repressiva che
porta alla soppressione di giornali, alla chiusura di circoli, all’arresto o
alla fuga di patrioti. Le autorità francesi sottopongono tutti i territori
delle repubbliche sorelle a pesantissime contribuzioni finanziarie, a ripetute
requisizioni, all’obbligo di foraggiare i reparti dell’esercito di stanza nella
penisola, a sequestri sistematici di opere d’arte, ad atti quotidiani di
estorsione, di prepotenza e violenza che, insieme alle altre scelte politiche
del Direttorio francese, provocano una traumatica disillusione tra i patrioti
italiani che avevano accolto Bonaparte come un liberatore.
Tanto nella Cisalpina che
nelle altre repubbliche nate in questa fase vengono emanate leggi, ispirate
alla legislazione rivoluzionaria francese, che hanno un grande rilievo
modernizzante.
Il Direttorio della Cisalpina, appena
insediatosi, emana, nell’estate del 1797, un pacchetto di decreti con i quali
si aboliscono i fedecommessi e le primogeniture, si proibiscono i lasciti ai
patrimoni ecclesiastici, si equiparano le femmine e i maschi nelle successioni
intestate, si stabilisce la maggiore età a 21 anni, si introduce il matrimonio
civile.
Il 3 ottobre del 1797 il
Direttorio emana un decreto che riorganizza la vita religiosa della Cisalpina,
stabilendo che i vescovi siano nominati dal Direttorio, prestino giuramento al
Governo e accettino gli ordinamenti repubblicani e che i parroci siano eletti
dalle assemblee dei cittadini attivi.
Nel 1798 di procede
all’operazione di soppressione di tutti gli ordini e corporazioni religiose e
all’incameramento dei loro beni. Ma anche la vita di altre repubbliche è
caratterizzata da una produzione normativa innovativa.
La Repubblica napoletana, che
dura solo dal gennaio al giugno 1799, fa in tempo a emanare una legge che
abolisce fedecommessi e primogeniture (29 gennaio 1799) e ad approvare (ma non
a mettere in esecuzione) una legge che abolisce tutti i diritti feudali, che
nel Mezzogiorno continentale erano attivi su una larghissima parte del
territorio.
La fine di un’esperienza - Ci furono moltissime insurrezioni contro i francesi.
Nel marzo del 1799 gli eserciti austriaci e russi sferrarono una poderosa
offensiva contro i francesi nella pianatura padana: le truppe austro-russe, già
autonomamente capaci di battere i francesi, sono precedute o aiutate da un
quantità di insurrezioni che scoppiano in varie parti della penisola, nel
Polesine, in Toscana (dove operano le armate dei Viva Maria), in Piemonte e nel
Napoletano (dove il cardinale Fabrizio Ruffo riesce a costituire un’armata,
detta della Santafede, composta da contadini e da civili, e a condurla
vittoriosamente dalla Calabria a Napoli): le ragioni che accendono queste
rivolte sono varie e mutano da luogo a luogo, ma una cifra in comune ce
l’hanno: sono ribellioni animate dal desiderio di difendere aspetti delle vita
sociale che alimentano identità tradizionali, come i privilegi delle comunità
locali o l’integrità tradizionali, come i privilegi delle comunità locali o
l’integrità e i valori della Chiesa cattolica (delle sue gerarchie, delle sue
liturgie, dei suoi dettati dogmatici) dagli attacchi della legislazione delle
repubbliche democratiche (documento 4).
Le istituzioni (e le armate)
repubblicane vengono abbattute dovunque con sconcertante rapidità: entro dicembre
1799 la presenza francese è limitata alla sola Genova, posta sotto assedio; in
tutto il resto della penisola le repubbliche sono abolite per far spazio al
ritorno degli antichi sovrani, talora accompagnati da un vero selvaggio bagno
di sangue, come a Napoli, dove più di cento patrioti (tra cui Eleonora Fonseca
Pimentel) sono giustiziati senza contare coloro che sono massacrati dagli
uomini della Santafede, subito dopo l’occupazione della città.
Capitolo 2 - L’età napoleonica
(1800-1815)
Nuove speranze - Gli anni che vanno dal crollo del sistema repubblicano
all’istituzione della Repubblica italiana (1802) non cancellano del tutto
l’attività politica e l’opera pubblicistica dei patrioti che si erano salvati
dal patibolo o dalle carceri borboniche e asburgiche.
Nell’estate del 1799 diversi
di loro, rifugiatisi in Francia, fanno pervenire al Direttorio francese appelli
per una ripresa dell’azione militare in Italia, in vista della costituzione di
una repubblica italiana unitaria.
Il ritorno di Napoleone
dall’Egitto e il colpo di stato del 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799) che
introduce in Francia il regime consolare, invece di attenuare le loro speranze,
le rafforza. In effetti, consolidata la sua posizione con l’emanazione della
costituzione dell’anno VIII che lo proclama primo console, Napoleone procede
rapidamente a organizzare un esercito che, nel maggio del 1800, scende in
Italia attraverso il Gran San Bernardo.
Poco più tardi (14 giugno) i
francesi sconfiggono provvisoriamente la Repubblica cisalpina, che da settembre
è ingrandita del Novarese e della Lomellina.
Qualche mese dopo, il 9
febbraio 1801, la pace di Lunéville riconferma le linee essenziali di accordo
con l’Austria, fissate nel 1797 a Campoformio, salvo che ora alla Cisalpina
vengono aggregati anche territori veneti fino alla riva destra dell’Adige (il
Veronese, metà della città di Verona e Rovigo).
Con i trattati di
Sant’Idelfonso (1 ottobre 1800) e di Aranjuez (21 marzo 1801) tra Francia e
Spagna, a Ludovico di Borbone-Parma viene assegnata la Toscana col titolo di re
d’Etruria, mentre suo padre Ferdinando resta a Parma fino alla sua morte
(ottobre 1802), dopodiché Parma viene governata come un possedimento francese.
Al Regno d’Etruria viene annesso lo Stato dei Presidi, mentre Piombino e l’Elba
sono annessi alla Francia nel 1802. il 12 aprile 1801 il Piemonte, occupato dai
francesi, diventa una divisione militare francese. La Sardegna però, protetta
dalla flotta inglese, resta ancora in mano ai Savoia. A conclusione di questa
nuova fase espansiva, nell’autunno del 1801 Napoleone decide la convocazione a
Lione di una Consulta straordinaria cisalpina, a cui devono partecipare
personalità socialmente e intellettualmente autorevoli per dare alla seconda
Repubblica cisalpina una costituzione e un assetto istituzionale definitivo.
Dall’estate del 1800 Milano
torna ad ospitare patrioti cisalpini e italiani e diviene centro di discussioni
politico-intellettuali, soprattutto sulle ragioni del fallimento del Triennio.
Comune l’opinione che una delle cause risiedesse nella politica predatoria
francese nei territori italiani liberati. Poi la cattiva amministrazione, la
spoliazione delle ricchezze degli abitanti, la violenza, la lesione dei diritti
personali e di proprietà contribuirono alla mancanza di consenso alle
istituzioni repubblicane. Più in profondità, inoltre, i valori identitari
tradizionali, addensati sulla religione cattolica, avevano animato il Triennio,
ma ora non più.
Tra i vari interpreti di
queste cause ci fu Vincenzo Cuoco con il suo Saggio storico sulla rivoluzione
di Napoli, del 1801 (documento 5). La Rivoluzione francese, secondo Cuoco, ha
avuto la sua interna necessità e legalità per rimediare ai mali della nazione,
e aveva aperto la prospettiva di nuove libertà delle forze popolari. A Napoli
invece i patrioti hanno imposto delle istituzioni costituzionali totalmente
ricalcate su quelle francesi e dunque estranee allo spirito della tradizione
napoletana. Quella di Napoli è stata una rivoluzione passiva, che non ha
coinvolto le masse. In essa sussistevano tre componenti:
a)
c’è la nazione
nel suo complesso, caratterizzata da usi, costumiu e abitudini comuni e a
questo aspetto fondamentale deve ispirarsi la costituzione;
b)
tuttavia la
nazione, oltre ad avere un indistinto fondo comune, è anche caratterizzata da
una pluralità di caratteri territoriali;
c)
la nazione deve
essere distinta non solo dal punto di vista territoriale, ma anche dal punto di
vista socio-politico: ci sono le élite (la parte colta) e c’è il popolo
inconsapevole (gli incolti) (documento 6).
Per rispettare la natura e le
istituzioni della nazione i rivoluzionari avrebbero dovuto introdurre dei
parlamenti territoriali, municipali, con il compito di amministrare il
territorio. Tuttavia, una essendo la
nazione, si sarebbe dovuto eleggere anche un parlamento nazionale, il cui
compito avrebbe dovuto essere quello di emanare le leggi di portata generale.
Infine nei parlamenti avrebbero dovuto avere il diritto di votare solo i
maggiori di 30 anni, sposati o vedovi, che avessero saputo leggere e scrivere,
che avessero prestato servizio militare e che avessero posseduto dei beni o
esercitato un’industria o un’arte non servile. Questa ipotesi costituisce una
rottura rispetto alle posizioni espresse dai patrioti del Triennio, per i quali
la partecipazione di tutto il popolo alle pratiche della rappresentanza è un
imperativo categorico. Tuttavia anche questa più ristretta sfera pubblica,
popolata da élite relativamente ricche e colte, deve conservare la sua
compattezza, che per Cuoco non dovrebbe essere turbata dall’esistenza dei
partiti. Cuoco, nel suo saggio, osserva il profilo della comunità nazionale, il
suo multiforme carattere. Egli non affronta però esplicitamente il rapporto di
inclusione o identità tra la nazione napoletana e la nazione italiana. Il
Saggio è scritto in uno stile argomentativo che appartiene ancora all’atmosfera
del Triennio, nel senso che non è affatto interessato a descrivere la natura
del soggetto politico fondamentale che prende in esame (la nazione), mentre
mostra una trascinante passione per l’analisi storica e politico
costituzionale. La nazione, dunque, è data da una comunanza di tratti culturali
essenziali (i costumi, gli usi, le tradizioni) su cui si regge il sistema
politico. Nonostante ciò l’enunciato fondamentale del Saggio, secondo cui le
istituzioni di uno stato devono essere coerenti con i caratteri della nazione,
entra con forza nel dibattito politico di questi anni e riemerge come elemento
centrale del ragionamento svolto da un altro giovane esule, anch’egli
attivamente partecipe alla vita politica del Triennio, Ugo Foscolo, che tra
novembre e dicembre 1801 scrive l’Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione,
edita poi a Milano nell’estate del 1802.
Il testo è strutturato in due
diversi blocchi: nel primo si ricordano a Napoleone le debolezze della prima
Cisalpina, come esempio di ciò che ora si deve evitare; nel secondo si
illustrano i principi fondamentali a cui Napoleone dovrebbe attenersi nella
rifondazione della Repubblica. La prima parte dice che la prima Cisalpina, come
le altre repubbliche del Triennio, ha avuto una vita stentata e piena di
contrasti perché essa non è mai stata veramente libera; come le altre, anche
questa repubblica è stata uno stato fantoccio nelle mani dei militari francesi.
Tutti questi errori debbono
essere evitati e ora – dice Foscolo – da Bonaparte ci si deve aspettare una
rifondazione della Cisalpina su basi molto diverse da quelle del Triennio.
Occorre riformare la giustizia, allontanare gli eserciti stranieri, punire i
ladri, riorganizzare bilancio e finanze dello stato, ristabilire l’ordine
pubblico; tutto ciò avrà come conseguenza un ritorno della prosperità
economica, e con essa del consenso al nuovo regime, che sarà rafforzato
dall’organizzazione di un esercito di cittadini. Fondamentale è che Bonaparte
garantisca la libertà della Repubblica.
I principali elementi
strutturali del testo di Foscolo sono:
a) l’obiettivo esplicitamente
perseguito è la costruzione di uno stato italiano;
b) ciò è richiesto in virtù
della presupposizione dell’esistenza di una nazione italiana, di cui va
garantita indipendenza e libertà;
c) in questo ragionamento
Foscolo non opera la distinzione presente in Cuoco fra la nazione nel suo
complesso e le due componenti del popolo (le élite e gli stati inferiori); egli
resta più rigorosamente fedele alla prevalente connotazione democratica che i
termini nazione e popolo avevano avuto nel dibattito del Triennio, cosicchè non
solo c’è eguaglianza tra popolo e nazione, ma tale soggetto ha una forma
olistica (unitaria e indivisibile);
d) il che conduce anche lui,
ma con maggior coerenza di Cuoco, a criticare aspramente gli effetti che
derivano dalle divisioni partitiche, osservando che, nel nuovo stato, ci si
dovrà salvaguardare dalla rabbia delle parti, ché le parti là regnano dove uno,
assoluto, universale non è il governo.
La nazione italiana, anche
qui come nel Saggio, è più evocata che descritta, cosicché resta ancora incerto
che cosa debba sostanziarla, che cosa costruisca l’invisibile cemento che la
tiene insieme.
Napoleone e l’Italia - Non
diversamente che nel Triennio, anche nei primi anni dell’Ottocento le
aspettative o le speranze dei patrioti vanno deluse. Sebbene a conclusione dei
Comizi di Lione (26 gennaio 1802) la Repubblica cisalpina cambui nome e si
chiami Repubblica italiana, con presidente Napoleone e un vicepresidente
italiano, Francesco Melzi d’Eril, due delle richieste più volte formulate dagli
animatori dell’opinione patriottica vengono programmaticamente disattese. La
costituzione che Napoleone dà alla Repubblica italiana (formalmente approvata
dai Comizi di Lione, ma scritta sulla base di sue indicazioni personali) non
lascia più nemmeno gli spazi formali di libertàù che erano previsti dai testi
costituzionali del Triennio; tutto il potere si concetra nelle mani del
presidente Bonaparte o in sua assenza del vicepresidente Melzi, mentre
l’organismo legislativo non è più espresso da consultazioni elettorali e ha
comunque un’autonomia assai ridotta anche nell’elaborazione delle leggi.
Inoltre, le successive
iniziative militari di Napoleone portano la Francia, divenuta nel 1804 un
impero ereditario sotto il suo dominio) a conquistare, tra il 1806 e il 1809,
tutta l’Italia continentale, senza tuttavia mai unificarla in un unico stato
indipendente.
Al momento della massima
espansione francese la carta politica dell’Italia può essere divisa in cinque
sezioni fondamentali (fig. 2 pag. 23):
1)
Vi sono alcuni
territori che sono direttamente annessi alla Francia: il Piemonte (dal 1802),
la Liguria (che dal 1802 è costituita in Repubblica ligure ed è annessa nel
1805), la Toscana (che nel 1801 è costituita in Regno d’Etruria ed è annessa
nel 1807), Parma (occupata nel 1802 e annessa nel 1808), l’ex Stato Pontificio
(occupato nel 1808 e annesso nel 1809, mentre Pio VII – succeduto a Pio VI nel
1800 – viene arrestato il 6 luglio 1809 e deportato a Savona e poi in Francia).
2)
Il territorio
della ex Repubblica cisalpina, progressivamente ampliato fino a includere l’ex
Stato di Milano, il Veneto, il Trentino e il Tirolo, l’ex ducato di Modena, ,
Bologna e la Romagna, le Marche. Si chiama ancora Repubblica cisalpina dal 1800
al 1802. nel 1802 diventa Repubblica italiana. Nel 1805 diventa Regno d’Italia:
Napoleone è incoronato re, Eugenio Beauharnais, figlio di primo letto di
Giuseppina, moglie di Napoleone, è viceré.
3)
Il Mezzogiorno
continentale viene occupato nel 1806 e diventa il Regno di Napoli; Giuseppe Bonaparte,
fratello di Napoleone è il re fino al 1808, quando viene richiamato in Spagna;
lo sostituisce uno dei generali di Napoleone, Gioacchino Murat, marito di
Carolina Bonaparte, sorella dell’imperatore.
4)
L’ex Repubblica
di Lucca (confermata come tale nel 1801) nel 1805 è trasformata, insieme a
Piombino, in un principato autonomo per Elisa Bonaparte, altra sorella di
Napoleone.
5)
Ci sono poi
Sicilia e Sardegna, come nel Triennio, che non vengono conquistate dai francesi
e sono sotto il controllo, rispettivamente, di Borboni e Savoia.
Napoleone
con il suo assetto geopolitico nuovo ha portato grandi novità, fra cui una
enorme semplificazione delle articolazioni statali, che dalle tredici unità
della seconda metà del XVIII secolo sono ora ridotte a sei. Seppure articolata
in tre sezioni principali (i territori annessi, il Regno d’Italia, il Regno di
Napoli), la parte continentale della penisola ha, per la prima volta da secoli,
assetti normativi e istituzionali omogenei, ricalcati direttamente dal modello
francese (nei territori annessi è direttamente operativo).
Forme
costituzionali che attribuivano al sovrano e al suo esecutivo un potere di
decisione, direzione e formazione che sopravanza quello di qualunque organismo
formalmente presente, gli stati napoleonici completano il loro assetto
centralizzato con una ridefinizione delle strutture amministrative.
-
Gli organismi
amministrativi locali (comuni, distretti e dipartimenti, o province) sono
composti da personale selezionato dal sovrano o dalle autorità burocratiche
periferiche (i prefetti nel Regno d’Italia, gli intendenti nel Regno di
Napoli), che a loro volta sono direttamente scelti dai governi centrali, dai
quali interamente dipendono.
-
Ciascuno degli
stati napoleonici assiste a un riordino delle istituzioni giudiziarie,
articolate ora in tre livelli, dagli organismi giudiziari o dai tribunali di
primo grado (preture, tribunali civili e penali) alle corti d’appello, al grado
supremo costituito dalla Corte di cassazione. In ciascuno di essi vengono
introdotti i codici normativi: il codice civile (nel 19806 nel Regno d’Italia e
nel 1809 nel Regno di Napoli), il codice penale (1810 Regno d’Italia, 1812
Regno di Napoli), il codice commerciale e il codice di procedura civile e
penale.
-
Il sistema
fiscale è riorganizzato in quattro imposte dirette principali (la fondiaria,
basata sui catasti in via di riordino o di prima costituzione proprio in questi
anni; la personale, sui redditi da ricchezza mobile; la patente, per i commerci
e le professioni libere, l’imposta di registro, sui contratti e sulle
successioni). Tanto nel Regno d’Italia che in quello di Napoli viene
organizzato un esercito autonomo, attraverso il sistema della coscrizione. Il
concordato con la Santa Sede, che la Francia aveva stipulato nel 1801, viene
sottoscritto anche dalla Repubblica italiana (e poi conservato per il Regno)
nel 1803.
Ovunque vengono aboliti i
privilegi cetuali (e tra di essi le norme successorie riservate ai gruppi
nobiliari, i fedecommessi, i maggioraschi). Nel regno di Napoli, poi, con la legge
2 agosto 1806 si aboliscono le giurisdizioni feudali, io diritti proibitivi e
alcune prerogative fiscali, norma di grandissimo rilievo, vista l’enorme
diffusione che questi privilegi ancora avevano nel Mezzogiorno continentale, a
differenza delle altre aree della penisola. La legge 1 settembre 1806 poi,
stabilisce che i demani feudali , comunali ed ecclesiastici (cioè le aree di
proprietà riservate a usi civili come il diritto di semina, di raccolta del
legname, di pascolo) debbano essere divisi tra gli antichi titolari e i membri
dei comuni che avevano goduto degli usci civici; la parte di spettanza
comunitaria deve, a sua volta, essere divisa in quote da assegnare agli
abitanti, in ragione dei diritti che potevano aver avuto sulle terre demaniali,
contro il pagamento di un canone annuo destinato ai comuni. La legge ha voluto
levare al rango di proprietari la classe indigente dei cittadini (cioè i
contadini poveri), ma risultava tecnicamente complicato, ostacolato dalle
autorità locali, ovvero gli amministratori di comuni che tentano, in molti casi
con successo, di accaparrarsi a beneficio proprio o di loro collegati, delle
terre comunali senza ridistribuirle agli aventi diritto. I contadini che
ricevono una quota e si trovano costretti a pagare il canone al comune e
l’imposta fondiaria sulla nuova proprietà, non riescano a far fronte ai nuovi
impegni finanziari e la rivendano a proprietari più ricchi. Solo in misura
minima la divisione dei demani riesce a raggiungere gli obiettivi immaginati,
mentre la sua mancata realizzazione darà luogo a tensioni e contestazioni
talora anche molto violente, aprendo nel Mezzogiorno d’Italia quella che sarà
chiamata la questione demaniale.
La Sicilia borbonica era
sotto il protettorato inglese. Nel 1812 l’antico Parlamento siciliano viene
completamente riformato sulla base di una costituzione da esso stesso
approvata: si introduce un sistema parlamentare modellato su quello inglese,
con una Ca,mera dei pari, nobiliare ed ereditaria, e una Camera dei comuni,
elettiva e censita ria. La costituzione abolisce le giurisdizioni feudali, in
genere con un indennizzio, autorizza la quotizzazione degli usi civici e lascia
in vigore i fedecommessi, limitati tuttavia a un quarto dei beni posseduti da
ciascun pari del Regno. Questa riorganizzazione normativa e istituzionale viene
accolta con favore. Molti giovani con un passato di militanza repubblicana,
trovano spazio nei ruoli delle burocrazie centrali o periferiche, e occasioni
varie di carriera. Molti imprenditori, commercianti, finanzieri, proprietari
terrieri colgono l’occasione dell’ingente vendita di beni ecclesiastici,
requisiti e venduti dagli stati per far fronte alle esigenze di bilancio, e
così si dotano di importanti patrimoni terrieri che trasformano in una base per
un’ulteriore ascesa sociale loro e dei loro figli., molte famiglie nobiliari
vennero messe in crisi dall’abolizione dei sistemi di protezione dei patrimoni
(fedecommessi e maggiorascati). I nobili non vengono eliminati dai francesi, ma
vengono riutilizzati in Governo, esercito e stato.
Tendenze antifrancesi - Il disagio sociale nasceva dal duro regime fiscale cui
gli stati napoleonici sottopongono i propri contribuenti, anche in ragione
delle esigenze militari a sostegno delle iniziative della Francia consolare o
imperiale. L’introduzione dei sistemi di coscrizione obbligatoria suscitarono
reazioni negative, con alimentazione di disertori che si inserirono nelle file
del brigantaggio, sia a sud che a nord. Nacquero sentimenti nazionali
antifrancesi soprattutto dai ceti colti italiani, attraverso un primo tentativo
di costruzione di associazioni segreta con intenti filo unitari e
antibonapartisti.
La Società dei raggi nacque
nella Cisalpina nel 1798 dopo uno dei colpi di stato compiuti dalle autorità
francesi, per riorganizzarsi dopo Marengo con una duplice sede, a Milano e a
Bologna. I suoi capi, sotto l’apparenza di riunire tutta l’Italia in una sola
Nazione, si era prefissa di staccarsi interamente dalla Francia. Il contrato
sull’alternativa da adottare porta a una scissione all’interno della Società
dei raggi e a una sia successiva dispersione, almeno fino agli anni di crisi
del sistema napoleonico (documento 7). Nel 1803 le autorità della Repubblica
italiana procedono a un duro giro di vite, con l’allontanamento dai ruoli della
burocrazia dei sospetti di collusioni con la rete settaria. La censura sulla
stampa si fa più severa e non lascia spazio per la pubblicazione di testi
politici di opposizione; ciò significa che la discussione di ipotesi di
ingegneria costituzionale o geopolitica non si aprirà più né negli anni
immediatamente seguenti, né dopo la caduta di Napoleone fino almeno al 1846.
gli intellettuali si rivolsero ad altri media, come la narrativa, l’opera
poetica e teatrale, oppure sulla riflessione sulle origini storiche della
nazione italiana, come fecero Foscolo e Cuoco.
Narrazioni patriottiche - Il primo passo
è costituito dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo, pubblicate a
Milano nell’ottobre del 1802. Il romanzo narra in forma epistolare, le vicende
di Jacopo a partire dall’ottobre del 1797 quando, costretto alla fuga da
Venezia dopo Campoformio per le sue idealità patriottiche, si rifugia sui Colli
Euganei. Lì incontra Teresa, figlia del signor T, e se ne innamora. La ragazza,
tuttavia, è promessa a Odardo, un marchese con cui Jacopo non può competere né
per stato sociale, né per ricchezze patrimoniali. Tormentato dalla rabbia
impotente che gli deriva dal non poter soddisfare, al tempo stesso il suo amore
per Teresa e quello per la sua patria, Jacopo si mette in viaggio per un’Italia
oppressa dovunque dalla prepotenza straniera. Non lo consolano né le bellezze
d’Italia, né il ricordo delle sue glorie, testimoniate dalle tombe dei grandi
come Dante, Petrarca, né l’affettuoso incontro col Parini. Dopo due anni torna nella sua terra, dove Teresa ha intanto
sposato Odoardo e qui,m disperato, si uccide. Foscolo scrive della sua Italia
antifrancese attraverso l’eroe Jacopo, visto che c’era la censura, e quindi
richiamava ideologie proibite. (documento 8). Nel romanzo l’esistenza di una
tradizione letteraria in volgare italiano è l’unico elemento concreto a cui gli
intellettuali di questi anni si possono appigliare per sostenere la necessità
di lottare e di sacrificarsi per l’Italia.
Un'altra opera di Foscolo è
Dei sepolcri, carme scritto nel 1806 e pubblicato a Brescia nel 1807, di nuovo
esplora il tema del culto delle tombe dei grandi come una necessitò civile per
l’edificazione di una memoria comunitaria, mentre il discorso di apertura al
corso di Eloquenza tenuto all’Università di Pavia il 22 gennaio 1809 davanti a
un pubblico folto ed entusiasta, riafferma la necessità che ci si dedichi
finalmente con passione vera ad amare e a narrare la storia d’Italia, delle sue
grandezze letterarie, del suo passato splendore (documento 9).
Nella direzione della
rievocazione storica del passato italico si muove Vincenzo Cuoco con la
pubblicazione in tre volumi di Platone in Italia, edito a Milano tra il 1804 e
il 1806. il libro narra di un viaggio che Platone e Cleobolo compiono dalla
Grecia in Italia, del loro peregrinare per la parte meridionale della penisola,
delle conversazioni con saggi e potenti locali e delle scoperte che essi fanno
sull’antica storia d’Italia. Cuoco torna sulle questioni del Saggio del 1801
facendo esporre all’uno e all’altro dei suoi personaggi alcune delle massime
costituzionali che li aveva descritto. Insiste sulla necessità che gli ordini
politici siano coerenti con la natura territoriale e culturale dei popoli
(documento 10). Che si adotti una costituzione che, attuando un’equilibrata
divisione dei poteri, lasci tuttavia spazio adeguato alle elite politiche e
intellettuali (documento 11); ma soprattutto enuncia la convinzione fantastica
ma mitograficamente efficace, di un antico primato filosofico, intellettuale e
politico dell’antichissima Italia, dalla quale perfino la Grecia avrebbe tratto
i semi formativi della sua civiltà (documento 12). Ciò che aveva fatto perdere
all’Italia questa sua supremazia erano state le divisioni, gli odi intestini,
l’incapacità di mantenere viva l’unità, ma non si era ancora Persa la
supremazia degli italiani nel campo della sapienza. Nel viaggio di Platone ci sono, dunque, molti
contatti con la recente storia d’Italia.
Il crollo dei regni napoleonici - Il crollo del
sistema napoleonico è attraversato da una considerevole e varia quantità di
espliciti appelli all’unificazione nazionale o alla costruzione di uno stato
unitario, lanciati dai soggetti più diversi e a volte imprevedibili.
La ritirata da Mosca, cui la
Grande Armée di Napoleone viene costretta nell’autunno del 1812, coinvolge
anche i due maggiori stati italiani che hanno partecipato all’impresa con due
nutriti contingenti guidati, rispettivamente dal viceré d’Italia Eugenio Beauharnais
e dal re di Napoli,m Murat. Nel giugno 1813 la formazione di una nuova
coalizione antinapoleonica imperniata su Gran Bretagna, Prussia, Russia e
Svezia rende il quadro politico militare davvero preoccupante per le forze
napoleoniche. E ancor più cupe sembrano le prospettive quando, nell’agosto di
quello stesso anno, anche l’Austria si unisce alla coalizione. Dopo qualche non
decisivo successo militare francese la sconfitta patita dall’esercito
napoleonico a Lipsia (16-19 ottobre 1813) sdegna in modo definitivo le sorti
dello scontro: ai primi di novembre ciò che resta della Grande Armée è in
ritirata oltre il Reno, incalzata dalle forze della coalizione;
contemporaneamente l’esercito austriaco muove contro il Regno d’Italia e l’8
novembre da Trento, il generale austriaco Hiller indirizza ai Popoli d’Italia
un proclama nel quale li invita a insorgere sull’esempio delle popolazioni
della Baviera, del Wuttemberg e della Sassionia. Ancor più significativo è
l’invito all’insurrezione lanciato dal conte Nugent comandante generale delle
forze austriache, con il proclama emesso da Ravenna il 10 dicembre.
Murat, intanto, tornato a
Napoli, avvia delle trattative segrete con gli austriaci e con gli inglesi, in
vista di una sua possibile defezione dal campo napoleonico. Egli, tuttavia,
prima di decidersi al grande passo, tra novembre e dicembre 1813 scrive una
serie di lettere a Napoleone, nelle quali lo informa che “l’Italia è piena di
agitazione. Gli avvenimenti di Spagna e di Germania vi fanno fermentare in tutte
le teste le idee di indipendenza” per questo è opportuno che Napoleone opti per
una pace immediata con le potenze della coalizione che preveda, tra l’altro,
l’abbandono delle terre annesse in Italia e la formazione di uno o due regni
italiani autonomi, garanzia di equilibrio tra Francia e Austria. La
proclamazione dell’indipendenza italiana per la quale – prosegue Murat – i
tempo spono maturi, rafforzerebbe la stessa posizione di Napoleone, perché
farebbe si che “l’Italia la quale vi deve già la sua prima liberazione, vi
debba ancora il suo sistema politico e la sua indipendenza”. Napoleone nemmeno
si cura di rispondergli e l’11 gennaio
del 1814 Murat sottoscrive un protocollo di alleanza con l’Austria che gli
garantisce il Regno di Napoli purchè si impegni il suo esercito (già in
movimento nell’Italia centrale) contro le truppe di Napoleone e di Eugenio
Beauharnais. A quel punto gli appelli al popolo d’Italia, alla nazione
italiana, alla sua indipendenza, si susseguono in brevissimo tempo.
Il 31 gennaio è il generale
napoletano Carrascosa che da Modena chiama gli italiani all’unione sotto il re
Gioacchino.
Il 5 febbraio il maresciallo
austriaco Bellegarde in un suo proclama dice che è giunta l’ora che anche gli
italiani liberino la loro nazione., presentando l’esercito austriaco di cui era
a capo, come un esercito di liberatori.
Il 17 febbraio è la volta di
Nugent che, in qualità di generale delle truppe alla destra del Po, emette da
Parma un proclama che invita i soldati italiani ad arruolarsi in un’armata
italiana che combatta a fianco degli austriaci contro i francesi e contro
l’esercito del Regno d’Italia, per difendere la causa dell’indipendenza
nazionale italiana. Infine, dopo esser sbarcato a Livorno tra l’8 e il 9 marzo
alla guida di truppe anglo-siciliane, anche lord Bentinck, comandante delle
truppe inglesi in Sicilia, emana un sui appello affinché gli italiani lottino a
fianco degli inglesi per conquistare quelle libertà costituzionali che altri
popoli già si sono assicurati.
I soldati dell’esercito del
Regno d’Italia si mostrano sordi a questi appelli e restano a difesa delle
terre a ovest del Mincio e a nord del Po. Ma alla fine di marzo le truppe russe
e prussiane entrano a Parigi e ai primi di aprile Napoleone firma a
Fontainebleau il trattato col quale rinuncia al trono francese e accetta di
relegarsi nel Principato dell’isola d’Elba, di cui diventa sovrano. Come
conseguenza immediata, nei pressi di Mantova, il 16 aprile viene firmato un
armistizio tra il Regno d’Italia e l’Austria, nel quale viene stabilito che
l’Adige sia la linea di demarcazione tra i rispettivi eserciti e che il destino
del Regno d’Italia venga deciso dalle potenze alleate alle quali Eugenio
Beauharnais, allora a Mantova, può inviare una delegazione.
Intanto a Milano la
situazione è in grande fermento e l’ipotesi del Regno d’Italia indipendente con
le sue proposte di soluzione si paventa come possibile. L’ipotesi di confermare
come viceré Eugenio non sembrava la migliore. Il 17 aprile Francesco Melzi
d’Eril, delegato al Governo da Eugenio, convoca una seduta del Senato (vedi
nota pag. 34) per nominare i membri della delegazione da inviare a Parigi con
l’incarico di chiedere l’indipendenza del Regno e proporre come re Eugenio. Ma
il senato, in una riunione tempestosa, si mostra contrario al viceré. Il 19
aprile viene redatta una petizione, firmata da una quantità di importanti
cittadini, nella quale si chiede la convocazione dei Collegi elettorali,
considerati come il solo organo legittimato a esprimere la volontà della nazione.
Il 20 aprile il Senato si riunisce di nuovo dopo aver ricevuto la petizione.
Intanto fuori della stanza della riunione si accalca una folla minacciosa, dei
cui desideri si fa interprete Federico Confalonieri, uno dei più autorevoli
sostenitori di un Regno d’Italia indipendente. In fretta e furia il Senato
decreta la convocazione dei Collegi elettorali. Nel frattempo la folla si
dirige verso la casa del ministro delle Finanze Prina, che, catturato, viene
sottoposto a un linciaggio di cui Alessandro Manzoni ha lasciato una viva
testimonianza. Alla sera del 20 aprile il Consiglio comunale prende il
controllo della situazione e il giorno dopo nomina una reggenza provvisoria,
convocando al tempo stesso i Collegi elettorali, che si riuniscono il 22
aprile. Nella prima riunione i membri dei Collegi prendono atto
dell’abdicazione di Eugenio (20 aprile) e ascoltano il discorso di apertura del
presidente, Ludovico Giovio, che li invita a chiedere alle potenze “istituzioni
politiche liberali, un capo indipendente che nuovo, non conosciuto da noi,
diventi italiano, e che accolga i vostri voti e le nostre benedizioni”. Nella
riunione del 23 aprile i membri dei Collegi nominano una deputazione da inviare
a Parigi (della quale fa parte anche Federico Confalonieri) e rendono pubbliche
le richieste di cui essa deve farsi latrice, tra cui “l’assoluta indipendenza
del nuovo Stato italiano e una Costituzione liberale (documento 13). Le
speranze nutrite in quei giorni vanno presto deluse. Né l’imperatore d’Austria,
né il ministro degli Esteri inglese, Castlereagh, né i rappresentanti di
Prussia e Russia si mostrano minimamente disposti alla formazione di un vasto
Regno d’Italia indipendente, neppure limitato entro i confini del Regno
napoleonico, perché i territori erano austriaci ormai. Federico Confalonieri
tenta ancora un incontro con Castlereagh (documento 14).
La pace di Parigi, siglata il
30 maggio 1814, pone le premesse per la riorganizzazione della carta
geopolitica della penisola sotto l’egemonia austriaca, che sarà perfezionata
poi a Vienna, durante il Congresso delle potenze che si aprirà il 1° novembre
dello stesso anno. Il 12 giugno la Lombardia è ufficialmente annessa all’Impero
austriaco, atto che tronca definitivamente ogni residua speranza riguardo a
qualche possibile forma di indipendenza di uno stato iraliano. Una congiura
indipendentista avviata a settembre da ex ufficiali del disciolto esercito del
Regno d’Italia viene scoperta e repressa nel dicembre 1814.
Due mesi dopo è Murat che si
fa aperto sostenitore di un progetto di indipendenza italiana. Dopo la fuga di
Napoleone dall’isola d’Elba, Murat, formalmente ancora alleato dell’Austria, ma
assolutamente incerto sulla sorte del suo Regno, decide di cambiare linea
politica e il 15 marzo 1815 dichiara guerra all’Austria. A convincerlo a questo
passo, oltre alla sesazione di insicurezza che gli deriva dagli incerti
rapporti diplomatici che ha con Austria e Gran Bretagna (all’epoca ancora
protettrice della Sicilia borbonica), contribuisce anche il consiglio di autorevoli
uomini di Governo come Vincenzo Cuoco, collegati con lae logge massoniche
napoletane e con i gruppi carbonari sono favorevoli alla formazione di un Regno
italiano indipendente e costituzionale. Il 30 marzo Murat emette da Rimini un
proclama che fa appello al sentimento nazionale degli italiani (documento 15) e
muove l’esercito verso l’Emilia. L’episodio ha un’assai breve durata. Sconfitto
dagli austriaci ai primi di aprile e poi di nuovo ai primi di maggio, ormai in
ritirata, tardivamente concede una costituzione, che tuttavia non suscita
alcuna reazione tra le popolazioni del >Regno. Egli fugge, allora, in
Corsica, mentre alla fine di maggio i suoi generali firmano l’armistizio con
gli austriaci. Nell’ottobre dello stesso anno Murat tenta ancora una disastrosa
spedizione in Calabria, per la riconquista del suo Regno; sbarcato a Pizzo
Calabro con pochi uomini, viene subito catturato e, dopo un processo sommario,
viene condannato a morte e fucilato il 13 ottobre. Non tutti erano pervasi
dallo spirito patriottico (campagne, interessi municipalisti o il disagio verso
una nazione unita).
Capitolo 3 – La Restaurazione e le prime
rivoluzioni (1816-1831)
L’Italia della Restaurazione - Nel 1816 si respira un’aria diversa. Due sono i
criteri che guidano il nuovo disegno geopolitico imposto all’Europa dal
Congresso di Vienna: riaffermare la legittimità degli antichi sovrani e delle
antiche istituzioni come principio fondante della sfera pubblica e costruire il
sistema dei rapporti internazionali sulla base di un equilibrio che scoraggi
nuove iniziative espansionistiche o rivoluzionarie in Francia come in qualunque
altro stato minore. Né in Europa, né in Italia, però, il principio di
legittimità viene rispettato alla lettera. E così né la Repubblica di Genova né
quella di Venezia vengono ricostruite, nonostante la loro storia plurisecolare
sia indubbia garanzia di legittimità; l’una, Genova, è inclusa nei territori
del Regno di Sardegna; l’altra, Venezia, viene incorporata nel Regno Lombardo
Veneto che, istituitosi formalmente con una sovrana patente del 7 aprile 1815 è
parte integrante dell’Impero austriaco. L’obiettivo, ben chiaro nella mente di
Metternich, il cancelliere austriaco cui spetta uno dei ruoli principali nella
regia di tutta questa operazione, è quello di assicurarsi uno stato cuscinetto
e un forte avamposto in direzione ovest, verso la temuta Francia.
Altri più piccoli stati
vedono garantita la loro sopravvivenza non senza mutamenti e aggiustamenti
importanti. Vengono ricostruiti il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla,
affidato a Maria Luisa d’Austria; il Ducato di Modena, a Francesco IV
d’Austria- Este; il Ducato di Massa e Carrara, concesso a titolo vitalizio a
Maria Beatrice Cybo d’Este, madre di Francesco IV; il Granducato di Toscana,
restituito a Ferdinando III di Lorena. L’antica Repubblica di Lucca, invece,
viene trasformata in Ducato con Maria Luisa di Borbone-Parma sul trono ducale.
Nel 1829, alla morte di Maria
Beatrice Cybo d’Este, il Ducato di Massa e Carrara viene incorporato nel Ducato
di Modena. Clausole specifiche dei trattati stabiliscono, poi, che alla morte
di Maria Luisa d’Austria il Ducato di Parma torni ai Borbone-Parma e che al
momento di questo passaggio il Ducato di Lucca sia annesso dal Granducato di
Toscana (ciò che avviene nel 1847, quando sul trono di Parma sale Carlo
Ludovico di Borbone), mentre all’inizio del 1848 Modena ottiene Guastalla e
Fivizzano e Parma il territorio di Pontremoli.
Più a sud si riorganizzano lo
Stato della Chiesa, sotto il pontificato di pio VII, e il Regno delle Due
Sicilie, che, trasformato ora in uno stato amministrativamente unificato, e non
più come prima del 1799 diviso in due regni distinti, viene affidato a
Ferdinando IV di Borbone, ora Ferdinando I delle Due Sicilie. La carta sembra
non perdere di compattezza; non cambia invece lo status di area sotto egemonia
straniera, che ora non è più quella della Francia, ma quella dell’Austria,
esercitata attraverso il possesso del Lombardo-Veneto, attraverso i rapporti di
parentela tra la casa imperiale e diversi regnanti degli stati italiani o
attraverso specifici accordi diplomatici.
Ancora minore sembrerebbe
l’omogeneità amministrativa e istituzionale che la fondamentale tripartizione
statale dell’Italia continentale di epoca napoleonica aveva assicurato. Uin
alcuni stati, infatti, la struttura normativa e amministrativa introdotta negli
anni francesi viene conservata quasi intatta, come nel Regno delle Due Sicilie;
in altri, come nel Regno di Sardegna, nel Ducato di Modena o nello Stato Pontificio,
la si abbandona per tornare ai quadri normativi precedenti il 1796-1799. In
altri ancora si introducono strutture organizzative e normative in gran parte
nuove, come nel Regno Lombardo-Veneto.
Esistono alcune macrotendenze
comuni. Intanto in tutti gli stati della Restaurazione vengono introdotte o
confermate forme istituzionali che non lasciano che spazi minimi ai privilegi
particolaristici o cetuali dell’antico regime. Tutti gli stati si dotano di
organismi di Governo centrale responsabili nei confronti dell’autorità sovrana
e di strutture amministrative periferiche affidate a personale scelto dal
sovrano o dai suoi delegati e poste sotto il controllo di funzionari statali.
Infine nessuno di questi stati ha una qualche pallida forma di costituzione o
di organo rappresentativo elettivo. Qui sta una delle maggiori debolezze di
quegli stati. (vedi fig. 3 pag. 40). Certo è che in molte aree della penisola
il senso di insoddisfazione nei confronti dei nuovi assetti politici si sta
diffondendo tra un numero per niente trascurabile di persone e che anche negli
anni precedenti al 1820 le polizie sono ossessivamente impegnate in operazioni
di spionaggio, controllo e repressione di un fenomeno che ora sembra assumere
un grandissimo rilievo: quello delle sette segrete.
Il mondo delle settembre - Delle molte sette esistenti in Italia durante la
Restaurazione, la più importante e diffusa era la Carboneria. Di probabile
derivazione massonica, si forma negli ultimi anni del regime murattiano nel
Mezzogiorno continentale, dove tra il 1815 e il 1820 si radica ancora più
solidamente; dal Regno delle Due Sicilie la Carboneria si diffonde anche nelle
Marche, in Romagna e nel Polesine. Nel >Bolognese è presente, in quegli
stessi anni, anche un’altra organizzazione segreta, la Guelfia, che tra il 1817
e il 1818 probabilmente viene assorbita nella locale Carboneria. In Piemonte
sono presenti settari affiliati a un’associazione chiamata Adelfia e altri
collegati alla rete dei Federati, diffusa anche in Lombardia e nei ducati padani;
entrambe le associazioni sembra siano state in contatto con una rete settaria
con ramificazioni internazionali, i
Sublimi maestri perfetti, organizzata a Ginevra da Filippo Buonarroti,
ancora attivissimo nel mondo delle associazioni eversive. Il programma minimo
era quello di restituire l’indipendenza all’Italia e di farne uno stato-nazione
autonomo. L’altro era quello di dotare lo stato di qualche forma di governo
costituzionale. La posizione dominante voleva la costruzione di uno stati
nazionale federale in cui ciascuno degli stati federati abbia assetti
monarchico-costituzionali (documento 16).
Esse erano braccate da una
dura repressione. Il numero degli affiliati era oscillante fra le 300.000 e le
642.000 unità. Delle associazioni facevano parte ufficiali, soldati, veterani
delle guerre napoleoniche, persone che avevano orgoglio della propria
appartenenza nazionale e per la propria funzione sociale e politica, giovani
studenti, liberi professionisti, commercianti, artigiani, possidenti. Tra le
ragioni, l’aumento della fiscalità, l’insoddisfazione per le politiche
economiche, il fascino della diade nazione-costituzione, che è la coppia
concettuale dominante del linguaggio settario. È la profonda commistione tra
discorso laico e discorso religioso un altro fattore, che i settari mettono in
scena soprattutto nel corso dei loro cerimoniali di affiliazione.
Nella Carboneria esistono due
grandi affiliazioni, a cui corrispondono due forme rituali diverse e due
diversi gradi di conoscenza del programma dell’associazione (mai i gradi
possono essere anche molti di più per difendersi meglio dalla possibile
infiltrazione di spie. Mentre nel rituale di iniziazione al grado più basso,
quello di apprendista, il riferimento alla tradizione cristiana sta solo nelle
tre parole d’ordine, che sono fede, speranza e carità, nel rituale di
ammissione al grado successivo, quello di maestro, i nessi sono molto più
numerosi e pregnanti. In quel caso si informa il candidato dell’importanza che
la setta attribuisce a Gesù Cristo, Gran Maestro dell’Universo, l’uomo perfetto
diventato vittima della più crudele tirannia, perché ha voluto che le leggi di
natura prender esso il valore di leggi positive e perché è venuto sulla terra
per illuminare la gente e redimerla dalla schiavitù. Il rituale vero e proprio
è poi un’elaborata messa in scena del processo di Pilato a Cristo, in cui il
candidato svolge il ruolo di Cristo. Al momento culminante della crocifissione
gli si chiede di giurare fedeltà alla Carboneria. Dopodiché si dice al nuovo maestro
che il primo carbonaro è stato Cristo e che i primi buoni cugini sono stati i
dodici apostoli, che le parole sacre sono onore, virtù, probità, e che i segni
di riconoscimento usati dai carbonari significano la fede di ciascuno di loro
nella santa religione, il bisogno di ogni buon cugino di tenere a freno le sue
passioni ed essere sempre obbediente e il martirio che dovrà soffrire piuttosto
che violare il suo giuramento. Queste le sue cause di successo, che spiegano
anche la presenza di numerosi preti e la fondazione dell’ideologia nazionale
come religione politica dell’epoca contemporanea. L’operazione è compiuta per
contaminazione più che per opposizione o concorrenza e questo tratto (proprio
anche di altri nazionalismi europei) non sarà mai più perso dal discorso
nazionale italiano.
Tentativi rivoluzionari (1820-1831) - I settari desiderano diffondere il loro verbo. Ma
hanno anche obiettivi molto più immediatamente operativi: avviare insurrezioni
che portino a mutamenti negli assetti geopolitici e costituzionali della
penisola. Gli anni che vanno dal 1815 al 1819 non sono molto fruttuosi in
questo senso. Anni spesi in oscuri tentativi di colpi di mano, presto falliti,
scoperti o rinviati.,
ma il 1 gennaio 1820 scoppia
in Spagna la rivolta delle truppe che si trovano a Cadice, in partenza per
l’America del Sud; sotto la guida del comandante Riego e del colonnello Quiroga
chiedono il ripristino della costituzione spagnola del 1812 che Ferdinando VII
è costretto a concedere ai primi di marzo. È il momento iniziale della prima
fase rivoluzionaria, delle tre che attraversano l’Europa nella prima metà del
XIX secolo. E, come anche negli altriu due cassi, ha una natura diffusiva: le
notizie di un evento rivoluzionario in un angolo di Europa accendono altri focolai
altrove, e l’Italia vi è sempre coinvolta, sia nel 1820-1821 che nel 1830-31
che nel 1848-49, a testimonianza di una singolare instabilità degli assetti
socio-politici della penisola in questa fase.
Nel 1820 l’esempio spagnolo e
la costituzione di Cadice diventano immediatamente la parola d’ordine di una
buona parte del mondo settario. Quella costituzione, in effetti, ha le carte in
regola per piacere da molti punti di vista. Prevede un Parlamento monocamerale,
eletto a suffragio universale maschile, sebbene in triplice grado: va bene
quindi ai settari di orientamento più democratico, ma non fa esagerata paura
nemmeno ai moderati. È una costituzione che prevede ampi poteri per il sovrano,
titolare esclusivo del potere esecutivo. Ampio spazio, poi, viene riservato sia
alla nazione che alla religione cattolica, identificate come i due assi
portanti dell’identità collettiva e della legittimità costituzionale (documento
17).
Appena due giorni più tardi a
Palermo scoppia un’insurrezione autonomista, sostenuta da notabili ed esponenti
dell’élite nobiliare, alla quale partecipano, con un notevole grado di
violenza, gli strati popolari della città. Il Governo provvisorio palermitano
chiede la ricostituzione di un regno autonomo di Sicilia e l’introduzione della
costituzione spagnola. Ma ad eccezione dell’area di Girgenti il resto della
Sicilia non segue Palermo in questa iniziativa. Anche per questo ilo governo di
Napoli decide di inviare un nutrito contingente militare nell’isola, sotto la
guida di Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, che ai primi di ottobre riesce
a far capitolare Palermo. Pepe, tuttavia, si accorda con il principe di
Paternò, presidente del Governo provvisorio palermitano, perché i comuni
dell’isola eleggano dei deputati incaricati di decidere se ci debbano essere
due Parlamenti separati (uno in Sicilia e uno a Napoli) oppure un Parlamento
unico.
Intanto tra la fine di agosto
e i primi di settembre in tre domeniche successive si tengono le elezioni per
il Parlamento napoletano; all’elezione di primo grado partecipano tutti i
maschi adulti, compresi gli analfabeti e i risultati ottenuti mostrano che la
rivoluzione ha anche dei significativi effetti sociali: nel continente, su 74
deputati solo 2 sono nobili., mentre nelle aree della Sicilia fedeli a Napoli
sono 5 su 24. il Parlamento si riunisce il 1 ottobre e tra le sue prime
decisioni c’è anche quella di sconfessare l’accordo tra Pepe e Paternò, di
inviare dei rinforzi militari al comando del generale Pietro Colletta, che
sostituisce Pepe, e di reprimere senza margini di trattativa l’insurrezione
palermitana, come di fatto avviene. In questa fase a Napoli le vendite
carbonare sono dichiarate legali e gli affiliati diventano un numero altissimo;
si fondano nuovi giornali, che danno voce a diversi orientamenti. La geografia
delle posizioni politiche vede gli ambienti di corte e di governo seguire in
modo molto riluttante la via parlamentare e costituzionale che la rivoluzione
ha imposto. Una larga sezione delle comunità rurali attende gli sviluppo della
situazione, senza contestare né sostenere le istituzioni costituzionali: una
parte cospicua dell’opinione pubblica urbana si mostra interessata solo ed
esclusivamente alle sorti della nazione napoletana, che sembra essere se non
l’unico, certo il principale orizzonte che si sappia percepire (documento 18).
Una parte degli ambienti carbonari, cui appartengono numerosi deputati, è
invece favorevole a stabilire rapporti con i carbonari di altre aree d’Italia,
al fine di collegare la rivoluzione napoletana ad altri moti possibili.
L’obiettivo è la formazione di uno stato italiano per il quale si elaborano
anche progetti costituzionali tanto dettagliati quanto fantasiosi, data la
piega che la situazione internazionale sta cominciando a prendere (documento
19).
Dal 27 ottobre 1820, infatti,
si è riunito a Troppau (nella Slesia austriaca) il Congresso delle potenze
europee. Il 19 novembre Prussia, Austria, Russia sanciscono formalmente il
principio di intervento negli affari interni di altri paesi. Per questo motivo
Ferdinando I delle Due Sicilie viene invitato al successivo Congresso che si
tiene a Lubiana, per decidere il da farsi per Napoli. Dopo qualche difficoltà,
il re è autorizzato dal Parlamento a recarvisi, e il 14 dicembre parte da
Napoli, non prima di aver pubblicamente assicurato di voler difendere l’assetto
costituzionale del Regno. Invece nel Congresso, apertosi il 26 gennaio
1821, Ferdinando I tradisce la sua
promessa e chiede l’intervento austriaco, che viene accordato senza l’assenso
(ma anche senza l’opposizione) di Francia e Gran Bretagna. Il 4 febbraio il
generale austriaco Frimont varca il Po e il confine pontificio, dirigendosi a
sud verso l’esercito napoletano, guidato da Guglielmo Pepe. Ma mentre i ai
confini tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio la situazione sta
precipitando verso lo scontro militare, a Torino scoppia un’altra insurrezione.
Nel corso del 1820 i gruppi
settari esistenti in Piemonte formulano un proprio programma, articolato in due
punti: la concessione di una costituzione e la guerra all’Austria per la
liberazione del Lombardo Veneto e la formazione di un Regno dell’Alta Italia
sotto la casa Savoia nel quadro di una più ampia federazione italiana
(documento 20). Mentre sul secondo punto c’è un accordo abbastanza largo, sul
primo c’è divisione: una notevole parte dei settari, specie quelli di
estrazione borghese, è favorevole alla costituzione di Cadice; un autorevole
gruppo di nobili liberali preferirebbe invece la costituzione siciliana del
1812 o quella francese del 1814 assai più moderate. La prima soluzione finisce
per imporsi. La notizia di un possibile intervento austriaco a Napoli fa
maturare l’idea di un’insurrezione da tentare quando le forze austriache siano
in gran parte impegnate nel centro-sud, mentre in contemporanea dovrebbe
scoppiare un moto in Lombardia. Ai primi di marzo, quando l’esercito austriaco
si sta già scontrando con quello napoletano, l’insurrezione prende il via.
Attraverso i buoni uffici dei nobili liberali, sembra che Carlo Alberto
(all’epoca ventitreenne principe di Carignano) sia disposto ad aderire al moto,
se non addirittura a capeggiarlo; all’improvviso però ne prende le distanze ma
il moto scoppia lo stesso, tra il 9 e il 10 marzo ad Alessandria, quando un
gruppo di congiurati (4 ufficiali, 1 commerciante, 2 avvocati e 1 medico)
riesce a far insorgere il reggimento Dragoni del re e la brigata Genova e a
impadronirsi della cittadella, sulla quale viene issato il tricolore verde,
bianco e rosso del Regno italico. Nella stessa notte viene costruita una giunta
provvisoria di governo composta dagli 8 promotori dell’insurrezione. I
manifesti della giunta (documento 21) oltre al più dettagliato piano
costituzionale per l’Italia, che già circolava in precedenza (documento 20) illustrano
il deciso orientamento nazionale italiano dei congiurati piemontesi.
Il 12 marzo la rivolta si
propaga a Torino, dove, nella notte tra il 12 e il 13, Vittorio Emanuele I
abdica a favore di Carlo Felice, nominando reggente Carlo Alberto per la temporanea
assenza del nuovo re.
Il 13 marzo Carlo Alberto
annuncia la concessione della costituzione di Cadice, sulla quale giura il 15,
affermando tuttavia di volersi anche mantenere fedele al nuovo re Carlo Felice.
Il 16 marzo costui, giunto a
Modena, sconfessa l’operato di Carlo Alberto, ordinando gli di recarsi a
Novara, dove si trovano truppe a lui fedeli.
Il 21 marzo Carlo Alberto va
a Novara, portando con sé il reggimento Savoia Cavalleria. Il Governo
provvisorio torinese, intanto, che ha sostituito la giunta di Alessandria, e di
cui Santarosa è ministro della Guerra, si prepara allo scontro. A fianco delle
truppe piemontesi lealiste (8.000 unità) si schierano truppe austriache (15.000
unità) per fronteggiare insieme l’assai più esiguo esercito costituzionale
(3.000 fanti e 1.000 cavalieri). Lo scontro avviene nei pressi di Novara e ha
rapidamente esito favorevole per gli austriaci e per i reparti lealisti, che il
9 aprile entrano ad Alessandria e il 10 sono a Torino. Si chiude così la breve
esperienza insurrezionale piemontese, mentre da alcuni giorni ha avuto fine
anche il cosiddetto ottimestre costituzionale a Napoli: dopo aver sconfitto ai
primi di marzo l’esercito comandato da Guglielmo Pepe, gli austriaci, infatti,
hanno preso Capua il 20 marzo per entrare tre giorni dopo a Napoli. Tra gli
arrestati Silvio Pellico, Federico Confalonieri, e molti altri esuli e sentenze
capitali. Niente viene conservato da Ferdinando I di Borbone delle istituzioni
e delle norme dell’ottimestre.
Negli anni seguenti sia nel
Mezzogiorno che in alcune aree del Centro-nord gruppi di cospiratori continuano
a esistere e a elaborare progetti rivoluzionari. Il più importante tentativo di
questa fase ha luogo nei primi mesi del 1831 tra i ducati padani e lo Stato
Pontificio, sulla spinta delle rivoluzioni scoppiate nel 1830 in Francia, in
Belgio, in Polonia. Il moto insurrezionale ha come premessa la trama che un
giovane avvocato modenese., Enrico Misley, ordisce fin dalla metà degli anni
Venti con il ducato di Modena, Francesco IV d’Austria-Este, con l’intento di
coinvolgerlo in una congiura che porti alla formazione di uno stato italiano
monarchico-costituzionale. Il progetto è ad alto rischio, poiché se poggia con
buon fondamento, sulle ambizioni che Francesco IV ha già manifestato molto
chiaramente negli anni 1812-1814 quando ha cercato di farsi avanti come sovrano
di un possibile Regno d’Italia, fa leva su un uomo che ha anche mostrato di
essere privo di qualunque simpatia per le idee liberali. Ad ogni modo, tra il
1826 e il 1830, mentre Misley mantiene i rapporti con Francesco IV, egli stesso
e altri patrioti a lui collegati prendono contatto con gli esuli italiani a
Parigi e a Londra e con altri patrioti bolognesi e romagnoli, che – dopo
qualche esitazione – accettano il piano. Ma dopo lo scoppio della rivoluzione
di luglio in Francia e quella di agosto in Belgio, Francesco IV comincia a
ritrarsi, comunicando a Misley in un incontro avvenuto il 19 settembre, di non
poter più sostenere la congiura, anche perché egli afferma che è ormai ben
conosciuta dal Governo austriaco. È a questo punto che acquista una posizione
di primo piano Ciro Menotti, giovane imprenditore modenese di idealità
patriottiche e liberali, che fin dal 1829 era entrato a far parte della
congiura. Menotti e Misley, dunque, riorganizzano il piano, concepito ora nella
forma di un’insurrezione armata da far scoppiare nell’Itali a centrale e da far
prorogare poi altrove fino alla costituzione di uno stato italiano unitario
monarchico-costituzionale (documento 22). Quanto a Francesco IV i due contano
su una sua benevola tolleranza, che gli varrebbe la nomina a nuovo monarca
italiano dal Congresso nazionale che dovrebbe essere convocato a rivoluzione
compiuta.
A dicembre Misley torna in
Francia per riprendere contatto con gli esuli italiani e col Governo francese,
mentre Menotti costituisce dei comitati insurrezionali in diverse città
dell’Emilia e della Romagna e a Firenze e continua a mantenere rapporti col
duca di Modena. Ma la sera della vigilia della rivoluzione (3 febbraio 1831)
Francesco IV scopre definitivamente le sue carte e fa arrestare Menotti insieme
ad altri 43 congiurati. L’insurrezione scoppia egualmente il giorno dopo a
Bologna. Tra il 6 e il 15 febbraio, poi, si susseguono con successo le rivolte di Modena, Reggio, Parma, di
diverse città delle Marche, di Spoleto e di Perugia.
Il 15 febbraio forma a Parma
un Governo provvisorio autonomo. Il 18 febbraio viene costituito il Governo
provvisorio degli stati di Modena e Reggio, mentre sin dal 5 febbraio il duca,
con la corte, un convoglio di soldati e Ciro Menotti come ostaggio – si è
rifugiato nel territorio del Lombardo Veneto. Il 26 febbraio viene convocata a
Bologna un’assemblea di notabili designati dai vari governi provvisori delle
città insorte,. I lavori dell’assemblea precipitano subito in numerosi
contrasti di carattere municipalistico. Elabora uno stato provvisorio che viene
approvato e pubblicato il 4 marzo. Prevede organi di governo temporanei in
attesa dell’elezione di un’assemblea costituente che provveda all’elaborazione
di una costituzione. Lo stato formatosi viene chiamato Governo delle Provincie
Unitew Italiane. A Parigi intanto, arrivata la notizia dell’insurrezione, la
Giunta liberatrice italiana, organismo dei patrioti esuli da poco costituito
pubblica un manifesto di plauso firmato, tra gli altri, da Salfi e da
Buonarroti che, coerentemente con i loro orientamenti politici – incita alla
repubblica. Altri esuli tentano di organizzare un’invasione della Savoia, che
però il 24 febbraio viene fermata per ordine del Governo francese, mentre anche
a Marsiglia viene bloccata una nave sulla quale Misley aveva fatto
immagazzinare un carico di armi per l’Italia. Il Governo francese, dal 13 marzo
presieduto da Périer, delibera indice di non interferire in alcun modo con
l’iniziativa militare che dai primi di marzo il Governo austriaco ha deciso di
mettere in atto per stroncare la rivoluzione.
Anche per questo la
situazione viene normalizzata molto rapidamente. Già il 4 marzo gli austriaci
comandati da Francesco IV si dirigono verso Modena, dove entrano il 9 mentre
anche Parma viene occupata con facilità. Le forze armate modenesi, guidate dal
generale Zucchi, cercano di rifugiarsi a Bologna, ma al confine tra Modena e
Bologna sono costrette a deporre le armi dalle autorità del Governo delle
Province Unite, in quanto forse e di un altro stato; il Governo bolognese
decide di restituire le armi ai modenesi solo il 15 marzo. Il Governo decide
allora di trasferirsi ad Ancona. Il 25 la retroguardia dell’esercito guidato da
Zucchi, in ripiegamento verso Ancora, viene attaccata dall’esercito austriaco e
gli resiste con grande efficacia. Con le truppe ancora in buone condizioni
Zucchi giunge a Fano il 26 ma lì riceve la notizia che il Governo sta firmando
la capitolazione col cardinale Benvenuti, legato pontificio.
Alla fine di marzo
l’esperienza rivoluzionaria è definitivamente chiusa. La repressione che ne
segue è, di nuovo, assai dura, specie nel Ducato di Modena, centro
dell’insurrezione, dove il tribunale militare condanna a morte Ciro Menotti e
Vincenzo Borelli, il notaio che aveva redatto il documento con cui si
dichiarava decaduto il duca. La sentenza viene eseguita il 26 maggio 1831,
giorno in cui i due vengono impiccati su un bastione della cittadella di Modena.
Capitolo 4 – Immaginare e progettare una
nazione (1820-1847)
Il discorso nazionale - Le esperienze
insurrezionali tra il 1820 e il 1831 mostrano l’idea di una sfera pubblica
regolata dal soggetto collettivo nazione e da norme costituzionali che prevedano
una qualche forma di rappresentanza. Ma mostrano anche grandi difficoltà. Le
campagne guardano con apatia a ciò che avviene in città. Le attraversano ancora
importanti fenomeni di brigantaggio, nel Mezzogiorno continentale come nel
Lazio pontificio, nelle Romagne, nel Polesine o nel Veneto. Le ragioni erano di
disagio sociale, nulla di immediatamente connesso con le aspirazioni
all’indipendenza o alla costituzione. Si antepongono ancora gli interessi
municipali agli obiettivi nazionali. Ci sono contrasti sulle gerarchie
territoriali e sulle relative forme da dare a un possibile stato nuovo
(federale o unitario?) che si intrecciavano a mai sopite divergenze sugli
assetti costituzionali (monarchia o repubblica?) rappresentanza democratica o
censita ria?). Se nel 1820-1821 il mito della costituzione di Cadice risolve le
dissonanze, certo non le annulla; e i disaccordi, rapidi a trasformarsi in
dissapori o in veri e propri risentimenti, non rafforzano certo il movimento,
anzi sono tali da affrettare i suoi insuccessi e da poterlo spezzare sul
nascere. Ma a rilanciarlo, tra il 1815 e il 1847, viene prodotta in Italia o
all’estero per aggirare la censura, tutta una serie di opere di natura molto
varia, raccolte poetiche, tragedie, romanzi, saggi storici, melodrammi,
pitture, che rielabora in vari modi il mito della nazione italiana, della sua
storia passata, delle sue vicende recenti, strutturando una narrazione
piuttosto coerente e compatta intorno a specifici temi e figure. Le modalità
narrative adottate dalla coeva produzione letteraria europea di ispirazione
romantica come con Schiller, Scott, Byron o Hugo. I testi italiani di
ispirazione nazional-patriottica sono il frutto del lavoro di alcune delle
menti più brillanti della penso isola, come Giovanni Berchet, Giacomo Leopardi,
Silvio Pellico, Alessandro Manzoni, Francesco Domenico Guerrazzi, Massimo
d’Azeglio, Giuseppe Verdi, come con All’Italia o Adelchi, L’assedio di Firenze
o Ettore Fieramosca, Le mie prigioni o Giovanni da Procida, Nabucco o I Lombardi
alla prima crociata e altre ancora. Essi stessi militano attivamente nel
movimento, fino alla prigionia o all’esilio con opere alle quali affidano una
speranza di personale e collettivo risarcimento morale e politico, come nei
casi di Silvio Pellico, Pietro Giannone o Giovanni Berchet. Tra loro intuiscono
nel tema nazione un oggetto narrativo che ha un mercato potenziale, e ce l’ha
proprio nelle città, cioè fra le non molte persone alfabetizzate che si trovano
in Italia in questo periodo; scrivere opere intorno alla nazione può dunque
significare il successo in bilico tra censura e polizia. Numerose tra le opere
di ispirazione patriottica che vengono prodotte
da questi intellettuali sono dei veri best seller, a volte addirittura
nonostante siano proibite dalla censura) come è il caso delle Poesie di
Berchet, che hanno 15 edizioni dai primi anni Venti al 1848, dell’Ettore
Fieramosca di d’Azeglio, che ne ha tredici fra 1833 e 1848, della Francesca da
Rimini di Pellico, che ne ha venti tra 1818 e 1848 o delle Mie prigioni dello
stesso Silvio Pellico, che ne ha nove dal 1832 al 1848. queste opere tendono
pur tuttavia a disegnare un quadro coerente di che cosa sia la nazione italiana
e di perché occorra battersi per essa. Intanto
chi le legge è invitato a riconoscere la comunità nazionale italiana
come una realtà legata da fattori bio-culturali. Anche gli intellettuali
italiani immaginano la nazione come una comunità di parentela, le cui reti di
relazione collegano intimamente la generazione presente alle passate e alle
future. La metafora della parentela viene impiegata e declinata in ogni
possibile contesto: la patria è madre, tutti i suoi figli (e figlie) sono
fratelli (e sorelle), i leader sono padri della patria.
Il sangue è uno dei legami
forti che tiene insieme la comunità. L’altro è la cultura della nazione, la cui
coesione è garantita da una comune confessione religiosa, da una lingua comune,
da un comune passato. È un passato triste, di decadenza, di oppressione
straniera. Ora è necessario riscattare con uno sforzo di volontà, di coraggio.
Nessuno meglio di Alessandro Manzoni in Marzo 1821 riesce in questo,
immaginando una nazione italiana di gente libera con le stesse origini e le
stesse memorie.
Le storie narrate sono
estremamente varie, ma al loro interno si possono individuare almeno tre figure
principali, intorno alle quali si snodano i dispositivi narrativi. La prima
figura è quella dell’eroe nazionale: si tratta di un uomo, di un soldato
valoroso, pieno di coraggio, pronto a guidare la sua comunità contro i nemici,
contro gli oppressori stranieri, leale nei confronti della patria, ma
sfortunato perché quasi sempre destinato a una morte drammatica. La seconda
figura è quella del traditore, che sempre riemerge in questi intrecci: il
tradimento è provocato da ambizione, da desiderio di potere, di gloria, di
denaro, ed è la causa tanto della morte o della sventura dell’eroe quanto della
disfatta politico-militare della comunità nazionale. A volte il traditore porta
morte o dolore anche alla terza figura chiave e cioè l’eroina nazionale. Costei
condivide con l’eroe un unico elemento fondamentale, cioè il senso di lealtà
nei confronti della comunità. Le altre connotazioni le appartengono in modo
esclusivo: è una donna indiscutibilmente virtuosa, è molto spesso una madre
affettuosa o una sposa amorosa, è sensibile, casta, irreprensibile ma, il suo
onore è minacciato dal traditore o dai nemici stranieri, una minaccia
soprattutto per la sua purezza sessuale. Quando il suo onore è stato offeso,
l’eroina muore o viene esclusa dalla comunità.
In Ettore Fieramosca, ossia
la disfida di Barletta, romanzo pubblicato nel 1833 da Massimo d’Azeglio, la
vicenda è ambientata a Barletta nel 1503 e ha come plot principale un duello
collettivo tra una squadra di cavalieri francesi e una di italiani, guidata da
Fieramosca; la sfida nasce perché un cavaliere francese ha giudicato gli
Italiani validi sono lei tradimenti e non nella guerra, e gli italiani offesi
vogliono lavare l’onta. In parallelo si svolge un sub-plot che è quello che coinvolge
l’eroina, la pura e dolce Ginevra. Sposa per forza al traditore Grajano d’Asti
e violentemente concupita dall’altro gran traditore Cesare Borgia, viene
rocambolescamente strappata alle grinfie dei due da Ettore Fieramosca; Ettore e
Ginevra si amano, ma il vincolo matrimoniale contratto con Grajano costringe
Ginevra alla castità. La donna segue Ettore nelle sue peregrinazioni, fino a
Barletta, dove lei viene ospitata in un convento di monache non distante dalla
città. Per una serie di accidenti narrativi a incastro, una notte Ginevra
allontanatasi dal convento su una barca, approda alla spiaggia di Barletta e,
stremata, sviene. Lì per sfortuna viene trovata da Cesare Borgia. Nessuno lo
vede e la trasporta nella stanza del palazzo del capitano spagnolo, di cui egli
è ospite. Una volta dentro chiude la porta a chiave e la depone sul letto. Poi
Ginevra si riprende e il Borgia si palesa. Il Borgia e il servitore riportano
sulla spiaggia Ginevra, svenuta e con qualche macchia di sangue sul vestito,
dopodiché si allontanano da Barletta su una barca. Più tardi Ginevra viene
soccorsa ma è in preda al delirio e poco dopo, sfinita, muore. Con la tecnica
dell’ellissi narrativa, quel che d’Azeglio racconta qui è uno stupro. E la
donna casta e pura, ma disonorata, non trova sollievo all’oltraggio subito che
nella morta, la quale, a catena, provoca il suicidio di Ettore, folle di
dolore.
Altro romanzo di d’Azeglio è
Niccolò de’ Lapi, pubblicato nel 1841. Siamo nel 1530, nella Firenze
repubblicana assediata dagli imperiali e dai soldati del papa mediceo Clemente
VII. Laudomia, figlia di Niccolò de’ Lapi, uno degli eroici difensori della
libertà fiorentina, è promessa sposa di Lamberto, un giovane e valoroso
combattente repubblicano. La sorella di Laudomia, Lisa, è stata sedotta da
Troilo degli Ardinghelli, un traditore filo mediceo, che ha finto di sposarla,
l’ha messa incinta e ha anche finto di ripudiare la propria fede medicea per
farsi accogliere nel palazzo di Niccolò de’ Lapi e poter spiare dall’interno le
mosse dei repubblicani., Troilo, che col passare del tempo si è stancato di
Lisa, oltre a svolgere la sua funzione di spia, mette gli occhi su Laudomia,
che diventa una parte della ricompensa per il lavoro di informatore degli
imperiali.
Dopo la sconfitta di Firenze,
mentre Niccolò e i suoi sono a Gavinana, in fuga verso Genova, Troilo
allestisce una trappola e li fa catturare tutti. Niccolò e Lisa sono rimandati
a Firenze come prigionieri. Troilo, invece, si porterà con sé Laudomia, in un
castello vicino e solo il provvidenziale intervento di Lamberto, lo sposo di
Laudomia, può salvare la donna dalla violenza che Troilo si stava preparando ad
usarle.
Ma la paura della violenza
può nascere non solo nell’ombra del tradimento intestino, ma anche nell’evidenza
dfell’oppressione straniera. Il tema, spesso trattato nelle opere letterarie
del Risorgimento, viene presentato con grande originalità in una poesia di
Giovanni Berchet del 1824, Matilde. All’inizio Berchet ci presenta questa
ragazza italiana profondamente immersa nel sonno. Matilde sogna ma il sogno ben
presto si trasforma in un incubo, che la sveglia sconvolta e sudata: si vede
destinata dal padre a sposare un soldato austriaco e lei non vuole. È disperata
perché quella sorte la ritiene terrificante e così, nel momento culminante
della narrazione, Matilde immagina di rivolgersi al padre per dirgli che il
sangue del popolo oppresso non può mischiarsi con quello degli oppressori
(documento 23).
Quali sono, quindi, gli
elementi di forza di un simile modello narrativo?
1)
Triade
fondamentale di figure che articolano la narrativa nazional-patriottica del
risorgimento, tre figure che svolgono un ruolo analogo nelle Sacre Scritture.
L’eroe nazionale somiglia a Cristo, e come anche i martiri, svolge una funzione
testimoniale, grazie alla tragica morte alla quale è destinato. Mentre nella
storia di Cristo il sacrificio testimonia uno scandalo etico (la caduta dnel
peccato(), nel caso della narrativa nazionale esso testimonia uno scandalo
etico e politico (il disonore e la divisione della nazione). Come per Gesù e i
suoi santi ma a un livello differente, la morte dell’eroe è la più grande
sofferenza sacrificale, ma una sofferenza che può liberare l’intera comunità
nazionale dallo stato di disonore e di disunione nel quale essa è caduta
aprendo la via alla risurrezione (al risorgimento), tema incessantemente
ripreso ed esplorato anche dalla letteratura più specificamente politica
(documento 26).
2)
Un riferimento
alla storia di Cristo può essere trovato anche nella figura del traditore che è
al centro della narrativa nazional-patriottica, com’è al centro della storia di
Cristo. Se Giuda è la causa diretta della sofferenza di Cristo, il traditore è
molto spesso la causa immediata della
sfortuna o della morte dell’eroe e di conseguenza della nazione.
3)
Terzo
passaggio:la figua dell’eroina, la minaccia alla donna. Le eroine nazionali
sono pure e caste, piene di virtù famigliari che le fanno somigliare a sante o
alla Maria Vergine. Da questo punto di vista si può vedere di nuovo sia la
trasposizione della figura della madre di Cristo dalla cristologia alla
narrativa nazional patriottica, sia l’adozione del modello delle vergini
martiri che hanno un ruolo nella storia della cristianità e della cattolicità.
Per esse la morte è ancora testimonianza di fede e purezza che non può essere
vinta dall’aggressione, sessuale o meno. Nelle narrazioni del Risorgimento
anche le donne che sono aggredite, se non sono salvate in tempo dall’intervento
dell’eroe, trovano sollievo nella morte, cercata o come espiazione per il torto
che si è subito e quindi per il disonore che si è dovuto patire, o come un
mezzo estremo per evitare quel disonore: tale è la sorte di Ginevra, come anche
la sorte che Francesco Domenico Guerrazzi riserva a Lucrezia Mazzanti (Assedio
a Firenze, 1836) che nel momento in cui sta per essere violata si butta da un
ponte per preservare la sua purezza. Gli elementi religiosi e le allusioni
all’etica dell’onore si confondono inestricabilmente fino a dar vita a immagini
nelle quali la santità della causa, la difesa dell’onore della nazione, anche
attraverso la difesa delle donne della comunità, si proietta sui duelli o sulle
battaglie che è necessario combattere per essa: in tal modo quelle prove
diventano guerre sante, mentre i caduti diventano martiri. Avendo alle spalle
la struttura della narrativa patriottica, queste soluzioni retoriche assumono
risonanze e profondità che altrimenti stenterebbero ad acquistare.
Tutto ciò, laa cristologia,
il linguaggio dell’onore, il duello, la guerra, rimanda a delle esperienze che
sono molto vive all’inizio del XIX secolo. Il Cristo, il traditore, la Vergine,
le martiri o le sante costituiscono una sequenza di figure il cui significato
simbolico è profondamente radicato in un paese cattolico come l’Italia
ottocentesca, nel quale la grandissima maggioranza della popolazione si è
feormata sulla conoscenza delle Scritture e della liturgia. Né meno vivo è il
linguaggio dell’onore o la pratica del duello, tanto diffuso all’epoca.
Difendere l’onore e la purezza delle donne dall’insultante minaccia dei
traditori è garantire la coesione della comunità proteggerle dagli stranieri è
difendere la nazione come comunità parentale, proteggendone il basilare anello
riproduttivo che non deve subire contaminazioni., inoltre fare tutto ciò
combattendo significa dimostrare che la nazione italiana è composta da veri
uomini coraggiosi. Tutto ciò è ad altissimo tenore emotivo. Si mette in scena
la purezza e il sesso, ma nella forma della paura della violenza e della
contaminazione. Lo si fa in testi che ossessivamente si snodano intorno a
storie di guerra, quasi la narrazione della narrazione non possa essere
disgiunta dal racconto di battaglie, violenze subite e da commettere alla
ricerca del riscatto (ciò spiega perché i miti storici del Risorgimento abbiano
a che fare con scontri e battaglie: Legnano, Vespri, Barletta, Gavinana,
Balilla, documento 25).
È infine anche una
costruzione con una nettissima connotazione di genere: gli uomini hanno dei
ruoli che esprimono la loro profonda mascolinità (combattere, mostrare
coraggiom calcare la scena pubblica), le donne ne hanno altri che testimoniano
della loro femminilità (conservarsi pure, essere buone figlie, buone spose,
buone madri, confortare gli uomini nell’ora del combattimento, chiedere loro
protezione); le figure negative non fanno che rovesciare l’inventario delle
qualità nel loro contrario, talota, a ulteriore connotazione peggiorativa,
tradendo rispettivamente la loro mascolinità o la loro femminilità.
L’immagine che se ne ricava è
molto rigidamente sessita, il discorso nazional patriottico è maschile. Non
bisogna credere comunque che le donne che si avvicinano agli ideali nazional
patriottici ne rifiutino questo aspetto.
Democratici e moderati (1831-1847) - Negli anni 30-40 si consolida sia la nozione di unità
sia le divisioni sul progetto politico-istituzionale. Le espressioni principali
di questa duplice anioma del movimento nazionale sono costituite dalla corrente
democratico mazziniana e da quella moderata neoguelfa. Se entrambe si
richiamano all’esistenza della nazione italiana come presupposto per l’azione
politica, esse tuttavia esibiscono visioni politiche e strategie operative
quanto mai differenti.
Mazzini e la Giovine Italia - Esistevano ancora delle reti settarie a carattere
weuropeo e di ispirazione comunista organizzate da Filippo Buonarroti fino alla
sua morte, che avviene nel 1837, certo è che dal 1831 la stella di Giuseppe
Mazzini si impone per la forza della sua predicazione politica.
Nato a Genova nel 1805 da
Giacomo, medico e professore universitario che nel 1797 ha partecipato
all’esperienza della Repubblica ligure, e da Maria Drago, madre attentissima
all’educazione del figlio e cattolica aperta a influenze gianseniste, Mazzini –
secondo quanto lui stesso racconta nelle Note autobiografiche – si risveglia
agli ideali patriottici nel corso di una passeggiata compiuta in una domenica
dell’aprile 1821 nella Strada Nuova di Genova: lì con la madre e un amico di
famiglia, incontrea un insorto del marzo precedente, che come molti altri era
arrivato a Genova in cerca di soldi e di un imbarco per andarsene, se possibile
in Spagna, a combattere per la libertà di quella nazione.
Nel 1827 viene affiliato a
una vendita carbonara genovese, contribuendo anche alla fondazione di una nuova
vendita livornese. La delazione di un infiltrato conduce tuttavia al suo
arresto nel novembre 1830 a cui segue la reclusione nel carcere di Savona. Nel
febbraio 1831 va in esilio, recandosi prima a Ginevra e poii a Lione e infine a
Marsiglia. Nel giugno 1831 scrive al nuovo sovrano del Regno di Sardegna, Carlo
Alberto (successo a Carlo Felice nell’aprile precedente) una lettera aperta
nella quale lo invita a considerare l’opportunità di farsi capo di una lotta
per la libertà, l’indipendenza e l’unione dell’Italia. Il re non degna di
risposta l’appello, ma comincia a considerare Mazzini come un pericoloso
sovversivo. Un mese più tardi infatti, nel luglio del 1831 Mazzini fonda a
Marsiglia la Giovine Italia, un’associazione politica che egli vuole diversa
nello spirito e nelle strutture dal modello carbonaro nel quale lui stesso
aveva mosso i suoi primi passi politici. Il limite principale di quella
esperienza gli sembra l’inefficacia propagandistica e operativa, causata in larga
misura dall’organizzazione per cellule autonome, fortemente gerarchizzate al
loro interno, ma prive di coordinamento generale, e dalla mancanza di un’aperta
illustrazione degli obiettivi ideali e programmatici da perseguire. Sulla base di queste considerazioni la Giovine
Italia si pone come obiettivo la propaganda dev’essere compiuta dagli affiliati
attraverso la diffusione di opuscoli o di fogli volanti che illustrino i punti
fondamentali del programma dell’associazione; il coordinamento dell’azione resta
nelle mani della direzione centrale, ovvero in quelle di Mazzini stesso, mentre
i militanti sono tenuti a rispettare gli obiettivi e le norme di comportamento
stabilite nello statuto dell’associazione; essa poi affronta le spese
necessarie per la sua sopravvivenza (sovvenzioni agli affiliati in missione,
stampa dei documenti politici e dei giornali, il primo dei quali sarà il
periodico “Giovine Italia”, pubblicato a Marsiglia dal marzo 1832)
autofinanziandosi con le quote pagate dagli affiliati o dai sostenitori. La
formazione mazziniana è la prima che in Italia assuma i caratteri di un moderno
partito politico proponendosi obiettivi che i governi della penisola non
possono che considerare pericolosamente sovversivi, e ciò trasformò i
mazziniani in ricercati. Gli scopi che Mazzini stabilisce per la sua organizzazione
(documento 27) erano: l’azione per il riscatto della nazione italiana, che
Mazzini considera come una comunità di discendenza, nella quale le generazioni
passate e quelle future sono legate alla presente da vincoli di parentela e di
affetto. La nazione, inoltre, è una comunità voluita da Dio, un’entità
superiore sempre presente nell’elaborazione mazziniana, derivata dalla divinità
della tradizione cristinana, ma non immediatamente identificabile con essa, che
alla nazione ha assegnato una terra e una missione. Ciononostante è anche una
comunità dotata di una sua storia passata, fatta di discordie intestine e di
oppressioni, ma anche di generosi e nobili gesti di ribellione e di grandi
esempi intellettuali e morali, da conservarsi attraverso il culto dei sepolcri
dei grandi. Ma nazione nel lessico mazziniano, oltre a indicare la dimensione prepolitica della
comunità, è anche termine che ne esprime
la piena politicità, indicando la forma statale che i militanti della Giovine
Italia devono impegnarsi a costruire. Costruire l’Italia in nazione una,
indipendente, libera, repubblicana. Lo stato nazione che deve esprimere, dopo
secoli di divisione, la nazione italiana ritornata cosciente di se stessa è
dunque uno stato unitario, repubblicano e, come Mazzini si preoccupa di
spiegare ulteriormente, democratico. Per raggiungerlo è necessario ingaggiare
una lotta di popolo (altro termine chiave che in Mazzini tende a indicare
l’intera comunità nazionale, oltre che le sole classi operaie e contadine) che
sia avviata da un’insurrezione, cui segua una lotta per bande. Nel periodo di
guerra la direzione politica dovrebbe essere affidata a un’autorità
dittatoriale, che tuttavia, a guerra conclusa, deve cedere il potere a
un’assemblea costituente eletta dal popolo, detentore della sovranità.
Il nazionalismo mazziniano
aveva una forte componente religiosa che si modella sulla tradizione cristiana:
la militanza politica è apostolato, la diffusione del verbo, la testimonianza
dei martiri, caduti in una guerra santa che condurrà alla risurrezione della
nazione, un’opinione democratica che non abbia radici in una forte credenza
religiosa è destinata a non avere successo. Lo slogan Dio e il popolo.
Non è da pensare, tuttavia,
che Mazzini immagini di attirare le masse popolari solo con un messaggio
densamente spiritualistico. Bisognava conquistare le masse trasmettendole
l’idea di una rivoluzione nazionale che avrà effetti benefici anche sulle loro
più immediate condizioni di vita. Mazzini immagina che compito dello
stato-nazione nascituro sia anche quello di avviare una politica economica che
regoli le successioni ereditarie in modo da impedire l’accumulamento eccessivo
delle ricchezze in poche mani, che introduca una tassazione progressiva sui
redditi destinati a soddisfare bisogni non essenziali, che impegno lo stato in
una politica di lavori pubblici che garantiscano occupazione equamente
retribuita a tutti. L’azione di propaganda ha come obiettivo la costruzione di uno
stato unitario e non più federale, repubblicano-democratico e non più
monarchico-costituzionale. Ragione di più, quest’ultima, perché le polizie
degli stati italiani desiderino Mazzini e i mazziniani come pericolosissimi
terroristi e li cerchino attivamente.
I primi militanti vengono
reclutati da Mazzini a Marsiglia e in Francia negli ambienti degli esuli
politici, che lì si sono raccolti. Costoro poi cominciano a trasferirsi in
Italia, sotto mentite spoglie, per avviare il proselitismo. Le prime reti mazziniane
si diffondono a Genova e a Livorno, due porti a diretto contatto con Marsiglia,
ma poi i nuclei della Giovine Italia trovano terreno fertile nelle città
universitarie (Pisa e Pavia, in primo luogo) per diffondersi in Liguria, ad
Alessaandria e nel Canavese, a Milano, Modena, Reggio, Ancona e più tardi anche
a Roma, in Abruzzo e a Napoli. Se nelle aree urbane l’iniziativa riscuote
successi, oltre che tra membri della borghesia e della nobiltà liberale, anche
in ambienti artigiani e operai nelle campagne non riesce a sfondare. Lì c’è il
duplice problema da risolvere. Intanto i contadini non sanno leggere. Nelle
campagne la propaganda orale rischia di trovare molto più facilmente la forca
di quel che non succede nelle città; negli ambienti urbani, infatti, non è
difficile avvicinare possibili proseliti in case private o fare con accortezza
propaganda in frequentati locali pubblici, senza dare troppo nell’occhio; nelle
campagne ogni estraneo che avesse fatto strani discorsi ai contadini sarebbe
stato facilmente individuato dai fattori e dai soprastanti. Tuttavia la
diffusione fu ampia, di circa 50.000-60.000 affiliati nel 1833.
L’azione dei militanti non si
limita solo alla propaganda e al proselitismo. In quello stesso 1833 infatti,
viene progettato il primo tentativo insurrezionale coordinato da Mazzini, che
avrebbe dovuto scoppiare in Piemonte e a Genova; ma la struttura relativamente
aperta dell’azione di propaganda compiuta dalla Giovine Italia fa si che essa
sia largamente esposta all’infiltrazione di spie della polizia, con conseguenti
arresti ed esecuzioni.
Nel 1834 c’è un secondo, più
articolato tentativo insurrezionale, che prevede un’invasione della Savoia da
parte di un corpo di volontari armati e, in contemporanea, un’insurrezione a
Genova, alla cui preparazione collabora anche un giovane marinaio nizzardo,
Giuseppe Garibaldi; la prima fallisce e la seconda viene scoperta. Questo
secondo insuccesso porta alla chiusura della prima fase di vita della Giovine
Italia, mentre costringe quel giovane marinaio a rifugiarsi prima in Francia e
poi in America del Sud.
Nel luglio del 1833 Mazzini,
espulso dalla Francia, si trasferì in Svizzera e a Berna nell’aprile del 1834
rilancia la sua azione politica con una nuova associazione, la Giovine Europa,
ancora più ambiziosa di quella appena sciolta. Obiettivo del nuovo organismo è
di operare politicamente (e militarmente) per l’autodeterminazione delle
nazioni, per la liberazione di quelle oppresse, per la costituzione degli stati
nazione là dove essi non ci sono ancora (in Italia, in Polonia, in Germania)
per la costruzione di un’Europa che si fondi sulla cooperazione politica e
istituzionale delle nazioni liberate. Generosa nei propositi la nuova
iniziativa mazziniana non è più fortunata della prima, poiché nel corso del
1836 le sue strutture organizzative in via di formazione sono sconvolte da
un’ondata di arresti messi in atto dalle polizie di vari stati europei che
conduce allo scioglimento anche di questa associazione. Nel giugno del 1836 le
autorità federali svizzere decidono di espellere Mazzini, che ai primi di
gennaio del 1837 si rifugia a Londra. Dopo due anni di inattività politica nel
1839 Mazzini ricostituisce la seconda Giovine Italia, fondata su basi solo
leggermente diverse dalla prima: l’associazione fa capo a una segreteria
organizzativa con sede a Parigi, affidata a Giuseppe Lamberti; ai nuclei
federati viene riconosciuta una maggiore autonomia operativa. Il programma,
elaborato da un Mazzini suggestionato dai primi successi del movimento cartista
inglese, dedica una maggiore attenzione al problema operai, prevedendo che il
nuovo possibile stato repubblicano si impegni ad attuare riduzioni nell’orario
di lavoro degli operai, a garantire aumenti di salario e a favorire il credito
e l’associazione cooperativa, senza che tuttavia si perda l’assoluta priorità
della questione nazionale su quella sociale, tipica del repubblicanesimo
mazziniano.
Gioberti e il neoguelfismo - Nonostante negli anni 30 la proposta più forte sia
quella di mazzini, comincia a precisarsi meglio l’alternativa tra una
concezione radicale della rivoluzione nazionale e una concezione più cauta di
ispirazione monarchico-costituzionale, moderata insomma, come la chiamano gli
stessi protagonisti. Tale opinione ha i suoi spazi di prima elaborazione in
alcuni salotti di famiglie nobiliari o alto borghesi di Torino, di Milano o di
Firenze, e nella città toscana trova anche un punto di riferimento
significativo nell’attività svolta da Giovan Pietro Vieusseux e dagli
intellettuali che si riuniscono intorno a lui e alle sue iniziative. (tra cui
il Gabinetto scientifico-letterario fondato nel 1820 e la rivista Antologia
attiva dasl 1821-1833). Tuttavia questa parte di opinione pubblica devce
aspettare sino al 1843 per disporre di un programma poilitico compiuto, da
poter contrapporre al quadro mazziniano; ed esso giunge con la pubblicazione a
Bruxelles del libro Del primato morale e civile degli italiani, scritto da un
sacerdote piemontese, Vincenzo Gioberti, che nel 1833 aveva collaborato al
periodico Giovine Italia, e per questo era stato arrestato e costretto
all’esilio prima in Francia e poi in Belguio. Nel decennio seguente Goiioberti
aveva maturato un distacco radicale dalle sue giovanili simpatie mazziniane, le
quali, oltre che verso opere filosofiche di varia qualità, avevano preso la
direzione di una riflessione politica al tempo stesso meticolosamente
pragmatica e largamente visionaria. Alla sua pubblicazione Del primato morale e
civile degli Italiani diventa un vero caso politico-letterario. In cinque anni
esce in 8 edizioni diverse, anche se in alcuni stati della penisola era
proibito. Gioberti ritiene che le lontane origini della nazione italiana vadano
collocate nella stirpe pelasgica, una popolazione che,m discendendo da Japhet, uno
dei figli di Noè, attraverso vicissitudini varie e piuttosto fantasiose avrebbe
trovato infine insediamento nella penisola., da questo ceppo originario
sarebbero poi discese le varie comunità successive, quali l’etrusca, la romana,
l’italiana, tutte tra loro intimamente, seppure conflittualmente, legate. La
comunità italiana poi avrebbe modellato la sua identità fondamentale attraverso
le credenze cristiane e la guida papale, ed è proprio questo, l’essere
confessionalmente coesa e l’ospitare la sede della cattolicità, che le dà un
primato morale su tutti gli altri popoli (documento 28).
La nazione italiana, oppressa
dai barbari, contiene in sé medesima, soprattutto per via della religione,
tutte le condizioni richieste al suo nazionale e politico risorgimento. La
stirpe italiana, congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed
illustre, che dopo secoli di decadenza, ha il diritto di rinascere e di avere
una sua propria espressione statale. Il popolo italiano non può essere soggetto
d’azione politica perché non è ancora altro che un desiderio e non un fatto. È
per questo che la guida del risorgimento nazionale deve essere monarchica. Le
costituzioni devono essere coerenti col genio delle nazioni, che un assetto
politico fondato sui principi, su aristocrazie civili e consultive e sul
coordinamento politico-spirituale del papa è la condizione propria del
reggimento nazionale d’Italia, perché esso meglio esprime i due elementi
fondamentali del genio italico, l’uno dei quali è naturale e s’attiene alla stirpe
e alle abitudini primitive di essa; l’altro è sovrannaturale, moderno
cristiano, e proviene dalle credenze e istituzioni radicate.
Gioberti immagina che una
pacifica rinascita politica della nazione italiana possa avvenire attraverso la
costituzione di una federazione degli stati esistenti, la cui presidenza sia
attribuita al papa, in ragione della superiorità etica che egli serviva dal suo
magistero. (da qui il termine
neoguelfismo, che riassume l’aspetto politicamente cruciale della proposta
giobertiana). Tale federazione dovrebbe essere costruita sia col consenso dei
principi esistenti che con l’appoggio dell’opinione pubblica e trovare i suoi
punti di forza in Roma e nel Piemonte, l’una garanzia della protezione
religiosa, l’altro della protezione militare. Le riforme interne potrebbero
ridursi alle istituzioni di un Consiglio civile, organo consultivo pensato per
stringere maggiormente i rapporti di collaborazione tra i sovrani e le elite.
Collegando operativamente il progetto di uno stato italiano con la centralità
politica del pontefice, il libro rivolto a un’opinione pubblica formata quasi
nella sua totalità da uomini e donne che avevano ricevuto un’istruzione
religiosa cattolica, riscuote un enorme successo, aprendo tuttavia anche un
intenso dibattito all’interno di quegli stessi ambienti che ritengono una
soluzione moderata della questione nazionale preferibile a ogni ipotesi
rivoluzionaria.
Ci sono comunque dei limiti:
non tiene in considerazione l’orientamento reazionario del papa in carica,
Gregorio XVI e non esamina la posizione che dovrebbe essere riservata
all’Austria nel quadro dell’ipotetica federazione nazionale. Questi problemi
sono affrontati dal nobile piemontese Cesare Balbo nel libro Delle speranze
d’Italia, pubblicato a Parigi nel 1844. pur dichiarandosi d’accordo con
l’impianto generale della proposta giobertiana, e in particolare con la
soluzione federale (documento 29) Balbo prende le distanze da tre aspetti del
ragionamento svolto nel Primato: in primo luogo nega la fondatezza di una
qualche superiorità morale degli italiani; nega inoltre la realizzabilità di
una presidenza papale della ipotetica confederazione, osserva che trascurare il
problema dell’Austria significa non voler esaminare la questione chiave del
Risorgimento italiano. Ritiene di poter risolvere quest’ultimo problema con la
teoria dell’orientamento dell’Austria: quando l’Impero austriaco abbia dei
vantaggi territoriali dei Balcani dalla imminente dissoluzione dell’Impero
ottomano, tali vantaggi devono essere compensati con l’indipendenza del
Lombardo-Veneto. Compito di condurre l’azione politico-diplomatica spetta al
Piemonte, mentre tutti i sovrani della penisola possono introdurre delle
riforme interne con il miglioramento degli eserciti, la facilitazione degli
scambi commerciali (in un’appendice all’opera di Balbo si parla di una
possibile lega doganale), il sostegno al dibattito culturale relativo alla
storia e alla lingua italiana, l’introduzione di istituti consultivi. Quanto
alle istituzioni rappresentative, Balbo pensa che non siano assolutamente
indispensabili e che anzi, in quanto istituzioni per natura divedi visive,
possano persino rivelarsi pericolose, specie se imposte con la forza dai
sudditi; tuttavia, se sono i sovrani che spontaneamente decidono di concederle,
esse potrebbero anche rivelarsi un efficace strumento di indebolimento del
prestigio e dell’autorità dell’Austria, che certo non potrebbe introdurle nei
suoi territori italiani senza subire dei diretti e pesanti contraccolpi
(documento 30).
Alla vigilia di una nuova rivoluzione - Gli interventi di Gioberti e Balbo aprirono una
discussione tra molti esponenti intellettuali dell’epoca, tra cui Massimo
d’Azeglio, Gino Capponi, Camillo Cavour, Giacomo Durando, oltre che di nuovo lo
stesso Gioberti con i Prolegomeni del Primato (1845). La teoria giobertiana e i
suoi correttivi non erano realizzabili. Nonostante ciò due distinte dinamiche
finiscono per sovrapporsi tra il 1843 e il 1847, dando a quel progetto una
parvenza di credibilità quale mai nessun altro aveva avuto in precedenza. .
La prima delle due dinamiche
riguarda la crisi dell’iniziativa mazziniana.
Tra il 1843 e il 1845 vengono tentati tre colpi insurrezionali ispirati
allo schema mazziniano, anche se non autorizzati o incoraggiati direttamente da
Mazzini, che si risolvono in altrettanti drammatici insuccessi:
nell’agosto-settembre del 1843 falliscono i moti avviati in Romagna; nel giugno
del 1844 è la volta di una spedizione organizzata dai fratelli Attilio ed
Emilio Bandiera, ex ufficiali della marina austriaca, che, sbarcati con una
ventina di compagni in Calabria con l’intenzione di promuovere una sollevazione
contadina, traditi da uno dei congiurati, sono catturati dai militari borbonici
e fucilati insieme a sette dei loro compagni nei pressi di Cosenza; nel
settembre del 1845 un altro tentativo di sollevazione, questa volta a Rimini,
non raggiunge l’obiettivo. Di fronte a questi ripetuti insuccessi, una buona
parte di opinione pubblica comincia a
dubitare della bontà del progetto mazziniano, o quanto meno della sua
realizzabilità a tempi brevi. Me
Mentre la popolarità di
Mazzini è ai minimi storici, nel 1846 muore papa Gregorio XVI; il 17 giugno
dello stesso anno viene eletto papa il cardinale Giovanni Maria Mastai
Ferretti, col nome di Pio IX. Il 16 luglio il nuovo pontefice concede
l’amnistia ai detenuti politici e agli esiliati, annunciando anche
l’istituzione di commissioni di studio per l’introduzione di riforme
istituzionali. Questi atti alimentano immediatamente l’enorme popolarità di un
pontefice che fin da subito sembra incarnare la figura del papa liberale
immaginata da Gioberti: l’editto del 15 marzo 1847 che attenua la censura sulle
pubblicazioni di carattere politico, e l’istituzione di un organismo consultivo
(la Consulta di stato) decisa il 14 aprile 1847, sembrano darne la più chiara
delle conferme. Intanto la pressione dell’opinione pubblica liberale e
patriottica, galvanizzata dalla politica pontificia, si fa sentire anche
altrove, e così in Toscana, nel maggio del 1847, Leopoldo II autorizza la
pubblicazione di periodici politici e attenua la censura, mentre il 24 agosto
riforma la composizione della Consulta di stato.
Nel luglio per cercare di
intimidire il pontefice e bloccare l’evoluzione politica in atto, il feldmaresciallo
Radetzky, governatore militare austriaco del Lombardo Veneto, decide di
rafforzare il contingente militare che gli austriaci, secondo l’Atto finale del
Congresso di Vienna, possono tenere a Ferrara (all’interno, dunque, dello Stato
pontificio), facendo in modo, tuttavia, che l’operazione sia la più plateale
possibile. La mossa suscita le reazioni delle autorità di vari stati italiani,
fra cui quella di Carlo Alberto, tendenzialmente antiaustriaco. Invece di
bloccare l’evolversi degli eventi la mossa austriaca fa perfino accelerare gli
incontri che portano alla firma di un accordo preliminare per la realizzazione
di una lega doganale tra Regno di Sardegna, Toscana e Stato Pontificio. Nel
giro di poco più di un anno, aspetti fondamentali del programma moderato e
neoguelfo sono già realizzati mentre numerose manifestazioni di piazza
attribuiscono alle riforme un significato patriottico che, in larga misura, non
hanno.
Dall’autunno del 1846 i
prezzi dei prodotti agricoli hanno preso a salire, segno di una crisi che nel
1847 si dispiegherà in tutta la sua ampiezza. Là scoppiano tumulti contro
l’incremento dei prezzi dei beni di prima necessità, che gli esponenti liberali
sanno sfruttare per chiedere l’istituzione della guardia civica, un corpo di
guardie armate composto da membri delle classi più abbienti, che viene
presentato a gran voce come il primo nucleo della cittadinanza in armi, mentre
funziona soprattutto come strumento di immediata autodifesa proprietaria.
Capitolo 5 – Il 1848-1849
La fase “neoguelfa” - Ai primi di gennaio del 1848 continuarono le tensioni
sociali e politiche. In varie città ci furono manifestazioni pacifiche a favore
del pontefice e delle riforme, mentre a Milano il 3 gennaio una serie di
scontri tra patrioti e militari austriaci danno come bilancio 5 morti e 50
feriti tra i civili. La rivoluzione, però, scoppierà a Palermo quando il 12
gennaio, giorno del compleanno di Ferdinando II di Borbone, parte
un’insurrezione per motivi patriottici, sociali e d’opposizione. La lotta non
riguardò solo Palermo come nel 1820, ma riguardò tutta la Sicilia. Dopo giorni
di scontri il 27 gennaio il governatore di Palermo, De Sauget, abbandona la
città. A Napoli la rivolta viene vista bene dai patrioti, che vi vedono una
buona opportunità per riforme e concessioni liberali da parte del sovrano.
Ferdinando II avvia una politica per depotenziare i gruppi patriottici. Il 27
gennaio viene comunicata la decisione del re di esiliare il capo della polizia,
il marchese Del Carretto, notizia ben accolta dai patrioti che richiesero anche
una costituzione. Due giorni dopo Ferdinando II concede una costituzione che
prevede una camera elettiva, ma questa mossa non ha alcun effetto sui rivoltosi
siciliani, che il 2 febbraio a Palermo costituiscono un Governo provvisorio che
annuncia la volontà di adottare, dopo un’opportuna revisione, la costituzione
siciliana del 1812. Diversa la reazione in altre città della penisola, dove in
seguito alla decisione dei Borbone, le manifestazioni per la costituzione si
intensificano. I sovrani dei principali stati riconoscono di non poter fare
molto di diverso da ciò che ha fatto Ferdinando II a Napoli, se non vogliono
perdere il controllo della situazione. L’8 febbraio Carlo Alberto annuncia la
concessione dello statuto. Il 10 febbraio Pio IX dirama un ambiguo proclama,
interpretato dall’opinione pubblica come un annuncio di riforme costituzionali
(sebbene non vi si faccia esplicito riferimento). Tale dichiarazione era priva
di intenzioni politiche, ma piena di riferimento a Dio e alla religione,
stringendo nel contesto culturale dell’epoca un nodo serrato tra tradizione
cattolica e la nuova fede nazionale, che provoca a Roma e in Italia scene di
entusiasmo incontenibile, che accelerano ancora di più il succedersi di atti di
riforma.
L’11 febbraio viene
pubblicata la costituzione di Napoli mentre a Firenze il granduca Leopoldo II
annuncia l’istituzione di una rappresentanza nazionale. Il 12 il papa forma un
nuovo Governo aperto ai laici. Il 15 Leopoldo II firma il testo dello statuto
toscano, reso pubblico due giorni più tardi. Il 4 marzo anche lo statuto
piemontese viene approvato e pubblicato (documento 31) mentre, infine, il 13
marzo i cardinali e il papa approvano lo statuto fondamentale per il governo
temporale degli stati della Chiesa. I sogni dei neoguelfi paiono realizzarsi in
poco tempo: non solo il papa partecipa attivamente al movimento di riforme in
cui i principali sovrani italiani si trovano coinvolti ma egli stesso, insieme
a Ferdinando II, a Leopoldo II e a Carlo Alberto ha concesso la costituzione
con un Parlamento rappresentativo, un gesto che appena pochi anni prima sarebbe
stato considerato improbabile perfino nella più ottimistica delle previsioni.
I testi costituzionali
concessi in Piemonte, Toscana, Stato Pontificio e Napoli hanno una struttura
comune. Ricalcati sul modello delle costituzioni francese del 1830 e belga del
1831 prevedono un Parlamento bicamerale a cui è attribuito il potere
legislativo, composto da una camera bassa elettiva a suffragio censitario e
capacitario e da una camera alta di nomina regia vitalizia. Essendo carte
octroyées (cioè concesse dai sovrani) non sorprendentemente identificano il
monarca come il perno centrale dell’architettura costituzionale, attribuendogli
l’iniziativa legislativa (insieme al Parlamento) e riservandogli il potere
esecutivo, il potere di nomina dei funzionari dello stato, della responsabilità
della politica estera, il ruolo di capo delle forze armate. Il Governo, scelto
dal sovrano, è responsabile nei suoi confronti e non nei confronti del
Parlamento. Questo sistema significa che gli statuti non prevedono l’istituto
del voto di fiducia parlamentare al Governo, la cui esistenza dipende solo ed
esclusivamente dal volere sovrano. Però, gli statuti aprono spazi di libertà
fino ad allora sconosciuti, come con la liberà di stampa e di associazione,
premessa per il riconoscimento dei diritti uguali a ebrei e protestanti (come
in Piemonte dove con una serie di norme del 1848 vengono estesi i diritti anche
a loro, mentre le Regie patenti del 17 febbraio concessero l’equiparazione ai
valdesi). Nei mesi seguenti i sovrani nominarono governi affidati a personalità
di riconosciuto orientamento liberale, mentre si convocano le elezioni delle
camere basse.
Tra febbraio e marzo la
rivoluzione, inizialmente circoscritta all’Italia, assume carattere
internazionale. Il 22 febbraio scoppia a Parigi un’insurrezione che costringe
alla fuga il re Luigi Filippo e porta alla proclamazione della repubblica. Il
13 marzo scoppiano agitazioni anche a Vienna, dove la situazione precipita
rapidissimamente: il 14 Metternich viene costretto alle dimissioni da capo del
Governo e viene fatto allontanare dalla capitale. Il 15 viene concessa la
libertà di stampa e la formazione della guardia nazionale. Il 16 viene
annunciata la concessione di una costituzione.
Gli eventi di Vienna si
ripercuotono sui territori italiani dell’impero. A Venezia il 17 marzo
un’imponente manifestazione patriottica costringe il governatore Palffy a
liberare Tomaseo, Manin e altri patrioti incarcerati nel gennaio precedente. Il
18 una nuova manifestazione spinge Palffy ad autorizzare la formazione di corpi
di Guardia civica. In quello stesso giorno Milano insorge; contrariamente alle
aspettative nutrite dalle autorità austriache, le campagne partecipano
all’insurrezione. Dopo 5 giorni di scontri tra patrioti e militari austriaci,
Milano viene liberata e in città si forma il Governo provvisorio. Moltissimi i
morti. Il 22 anche a Venezia un’insurrezione conduce alla proclamazione della
repubblica nella città, affidata alla guida di Daniele Manin e Niccolò
Tommaseo.
Il 23 marzo Carlo Alberto
decide di intervenire sul Lombardo Veneto dichiarando guerra all’Austria. Tre
giorni dopo le truppe piemontesi arrivano a Milano. Il 21 marzo un proclama di
Leopoldo II annuncia l’invio di un corpo di milizie regolari e volontarie. Tra
il 24 e il 26 marzo essi, guidati da Giovanni Durando e Andrea Ferrari, partono
da Roma per andare a presidiare il confine padano dello Stato Pontificio, ma sconfinando
ben presto oltre. Alla fine di marzo anche il governo di Napoli invia un corpo
di spedizione a sostegno dell’azione piemontese e solo alla fine di aprile
l’ammiraglio Da Cosa parte con una squadra navale per l’Adriatico, mentre il 4
maggio si mette in marcia il corpo di spedizione guidato da Guglielmo Pepe.
Ad aprile il progetto
neoguelfo sembra sugellato da 4 sovrani costituzionali per liberare il Lombardo
Veneto dagli austriaci. Il sostegno attivo alla rivoluzione nazionale è diffuso
anche tra il Ducato di Parma e Piacenza e Modena, che a fine marzo, inizio
aprile, i sovrani lasciano il campo ai governi provvisori di ispirazione
liberal-nazionale che organizzano corpo di spedizione misti tra regolari e
volontari. Altri partono da Milano (battaglione di Luciano Manara) e da altre
città padane che si uniscono all’esercito regolare sardo. Persino Mazzini (7
aprile a Milano) è benevolo con Carlo Alberto, una posizione che crea una
rottura tra repubblicani e democratici lombardi come Carlo Cattaneo e Giuseppe
Ferrari, intransigenti contro la monarchia.
Il quadro positivo, però,
muta velocemente per tre fattori:
1)
l’evoluzione
politica compiuta da Pio IX nel mese di aprile. Dopo aver ricevuto il 16 aprile
dal suo rappresentante a Vienna un dispaccio con una reazione negativa
dell’opinione pubblica austriaca alla sua decisione di autorizzare l’invio del
corpo militare il papa ha l’idea di sganciarsi dalla rivoluzione nazionale, in
quanto guida spirituale di una comunità di fedeli che non ha confini di stato. Ripensamento
ufficializzato il 29 aprile, dove il papa dice di non poter autorizzare una
guerra tra cattolici (documento 32). L’opinione pubblica italiana ne rimane
delusa e abbandona l’idea di un papa come guida nazionale al risorgimento.
2)
Il desiderio di
Carlo Alberto e del Governo piemontese di procedere all’annessione al Piemonte
delle parti liberate della Lombardia, Veneto ed ex Ducati, che viene compiuta
tra aprile e giugno con plebisciti che decretano l’annessione di Piacenza,
Parma, Modena, Reggio, Padova, Rovigo, Vicenza, Treviso e tutta la Lombardia
(salvo Mantova, mentre la Venezia repubblicana solo ai primi di luglio da
un’assemblea provinciale eletta un mese prima a suffragio universale maschile).
Come effetto delle annessioni il 27 luglio si forma il primo ministero
italiano. Comprende due milanesi (Casati, presidente, Durini, agricoltura e
commercio) un piacentino (Gioia, giustizia), un veneziano (Peleocapa, Lavori
pubblici), due genovesi (Pareto, esteri, Ricci, finanze), due piemontesi non torinesi
(Rattazzi, istruzione pubblica, Plezza, interni), due piemontesi dell’elite
nobiliare torinese (Giacinto Provana di Collegno, guerra e marina, Guglielmo
Moffa di Lisio, ministro dei rapporti col sovrano, avevano compartecipato alla
congiura liberale del 1821). La scelta dell’annessione a guerra ancora in corso
turba democratici e repubblicani (compreso Mazzini) e convince Ferdinando II di
Borbone delle intenzioni egemoniche del Piemonte e quindi fa marcia indietro
sull’esperienza nazional-costituzionale. Iniziano dei dissensi tra sovrano e
opinione pubblica e il 14 maggio circola la voce di un agguato ai deputati a
Napoli, in occasione della prima seduta del Parlamento. Nasce un’insurrezione,
l’esercito prende il controllo della città e il re scioglie il Parlamento e
ritira le truppe dal fronte padano, e qui si chiude la sua partecipazione alla
lotta nazionale. Nei mesi seguenti si ricostituirà un Parlamento che si riunirà
per brevissimi periodi, sotto la minaccia dello scioglimento militare. Nel 1848
l’esercito Borbonico reprimerà le insurrezioni nel Regno, soprattutto in
Sicilia, che intanto si dà le sue istituzioni costituzionali (completate nel
1849 con la conquista di Palermo, vedi nota pag. 80).
3)
Andamento della
guerra del Piemonte contro l’Austria. Condotta inizialmente con successo a Goito, Monzambano e Valeggio 8-11 aprile,
Pastrengo 30 aprile, Goito, Curtatone e Montanara, 29-30 maggio, episodio che
ha propiziato la presa della roccaforte di Peschiera, uno dei vertici del
quadrilatero di fortezze austriache (le altre erano Mantova, Verona, Legnano).
Un lungo periodo di inazione piemontese permette agli austriaci di
riorganizzarsi e il 22 luglio inizia la controffensiva che porta tre giorni
dopo alla sconfitta piemontese di Custoza. Carlo Alberto si ritira a Milano,
con la decisione di non difenderla e ritirarsi nei confini del regno di
Sardegna. Il 9 agosto al generale Salasco spetta il compito di firmare
l’armistizio con il generale Hess, delegato dal comandante in capo delle forze
armate imperiali, feldmaresciallo Radetzky. La Lombardia è di nuovo in mano
agli austriaci. Venezia continua a resistere e permangono ancora i regimi
costituzionali di Piemonte, Toscana e Roma.
Il tempo della democrazia
A Roma – Nel corso dell’estate a Roma il pontefice e le
forze moderate fanno fatica a tenere a freno gli esponenti politici liberali e
i rappresentanti dei più democratici circoli popolari, che chiedono al Governo
una linea più coerente con gli obiettivi e le speranze dell’opinione nazionale.
Ad agosto la Camera, eletta in primavera, chiude per la pausa estiva e i lavori
sono aggiornati al 15 novembre. Nell’intervallo, il 16 settembre il papa nomina
Pellegrino Rossi, come capo del nuovo governo. Costui è stato ambasciatore del
governo francese di Guizot e Luigi Filippo presso la Santa Sede, ma dopo la
rivoluzione di febbraio non è più in servizio. È un giurista ed economista di
prestigio, favorevole al sistema costituzionale, contrario a un’ulteriore
partecipazione dello Stato Pontificio a una guerra nazionale. Per questo appena
nominato si scatenano attacchi della stampa, proteste di gruppi democratici nei
confronti del nuovo capo del Governo, contro il cui programma si sostiene la
linea indicata da Mazzini fin dal maggio-giugno precedente dalle pagine
dell’Italia del Popolo, imperniata sulla convocazione di un’assemblea
costituente italiana e sulla ripresa della guerra nazionale.
Il 15 novembre la situazione
precipita. Giovani volontari che avevano combattuto in Veneto, collegati con il
Circolo popolare di orientamento democratico, aggredisce e uccide con una
coltellata Pellegrino Rossi mentre sta entrando nel palazzo della Cancelleria
per la ripresa della sessione parlamentare. La sera del 15 Roma è percorsa da
gruppi di democratici e di popolani esultanti. Il giorno dopo una folla si
raduna davanti al Quirinale per chiedere un Governo democratico. Pio IX
incarica il patriota Giuseppe Galletti di dire alla folla che non avrebbe
concesso nulla sotto le minacce. Scatta l’assalto al Quirinale e il Papa, spaventato,
acconsente a nominare un ministero di impronta democratica che poi
effettivamente farà, affidandolo a monsignor Muzzarelli. Pio IX il 24 novembre,
però, fugge da Roma rifugiandosi a Gaeta, nei territori del Regno delle due
Sicilie. I circoli democratici prevalgono, favorevoli all’elezione di una
costituente romana che decida la forma dello stato nuovo. Le elezioni
dell’assemblea si tengono a suffragio universale maschile diretto, il 21
gennaio 1849 e si prolungano per diversi giorni. Il 5 febbraio si aprono i
lavori della costituente, che appena 4 giorni più tardi (9 febbraio) proclama
l’istituzione della repubblica sulla base di un decreto redatto da Quirico
Filopanti che dice:
a)
che il papato è
decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello stato romano;
b)
che il pontefice
avrebbe avuto tutte l’indipendenza necessaria per l’esercizio spirituale;
c)
la forma di
governo dello stato sarebbe stata la democrazia pura, sotto il nome di
Repubblica Romana
d)
essa avrebbe
avuto col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.
Vengono decise le abolizioni
del Tribunale del Sant’Uffizio, l’eliminazione della censura sulla stampa, la
nazionalizzazione di tutte le proprietà degli enti ecclesiastici.
Il 5 marzo arriva Mazzini che
in un’elezione suppletiva viene eletto membro dell’Assemblea. Chiede che si
predisponga nuovamente la guerra contro l’Austria, in funzione nazionale. Il 6
marzo l’Assemblea approva una mozione favorevole all’unificazione con la
Toscana e il 15 decide di indire nuove elezioni per scegliere tra i deputati
coloro che rappresenteranno la Repubblica alla futura assemblea costituente
italiana (elezioni che non si terranno). Infine delibera di inviare 10000
uomini in appoggio al Piemonte, ma il 29 marzo giunge a Roma la notizia della
sconfitta a Novara.
L’idea del Piemonte vincitore
sull’Austria svanisce. Il 18 febbraio a nome del papa il cardinal Antonelli
chiese l’intervento militare alla Francia, Austria, Spagna e Napoli per
ristabilire lo Stato Pontificio. Riunitasi in un comitato segreto l’Assemblea
decide nella sera del 29 marzo di nominare un triumvirato, nelle persone di
Mazzini, Armellini e Saffi, a cui concede poteri illimitati per la guerra
d’indipendenza e per la salvezza della Repubblica.
Nel frattempo il Governo
della Repubblica cura la legislazione sociale, davvero avanzata. Il 15 aprile
viene stabilito che le terre di proprietà ecclesiastica, ora nazionalizzate,
siano divise in piccoli appezzamenti e date alle famiglie del popolo sfornite
di altri mezzi in affitto permanente contro un modesto canone da pagare alle
casse dello stato. Tale normativa, precisata il 27 aprile, non entra in vigore
per le drammatiche vicende militari.
Alla fine di aprile una
guarnigione militare francese sbarca a Civitavecchia. L’Assemblea francese è
formata dalle componenti conservatrici e clericali e il nuovo presidente della
Repubblica, Luigi Bonaparte, conta di attirarsene le simpatie con un intervento
restauratore del potere papale. Mazzini invita alla resistenza, accolta anche dall’assemblea.
Tra i combattenti Garibaldi nella sua Legione Italiana, e Luciano Manara, con i
suoi Bersaglieri lombardi, che arrivano a Roma il 29 aprile. Sono 10000 tra
loro, regolari e volontari, le truppe francesi 6000. Il generale austriaco
Oudinot attacca il 30 aprile ma trova un’accanita resistenza. I suoi soldati
sono respinti e devono ritirarsi. Garibaldi e i suoi legionari li inseguono ma
il triumvirato dà ordine di fermare la controffensiva, nella speranza di poter
intavolare trattative. Tra la fine di aprile e i primi di maggio le Legazioni
sono attaccate e riconquistate dagli austriaci che occupano Bologna. Da sud
muovono i soldati di Ferdinando II che arrivano fino a Frascati e Albano, per
poi essere ricacciati indietro dai Garibaldini. Il 17 maggio il Governo
repubblicano stipula una tregua con i francesi fino al 4 giugno. La tregua
serve ai francesi per rafforzare il corpo di spedizione che a maggio è di
35.000 uomini con 75 cannoni. La Repubblica invece ha 19.000 soldati, tra cui
1800 volontari non troppo ben armati.
La fine della Repubblica – tradendo i patti il generale Oudinot riprende
l’attacco su Roma il 3 giugno con un giorno di anticipo alla scadenza della
tregua. Gli scontri durano fino a fine mese dove muoiono Enrico Dandolo, Luciano
Manara e Emilio Morosini, mentre Goffredo Mameli, colpito a una gamba,m muore
per cancrena un mese dopo. Tra il 29 e il 30 giugno c’è l’assalto definitivo
dei francesi, che il 3 luglio sono in grado di occupare Roma. Nello stesso
momento, come atto simbolico conclusivo, l’assemblea emana la costituzione
della Repubblica romana (documento 33).
Garibaldi si ritira, ma lo
seguiranno solo 4.700 uomini. Molti volontari disertano, altri diventano
banditi. Il 31 luglio Garibaldi arriva con Anita, gravemente malata, e pochi
altri, a San Marino che gli dà ospitalità. Lì con un ordine del giorno scioglie
i militi dall’obbligo di accompagnarlo. Gli austriaci minacciano la Repubblica
e a quel punto Garibaldi è costretto ad andarsene. Insieme ad Anita va a
Cesenatico dove si imbarca approdando alla foce del Po di Goro, sotto la mira
austriaca. Il 4 agosto Anita muore. Garibaldi continua la sua fuga in Toscana,
fino in Maremma dove trova un imbarco che lo conduce, il 5 settembre, a
Chiavari. Fino al 15 settembre viene tenuto in arresto dalle autorità del Regno
di Sardegna. Il governo piemontese poi decide di dargli dei sussidi a vario
titolo e di mandarlo via, a Tunisi (16 settembre). Il bey di Tunisi non vuole
farlo sbarcare allora le autorità lo conducono alla Maddalena, dove rimarrà un
mese. Poi va a Gibilterra da dove le autorità inglesi lo cacciano. Il 14
novembre 1849 si rifugia a Tangeri, ospite per 7 mesi del console sardo, prima
di trasferirsi nel 1850, per qualche anno, negli Stati Uniti.
Mazzini decide di restare a
Roma da cittadino privato, sfidando le autorità militari francesi. Il 12 luglio
anche lui va verso Marsiglia, poi a Losanna.
In Toscana – tra la primavera e l’estate del 1848 a Firenze si
succedono dei Governi di orientamento moderato, l’ultimo dei quali si insedia
il 17 agosto ed è guidato da Gino Capponi. Anche qui vi sono numerose proteste
sociali e politiche, particolarmente vivaci a Livorno, dove ha un ruolo il
leader scrittore democratico Francesco Domenico Guerrazzi. Capponi nomina
Leonetto Cipriani governatore della città e i popolani filoguerrazziani
insorgono, prendendo a fucilate le truppe fiorentine e cacciandole. Intanto
Giuseppe Montanelli, docente all’Ateneo pisano, di orientamento
nazional.-democratico, dato per morto a Curtatone, torna in Toscana, acclamato
da tutti con entusiasmo. Leopoldo II gli affida il compito di riportare la
calma a Livorno. Lì l’8 ottobre Montanelli fa un discorso nel quale espone il
progetto di un’assemblea costituente italiana riprendendo anche lui l’idea che Mazzini
ha lanciato sin da maggio dalle pagine del suo giornale l’Italia del Popolo.
Il 27 ottobre Leopoldo II
cerca di fronteggiare la situazione nominando presidente del Consiglio proprio
Montanelli, in un Governo che ha come ministro dell’Interno Guerrazzi. Tuttavia
si profila un dissidio tra i due: Montanelli continua a sostenere il progetto
della convocazione di una costituente italiana e non nasconde le sue simpatie repubblicano
- democratiche. Guerrazzi è invece più cauto e ritiene necessario consolidare
la situazione politica interna, prima di lanciarsi in un’avventura nazionale e
repubblicana.
Il 23 gennaio 1849
l’Assemblea toscana approva un disegno di legge che stabilisce l’elezione a
suffragio universale maschile di 37 deputati toscani da inviare alla futura
assemblea nazionale costituente. Montanelli chiarisce che la costituente
sarebbe stata libera di essere repubblicana, se il popolo l’avesse voluto.
Il 30 gennaio, convinto di
non controllare più né il popolo né il suo Governo, Leopoldo II lascia Firenze
(più tardi, il 21 febbraio, dopo essersi recato a Siena e poi a Porto Santo
Stefano, fugge anche lui a Gaeta).
L’8 febbraio, al diffondersi
della notizia della fuga del sovrano l’Assemblea, condizionata dalla pressione
dell’opinione democratica, nomina un triumvirato provvisorio formato da
Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, che tuttavia fin da subito è minato dal forte
dissenso tra i primi due. Il 10 febbraio il Governo emana un decreto che
stabilisce l’elezione a suffragio universale maschile di un’assemblea toscana,
mentre con un altro decreto del 14 febbraio detta le norme per l’elezione dei
37 rappresentanti alla costituente italiana. Le elezioni si celebrano il 12
marzo ma viene compiuto lo scrutinio solo dei deputati per l’assemblea toscana;
il 25 marzo nella seduta di inaugurazione dell’assemblea, Montanelli sostiene
l’opportunità di unire la Toscana a Roma, ma due giorni dopo i deputati
preferiscono nominare Guerrazzi dittatore temporaneo, approvando anche la sua
proposta di sospendere ogni decisione sulla proclamazione della repubblica e
sull’unione con Roma (che l’assemblea romana aveva deciso sin dai primi di
marzo).
Il 2 aprile Guerrazzi invia
Montanelli a Parigi, ufficialmente in missione diplomatica, di fatto per
allontanarlo definitivamente. Cerca, poi, di trovare un accordo con i moderati
per far rientrare il granduca in Toscana, soluzione che ritiene l’unica
possibile per evitare un’invasione austriaca, ormai probabile, dopo la
sconfitta dei piemontesi a Novara. Ma a Firenze i leader moderati gli sono
decisamente ostili. L’11 aprile popolani fiorentini e gente di campagna si
scontrano per le strade con squadre di volontari livornesi che Guerrazzi aveva
fatto venire per rafforzare il suo potere. Nel conflitto, fomentati dai
moderati che controllano il municipio di Firenze, le squadre livornesi hanno la
peggio.
Il 12 aprile il municipio,
appoggiato dalla Commissione provvisoria di Governo, composta dai moderati Gino
Capponni, Bettino Ricasoli e Luigi Serristori, sfrutta la situazione dichiarando
sciolta l’Assemblea e decaduto da dittatore Guerrazzi, che viene messo agli
arresti,.
Il nuovo Governo ha basi
fragilissime, sia politiche che militari. Il 26 aprile Radetzky, su indicazione
di Vienna, invia un corpo di spedizione in Toscana, che a parte qualche
sporadico caso di resistenza (il più significativo dei quali a Livorno, il 10 e
11 maggio) avanza senza difficoltà, e il 25 maggio è già a Firenze. A luglio le
operazioni militari hanno termine e Leopoldo II può ritornare. E fin da allora
lo statuto non è più attivo, anche se verrà formalmente abolito solo nel 1852.
A Venezia – Dopo la sconfitta patita dai piemontesi nella prima
fase della guerra, il 13 agosto 1848 a Venezia Manin costituisce un
triumvirato, formato da lui stesso, da Giambattista Cavedalis (responsabile
delle armi di terra) e da Leone Graziani (responsabile della marina). Nei mesi
seguenti Manin cerca di realizzare una politica estera che non impegni in
alcuna direzione lo stato di Venezia, cercando di tenersi aperte tutte le
strade possibili, in vista del mantenimento dell’indipendenza dall’Austria; per
questi motivo ha occasioni di scontro, anche aspro, con esponenti delle
associazioni democratiche attive in città, che preferirebbero una condotta
politico-militare più coraggiosa. Nonostante ciò Manin non perde il prezioso
sostegno degli artigiani, dei barcaioli e degli operai cittadini, che egli sa
assicurarsi con provvedimenti come il contenimento dei prezzi dei prodotti
alimentari o il reclutamento dei disoccupati per i lavori di rafforzamento
delle difese cittadine.
A dicembre il triumvirato
indice le elezioni a suffragio universale maschile per la costituzione di
un’assemblea permanente dei rappresentanti dello stato di Venezia, che va a
sostituirsi a quella che era stata eletta nel giugno del 1848, per decidere
dell’unione col Piemonte e con le altre terre liberate. Le elezioni, che si
tengono il 20 e il 22 gennaio 1849, vedono una notevole affluenza di elettori
(29.000 su 42.000 aventi diritto) e danno come risultato una maggioranza
favorevole a Manin, che il 7 marzo costituisce un nuovo governo, di cui è
ministro degli esteri.
Dopo la sconfitta piemontese
nella seconda fase della guerra il maresciallo Haynau, comandante dell’esercito
austriaco in Veneto, invita Manin ad accordarsi per la resa della città. Da
allora fino all’agosto successivo la città resiste difesa dai volontari di
varie parti d’Italia (Guglielmo Pepe, Girolamo Ulloa, Cesare Rossarol, Giuseppe
Sirtori), oltre che da un notevole numero di veneti della Terraferma, che si
sottraggono alla leva dell’esercito austriaco.
Ai primi di giugno il Governo
veneziano stipula un’alleanza con il Governo rivoluzionario ungherese, guidato
da Kossuth, nella speranza che gli ungheresi possano battere gli austriaci e
addirittura riuscire a soccorrere Venezia assediata; ma il piano si rivela
subito una fragile illusione, quando alla metà di giugno un corpo di spedizione
russo si unisce all’esercito austriaco nella repressione della rivoluzione
ungherese. I tentativi di resa, intavolati dal ministro austriaco Brick,
naufragano a fine giugno, quando l’assemblea respinge l’ultimatum austriaco. La
città non ha cibo e è invasa dal colera. Ai primi di agosto la resistenza è
impossibile. Il 22 agosto i delegati del Governo veneziano firmano la
capitolazione, approvata due giorni dopo dal Governo stesso. A Manin, a
Guglielmo Pepe e ad altri leader della resistenza Veneziana viene data la
possibilità di allontanarsi da Venezia a bordo di una nave francese, che li
conduce in esilio, mentre gli austriaci entrano in città.
Il Piemonte tra ripresa della
guerra e dopoguerra. Un anno prima, in Piemonte, mentre il generale Salasco
firma l’armistizio del 9 agosto 1848. la prima conseguenza è che il Governo
italiano presieduto da Casati a meno di due settimane dal suo insediamento si
dimette. Poi a Torino tra l’estate e il dicembre 1848 si susseguono diversi
ministeri, l’ultimo dei quali guidato da Vincenzo Gioberti. Costui matura un
complesso progetto che prevede la guerra in Toscana con la restaurazione dei
sovrani legittimi a Firenze e a Roma e la guerra con l’Austria. Il programma
non è condiviso né dal Governo, né dal sovrano. Il 19 febbraio 1849 Gioberti si
dimette e il re lo sostituisce con il generale Chiodo, ministro della Guerra,
mantenendo al loro posto gli altri ministri in carica. Carlo Alberto sceglie
questa soluzione alla crisi ministeriale, in vista della rapida realizzazione
di una parte solo del programma, ovvero la ripresa della guerra all’Austria,
che viene concepita anche come una forma di concorrenza con i democratici
toscani e romani sul terreno della legittimità nazional-patriottica.
Il 12 marzo l’armistizio con
l’Austria è rotto. Questa seconda fase della guerra inizia il 20 marzo per
concludersi disastrosamente solo tre giorni dopo con la sconfitta di Novara. La
sera stessa Carlo Alberto Abdica. Il 24 marzo a Vignale, il suo successore
Vittorio Emanuele II si incontra con Radetzky per fissare le condizioni
dell’armistizio. Dopo aver nominato come capo del Governo De Launay, Vittorio
Emanuele II fa pubblicare un proclama nel quale, annunciando la sua successione
al trono, afferma che l’impresa ora era salvare l’onore e consolidare le
istituzioni costituzionali.
Le condizioni di pace imposte
dall’Austria al Piemonte sono gravose. De Launay non riesce a farle accettare
alla Camera e così il re lo sostituisce con Massimo d’Azeglio. Nel corso
dell’estate del 1849 anche lui trova opposizione parlamentare. Vittorio
Emanuele II, d’accordo con d’Azeglio, scioglie la Camera e convoca nuove
elezioni, annunciate il 20 novembre con il proclama di Moncalieri, sede del
castello reale da cui viene emanato. Il proclama era stato scritto da
d’Azeglio, e faceva pressioni all’elettorato che elesse il 9 dicembre una
camera favorevole al trattato di pace. La crisi è superata e il Regno di
Sardegna può iniziare la sua epoca costituzionale.
Politica e antropologia di una
rivoluzione - C’erano numerose
spaccature tra i vari fronti patriottici. In Piemonte la camera rappresentativa
viene eletta da una ristretta elite (la legge elettorale piemontese del 17
marzo 1848 attribuisce il diritto di voto a meno del 2% della popolazione), a Venezia, Toscana
e Roma si introduce il suffragio universale maschile. Mentre in Piemonte si
conserva l’autorità del sovrano, sia pure sottoposta a limiti statutari,
altrove si sceglie la via della Repubblica. Mentre lo statuto albertino è una
carta concessa dal re, a Roma viene convocata una costituente per
l’elaborazione di un testo costituzionale che sia espressione della sovranità
popolare.
Tutte hanno come comune
riferimento la nazione italiana, il suo risorgimento e la sua indipendenza.
Ogni rappresentante d’area, però, si sente il legittimo vero interprete dei
voleri della comunità nazionale, esprimendo ipotesi inconciliabili come
monarchia contro repubblica, assetto liberal-censitario contro assetto
democratico ecc.
Nemmeno gli schieramenti sono
compatti al loro interno, soprattutto quello democratico, che stenta a trovare
una convincente leadership comune. Soprattutto a Firenze e Venezia si scatena
questo tipo di instabilità politica.
Anche il versante moderato
esce dall’esperienza rivoluzionaria molto cambiato. L’ipotesi neoguelfa ne
emerge priva di ogni credibilità, già fin da quando il pontefice, con
l’allocuzione del 29 aprile 1848 si sgancia nettamente dal movimento nazionale;
né maggiore forza conserva l’ipotesi federalista moderata, cioè la soluzione
che prevede la formazione di uno stato unitario attraverso la federazione delle
monarchie esistenti. Le spinte espansionistiche del Piemonte verso la parte
centro-orientale della pianura padana rendono definitivamente sospettosi gli
altri sovrani nei confronti di un possibile accordo, fosse anche solo nella
forma attenuata di una lega doganale, mentre la linea politica antiliberale
seguita dal pontefice, da Leopoldo II e da Ferdinando II dopo la fine della
rivoluzione, con l’abolizione formale o di fatto delle costituzioni, chiude
definitivamente questa possibilità.
Viceversa il Piemonte, pur
avendo subito due sconfitte militari, la seconda particolarmente disonorevole,
esce rafforzato. ; è l’unico stato italiano che conserva lo statuto e un
Parlamento con una camera elettiva; è anche uno stato che, accettando di
ospitare moltissimi esuli che vi affluiscono dagli altri stati italiani al
momento delle restaurazioni-reazioni, si accredita presso l’opinione pubblica
patriottica della penisola come uno dei suoi più concreti punti di riferimento.
Sebbene impossibile da
quantificare in modo attendibile, ceto il peso di quella opinione pubblica, in
tutte le sue molteplici incarnazioni, si è mostrato, nei due anni
rivoluzionari, assolutamente determinante; e il radicamento e la forza degli
ideali nazionali trovano proprio nelle esperienze della rivoluzione una delle testimonianze
più rilevanti.
Fin dal 1847 le
manifestazioni pubbliche, le feste politiche, i riti collettivi diventano una
delle pratiche più diffuse e più importanti della parabola rivoluzionaria. Le
si dovrebbe interpretare come delle messe in scena drammaturgiche della
struttura e dei valori simbolici a cuoi la comunità vuole richiamarsi (o a cui
gli opinion makers suggeriscono che la comunità si richiami). Gli elementi
simbolici del discorso nazionale elaborato nella letteratura patriottica dei
trent’anni precedenti animano largamente i momenti più significativi di questi
rituali. Giuramenti collettivi, invocazioni alla fratellanza, celebrazioni di
Te Deum, esaltazioni degli eroi nazionali (come Francesco Ferrucci, morto a
Gavinana nel 1530 per difendere la libertà di Firenze, o come i combattenti
della Lega lombarda, che intorno al Carroccio avevano lottato contro il
Barbarossa nel 1176) accompagnano i momenti cruciali delle feste con le quali,
in diverse parti d’Italia, si vuole esaltare Pio IX o chiedere garanzie
costituzionali, o l’istituzione della guardia civica, o festeggiare la
concessione dello statuto (documento 34).
In ciascuna occasione
decisivo è l’intreccio tra tradizione cattolica e repertorio politico. Da una
parte la simbologia rivoluzionaria rimanda alla natura dell’elaborazione
culturale attraverso la quale è stato costruito il discorso nazionale.
Dall’altro è certamente sollecitata fino al parossismo dal mito di Pio IX come
papa nazional-liberale anche quando ne sovra interpreta le intenzioni (documento
35).
Questi due elementi aumentano
la partecipazione di religiosi e di insurrezioni. E se la svolta politica
compiuta da Pio IX nell’aprile 1848 tende ad attenuare il fenomeno, e certo a
mettere un freno alla partecipazione dei più alti prelati alle iniziative
pubbliche, non cancella del tutto le convinzioni patriottiche di almeno una
parte del clero che, ad esempio, nel Lombardo Veneto continuano ad essere
sostenute anche dopo la fine della rivoluzione.
La presenza del clero spiega
la partecipazione delle comunità rurali alle insurrezioni, come a Milano e
nelle città padane. Inoltre anche per la crisi economica e il risentimento
sociale che attraversava le campagne italiane. Il clero era la strada per i
contadini che non avevano avuto contatti ne con Mazzini ne con i moderati. I loro animi sono anche molto mutevoli.
Il cuore delle rivoluzioni
erano le città, dove la leadership politica è riservata a nobili e borghesi, ma
la partecipazione popolare è significativa. Anche in città il popolo è attratto
dalla partecipazione del clero patriota e dalla partecipazione di predicatori
come Alessandro Gavazzi o Ugo Bassi, oltre che le spinte di carattere economico
e sociale. Qui esiste una maggiore penetrazione della propaganda delle
associazioni mazziniane e l’impatto del messaggio nazionale. L’esperienza delle
barricate a Milano e Napoli nel 1848 e della difesa militare delle città come
Brescia, Roma, Venezia nel 1849, ciascuna delle quali costa molte centinaia di
caduti, è prova dell’impegno e dell’attrattiva degli ideali
nazional-patriottici.
Dalla città inoltre partono i
volontari che affiancano gli eserciti regolari a Venezia e Roma e in Piemonte.
I volontari testimoniano la forza persuasiva che esercitavano gli ideali
nazional-patriottici (documento 36). I volontari erano molto più appassionati
dei regolari, con più libertà operativa e di movimento. Il volontario lascia un
impronta mitologica e simbolica importantissima, che sarà ripetuta nel 1859,
nel 1860 e nel 1866.
Nelle manifestazioni ci sono
anche molte donne. Le patriote, nonostante il loro attivismo, tendono ad essere
ricondotte al ruolo di madri, figlie, sorelle, fidanzate, mogli che confortano
gli uomini sui campi di battaglia (documento 37). D’altro canto la narrativa
nazional-patriottica ha imposto la loro centralità in queste vesti, come
sublimi depositarie dell’onore della nazione, tematica che non manca di essere
richiamata nei momenti più drammatici dello scontro militare (documento 38). Alcune
cercano di guadagnarsi spazi come Luigia Battistotti e Giuseppina Lazzaroni,
combattenti nelle barricate di Milano, o Colomba Antonietti Porzi, che dopo
aver combattuto in Veneto l fianco del marito nel 1848 cade nella difesa di
Roma il 13 giugno 1849 o di Cristina Trivulzio di Belgiojoso che, trovandosi a
Napoli al momento dello scoppio dell’insurrezione milanese, decide di
noleggiare un vapore a sue spese e poi recluta più di 180 volontari che conduce
a Genova e infine a Milano. Le donne, tuttavia, fanno fatica a farsi largo. Non
gli vengono riconosciuti diritti politici nei testi costituzionali nemmeno
nella Repubblica romana, dove in molte come Cristina Trivulzio di Belgiojoso,
Enrichetta De Lorenzo Pisacane, Giulia Bovio Silvestri Paulucci, Giulia Calame
Modena e altre vengono relegate nel Comitato di soccorso ai feriti. Il ruolo di
infermiera era più accettabile dagli uomini.
Capitolo 6 – Dopo la rivoluzione
(1850-1859)
La reazione - La sconfitta della rivoluzione lascia spazio in Italia
al ritorno degli antichi sovrani e a delle politiche di repressione. Censura,
più di quella precedente al ’48. L’Austria installa le sue truppe nelle
Legazioni e in Toscana (d’accordo con Pio IX e Leopoldo II) mentre nel
Lombardo-Veneto la linea scelta è quella di usare la mano pesante, specie con
coloro che si sono compromessi con la rivoluzione. Il progetto di Radetzky,
reinsediatosi a Milano come governatore generale militare e civile su mandato
del nuovo imperatore austriaco, Francesco Giuseppe (sul trono imperiale dal
dicembre 1848) è quello di assicurarsi la simpatia delle popolazioni contadine
svolgendo una politica di dura pressione su nobili e borghesi, ritenuti i
responsabili della rivoluzione. Tasse da pagare, esclusioni da amnistie,
arresti ai cospiratori e condanne a morte, oltre che il sequestro dei beni di
coloro che erano emigrati durante la rivoluzione, sempre nobili e borghesi del
movimento patriottico. Questo attacco non avvicina il popolo al regime
austriaco. Da un lato viene introdotto un tribunale militare itinerante con
lsede a Este che, con processi sommari, condanna a morte centinaia di contadini
accusati di delitti contro le persone e le proprietà. Dall’altro viene messo in
atto un tentativo di reintroduzione immediata delle procedure di coscrizione
militare, mentre non sono attuate misure economiche significativamente
favorevoli alle diverse categorie di contadini, e ciò non fa che aumentare il
malumore delle campagne.
Questo insieme di scelte
politiche fa si che nei confronti del Governo austriaco si alimentasse un
sentimento di odio. Un tentativo di distensione si ha solo nel 1857 quansdo
l’arciduca Massimiliano sostituisce Radetzky come governatore generale del
Lombardo veneto, incarico che cerca di svolgere avvicinando le élite locali e
provando a ottenere maggiori autonomie istituzionali per il Reegno: ma il
progetto fallisce e non riesce a mutare la disposizione negativa verso il
Governo dell’opinione pubblica nei territori itakliani.
Altrove la linea scelta non è
diversa se non per intensità. A Napoli Ferdinando II dopo aver sciolto la
Camera il 12 marzo 1849 si limita a non convocarla più e a ignorare l’esistenza
formale della costituzione. Al tempo stesso l’intervento repressivo di polizia
e tribunali si fa estremamente duro negli anni 1850-1852 quando molti esponenti
di spicco del liberalismo patriottico sono incarcerati con imputazioni
largamente pretestuose (finiscono in carcere, tra gli altri, Carlo Poerio,
Luigi Settembrini e Silvio Spaventa). E una condotta simile, sebbene dura meno
che a Napoli, si segue sia nello Stato pontificio che in Toscana.
Il Piemonte costituzionale - Di fronte a questo quadro fa eccezione il Regno di
Sardegna, che non solo ha mantenuto il suo assetto costituzionale, ma ha anche
accettato di ospitare i patrioti che a centinaia vi emigrano per trovar riparo
dalle repressioni in corso negli altri stati della penisola. Intanto, superato
lo scoglio dell’approvazione del tratttato di pace con l’Austria, il Governo
guidato da d’Azeglio si muove verso due direzioni principali: la ridefinizione
dei rapporti tra lo stato e la Chiesa all’interno dei confini del Regno di
Sardegna e la modernizzazione economica e infrastrutturale soprattutto dei
domini continentali (Piemonte e Liguria).
Un passo importante nella
prima direzione è compiuto con l’approvazione da parte del Parlamento delle
leggi Siccardi (dal nome del ministro della Giustizia) che prevedono
l’abolizione del foto ecclesiastico (cioè del tribunale speciale riservato alla
trattazione di procedimenti che avessero riguardato dei membri del clero) e del
diritto di asilo riconosciuto alle chiese e ai luoghi di culto, la riduzione
delle feste religiose riconosciute dallo stato e il divieto agli istituti ed
enti morali, ecclesiastici o laici, di acquisire immobili per acquisti, lasciti
o donazioni, senza autorizzazione regia e parere favorevole del Consiglio di
stato. Le leggi, approvate nella primavera del 1850, rendono tesi i rapporti
tra Regno di Sardegna e Stato pontificio, ma enfatizzano nettamente il
carattere liberale della compagine ministeriale, allontanandola dall’opinione
cattolico-conservatrice e dai suoi rappresentanti in Parlamento.
Nell’ottobre del 1850 entra
nel Governo il conte Camillo Benso di Cavour, un parlamentare che negli anni
precedenti si era distinto come giornalista e politico di spicco nello
schieramento liberal-moderato. Nel Governo Cavour assume l’incarico di ministro
di Agricoltura, commercio e marina. Nell’aprile del 1851 assume anche l’interim
delle Finanze, per ricevere l’incarico effettivo di ministro delle Finanze a
partire dal febbraio 1852. in queste vesti Cavour svolge un’importante azione
di rinnovamento della politica economica del Regno di Sardegna. Sostenitore di
una politica doganale di impianto liberista, tra il 1850 e il 1851 promuove una
serie di trattati doganali bilateriali con Francia, Belgio, Inghilterra (questi
due ultimi di chiara impostazione liberista) mentre con la legge 14 luglio 1851
viene approvata una nuova tariffa doganale generale che abbassa i dazi doganali
per i prodotti importati ed esportati. Di rilievo non minore è la politica di
espansione della rete ferroviaria, di riordino del sistema creditizio e di
sostegno statale alle società di navigazione liguri, attraverso accordi
privilegiati e sovvenzioni.
Il 2 dicembre 1851 in Francia
Luigi Napoleone impone la sua autorità politica con un colpo di stato che
chiude la fase della cosiddetta Seconda Repubblica. Esponenti del liberismo
piemontese, tra cui Cavour, temono che l’evento possa rafforzare in Piemonte la
posizione dell’opinione pubblica conservatrice, aprendo la strada a una
limitazione degli spazi di libertà costituzionale. Per questo, nel corso del
1852 Cavour, ancora ministro del Governo d’Azeglio, in controtendenza rispetto
alla linea politica del capo del Governo si avvicina agli ambienti politici
della sinistra parlamentare, e in particolare al suo più autorevole esponente,
Urbano Rattazzi, in vista della
costruzione di un’ampia maggioranza che unica centro e sinistra
liberale. Dopo una convulsa fase politico-parlamentare che dura da maggio (quando
Cavour viene escluso da un nuovo Governo d’Azeglio) a ottobre (quando il
Governo d’Azeglio cade, per aver sostenuto una proposta di legge che, contro il
parere del sovrano, vorrebbe introdurre il matrimonio civile), si apre la
possibilità di un incarico a Cavour. Forte di una larga maggioranza di
centro-sinistra egli ai primi di novembra del 1852 può effettivamente formare
il suo Governo. Con questa operazione ci si trova di fronte al connubio come i
conservatori chiamano, con disprezzo, l’intera operazione che sposta verso
sinistra (una sinistra liberale e costituzionale) l’asse della maggioranza
parlamentare.
Dei primi anni di governo di
Cavour vanno ricordati due momenti: la soluzione della crisi Calabiana e la
decisione di intervenire nella guerra di Crimea.
La prima questione nasce nel
1854 quando il Governo Cavour decide di cancellare dal bilancio dello stato il
pagamento della congrua ai parroci e di sostituirla con una modalità più
indiretta, definita da un progetto di legge presentato alla Camera nel novembre
del 1854 che prevede l’abolizione delle corporazioni religiose contemplative
esistenti nel Regno di Sardegna (ad eccezione di quelle dedite
all’insegnamento, predicazione e assistenza sanitaria); i beni di queste
corporazioni verrebbero trasferiti a una Cassa ecclesiastica, istituzione che,
con quella dotazione patrimoniale, si occuperebbe di pagare la congrua. Il
sovrano è nettamente contrario alla legge, tanto che il 9 febbraio 1855 invia
una lettera a Pio IX nella quale gli scrive che avrebbe fatto il possibile per
non far votare quella legge, con l’intenzione di far decadere Cavour.
Nonostante ciò nella votazione alla Camera, tenutasi il 2 marzo, i voti
favorevoli sono 116 e i contrari 36.
Ma il problema vero, per
Cavour, è il Senato, dove l’opinione moderata e clericale trova molti più
sostenitori che alla Camera. Intanto si organizza un’agitazione
extraparlamentare, mentre il 18 marzo viene formulata una controproposta,
sostenuta da senatori cattolici e vescovi, secondo la quale l’episcopato si
accollerebbe il compito di pagare 900.000 lire per le congrue dei parroci già
cancellate dal bilancio senza l’abolizione delle corporazioni religiose.
Il 23 aprile comincia la
discussione in Senato e tre giorni dopo viene ufficializzata la controproposta
dei vescovi, di cui si fa latore il senatore Nazari di Calabiana, vescovo di
Casale. Di fronte alla possibilità di essere battuto in senato, Cavour si
dimette. Vittorio Emanuele II cerca di affidare l’incarico a esponenti moderati
o conservatori, che però non accettano, consapevoli di non disporre di una
maggioranza alla Camera. A quel punto il 3 maggio il re è costretto a
confermare a Cavour l’incarico di capo del Governo. Alla ripresa della
discussione sulla legge, Cavour accetta un emendamento di due senatori che, pur
conservando nella sua sostanza il disegno di legge governativo, prevede che su
lascino i religiosi nei conventi soppressi fino all’estinzione delle comunità.
Il 9 maggio Cavour interviene con decisione nel dibattito in corso al Senato, dicendo
che visto che la società attuale si basava sul lavoro, gli ordini attuali le
andavano contro.
La votazione complessiva al
Senato si tiene il 22 maggio: 53 senatori votano a favore e 42 contro; sei
giorni dopo il progetto, nella versione emendata,m viene approvato anche dalla Camera.
L’oggetto particolare della crisi ha un notevole rilievo perché contribuisce a
definir ei rapporti di separatezza tra stato e Chiesa, anche se,m al tempo
stesso, acuisce la crisi nelle relazioni tra il Regno di Sardegna e il papa. Al
di là di ciò, tuttavia, l’evoluzione della crisi ha anche un notevole
significato politico-costituzionale. Il re viene battuto sul terreno puramente
politico, mentre con la sua condotta Cavour impone di fatto il principio
dell’autorità del Parlamento in generale, e della Camera in particolare, come
garante della responsabilità del Governo. In tal modo si rompe il principio
previsto dallo statuto, secondo cui il Governo che dispone di una maggioranza
in Parlamento e in particolare nella Camera elettiva, soluzione che forza in
direzione parlamentare l’architettura costituzionale prevista dalla carta
fondamentale del Regno.
In parallelo alla crisi
Calabiana il Governo Cavour affronta anche un’altra questione i, a carattere
internazionale, ovvero se inviare o meno un corpo di spedizione al fianco di
quello inglese e francese che dall’aprile del 1854 era imepgnato in Crimea
contro la Russia. L’operazione militare anglo-francese è stata decisa per
indurre la Russia a ritirarsi dai Principati di Moldavia e Valacchia, facenti
parte dell’Impero ottomano, occupati dai russi dal giugno del 1853. Secondo
Cavour era un modo per avvicinarsi a due potenze europee, in funzione di una
lotta antiaustriaca. Tra febbraio e marzo 1855 il Parlamento approva l’adesione
del Regno di Sardegna all’alleanza anglo-francese, entrando così in guerra con
la Russia. Il 16 agosto il corpo di spedizione piemontese ottiene una vittoria
sul fiume Cernaia mentre a settembre la conclusiva presa di Sebastopoli segnala
vittoria degli alleati contro la Russia. Nel febbraio del 1856, si apre a
Parigi il Congresso per la stipula del trattato di pace. Cavour, presente ai
lavori, riesce a far mettere sull’ordine del giorno una discussione della
situazione italiana. E così nella seduta dell’8 aprile Walewski (ministro
esteri francese) critica la presenza delle truppe austriache in territorio
dello Stato Pontificio, ritenendo possibile anche un ritiro della guarnigione
francese da Roma, mentre Clarendon (ministro esteri inglese) sostiene la
necessità di una riforma dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie.
Nel suo intervento Cavour sviluppa i precedenti osservando che una mancata
risoluzione delle questioni avrebbe trasformato di nuovo la penisola in un’area
di gravissima instabilità politica. Non ottenne nulla di concreto ma conquistò
un prezioso riconoscimento internazionale al Regno di Sardegna e col suo
intervento una conferma alle convinzioni di chi riteneva il Piemonte l’unico
solido alfiere delle ragioni di un’opinione costituzionale e nazionale
italiana.
La crisi della democrazia risorgimentale
- Mentre Cavour coglie i suoi
successi e il Piemonte costituzionale consolida il suo prestigio di stato
liberale, l’opinione democratica vive un’altra stagione difficile. Le recriminazioni
e le polemiche tra i leader democratici sulla conduzione della rivoluzione
quarantottesca non si contano, però si profilano posizioni molto varie.
Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo sostengono la necessità di lavorare per la
costruzione di una federazione di repubbliche democratiche che dovrebbero anche
mettere in atto politiche sociali radicali. Carlo Pisacane preferisce una
repubblica centralizzata, da conseguire attraverso una rivoluzione nazionale e
sociale. Mazzini resta fedele al suo programma pre-rivoluzionario, con l’idea
di organizzare una o più insurrezioni che, dopo una guerra di liberazione
nazionale, conducano alla convocazione di una costituente.
Tuttavia i tentativi tra il
1851 e il 1853 falliscono, con tanto di esecuzioni del Lombardo Veneto. Esito
negativo anche per quelli tra il 1854 e il 1856 in Lunigiana. Per Mazzini
l’insuccesso più grave fu quello a Milano il 6 febbraio del 1853.
Dopo di ciò le critiche alla
corrente mazziniana si fanno più aspre. Nel 1854 Daniele Manin, esule a Parigi,
inizia a sostenere l’ipotesi di un avvicinamento al Piemonte come sponda
politica e istituzionale, cui anche i repubblicani potrebbero rivolgersi per
realizzare l’indipendenza italiana. Nel 1855 pubblica sul Siècle di Parigi e
sul Times di Londra e sul Diritto di Torino (di sinistra costituzionale) una
dichiarazione in cui si dichiara repubblicano ma dove ritiene che
l’indipendenza e l’unificazione italiana potrebbe essere raggiunta solo sotto
la guida di Vittorio Emanuele di Savoia, possibile re di un’Italia unita.
L’anno seguente Manin propone la costituzione di una specie di partito
nazionale mentre in una lettera al Times del 25 maggio attacca Mazzini, che
identifica come un assassino politico. Un’accusa infondata, ma che evoca tutta
una serie di insuccessi di Mazzini. Inoltre la posizione di Manin riceve grande
forza dalla simpatia che gli dimostra Garibaldi, tornato in Italia nel 1854.
Cavout capisce la possibile
importanza di questo gruppo. Si incontra con Giorgio Pallavicino, in contatto con
Manin, e con Garibaldi e stabilisce rapporti permanenti con Giuseppe La Farina,
esule siciliano sulle posizioni di Manin. Ciò è il preludio della costituzione
della Società nazionale Italiana, avvenuta nell’estate del 1857. La morte di
Manin, nel settembre del 1857, fa si che il responsabile dell’associazione sia
La Farina. L’organizzazione ha l’ambizione di coordinare l’azione degli ex
repubblicani approdati a posizioni filo sabaude, opera legalmente in Piemonte
ma sostenuta da fondi riservati del Gabinetto piemontese, riesce a creare una
rete segreta di corrispondenti negli altri stati della penisola, attraverso
opuscoli, stampati e fogli di propaganda.
Nel 1856 Mazzini prende
contatti con Pisacane, che ha maturato posizioni socialiste ma è d’accordo con
Mazzini sulla necessità delle insurrezioni per raggiungere l’indipendenza
nazionale, e insieme organizzano un progetto che avrà inizio il 25 giugno del
1857, quando Pisacane e una ventina di compagni si imbarcano su un piroscafo
della linea Genova-Cagliari per impadronirsene e dirottarlo a Ponza. Lì
liberano i detenuti e si aggregano coloro che vogliono seguirli. Sbarcati a
Sapri non trovano nessuno perché nonostante accordi con Pisacane, il comitato
insurrezionale napoletano non si muove in tempo. Si inoltrano con la speranza
di avere riscontro tra i contadini ma senza successo. Il 1 luglio perdono a
Padula contro le forze borboniche e sono sbaragliati dopo qualche giorno a
Sanza. Pisacane si suicida, gli altri vengono imprigionati e uccisi. Contemporaneamente
Mazzini tenta di far scoppiare due insurrezioni, a Livorno e Genova (questa per
impedire che la monarchia del Piemonte prendesse la direzione del moto e lo
tradisse), ma fallisce. Ulteriori polemiche su Mazzini e lo spostamento
dell’opinione pubblica sulla soluzione monarchica piemontese.
Preparativi di guerra - Il 14 gennaio Felice Orsini (ex mazziniano romagnolo)
e altri tre congiurati italiani lanciano tre bombe contro una carrozza nella
quale l’imperatore francese Napoleone III e sua moglie, l’imperatrice Eugenia,
si stanno recando all’Opera di Parigi. 8 morti e 150 feriti, ma la coppia
imperiale ne esce illesa. Orsini e gli altri vengono catturati. Organizzarono
l’attentato perché avevano l’idea che Napoleone III fosse il principale alfiere
della reazione europea e il principale ostacolo all’unificazione italiana
(convinzione avvalorata dalla spedizione di Luigi Bonaparte nella Repubblica
Romana nel 1849). Orsini scrive a Napoleone prima della ghigliottina per la
causa italiana il 13 marzo 1858 e ciò dà molta visibilità alla questione
italiana. Tanto che Napoleone III riconsidera con attenzione l’opportunità di
guidare la trasformazione geopolitica della penisola piuttosto che subirla.
Nel maggio 1858 Napoleone
invita Cavour per un incontro diplomatico riservato, il 20-21 luglio, nella
stazione termale di Plombieres. I due si accordano su un possibile intervento
militare della Francia a fianco del Regno di Sardegna contro l’Austria, in
vista di un riassetto geopolitico della penisola, da concretizzarsi con la
formazione di una confederazione italiana composta di 4 regni autonomi (Alta
Italia, Centro Italia, Napoli e Roma papale); la presidenza della
confederazione sarebbe stata affidata al papa, per compensarlo della perdita di
gran parte dei suoi territori, mentre sulla destinazione delle corone dei regni
del Centro e del Sud i due fanno varie ipotesi, nessuna delle quali conclusiva.
La Savoia, e possibilmente anche Nizza, dovrebbero essere cedute alla Francia
come compenso per l’intervento militare (documento 39). Viene prevista la
stipula di un trattato di alleanza, che effettivamente viene siglato il 24
gennaio 1859. vi si parla solo della formazione di un Regno dell’Alta Italia,
da attribuire alla casa Savoia. Si prevede la cessione di Savoia e Nizza alla
Francia. Si stabiliscono le condizioni dell’aiuto militare francese (200.000
francesi, affiancati da 100.000 piemontesi al comando dell’imperatore, mentre
le spese di guerra sono a carico del Piemonte); vi è stabilito infine che
l’intervento francese si concretizzi solo in caso di un ultimatum austriaco al
Regno di Sardegna e non viceversa, in modo che all’opinione pubblica
internazionale l’esercito francese appaia nel ruolo del difensore di un piccolo
stato dai soprusi di una grande potenza.
Prima della firma del
trattato, il 10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele II fa un discorso (concordato
con Napoleone III) patriottico all’apertura della sessione parlamentare, che
apparirà molto bene agli occhi dell’opinione pubblica.
Capitolo 7 – L’unificazione (1859-1861)
La guerra contro l’Austria - Nel gennaio del 1859, quando stanno rapidamente
precedendo i preparativi per la guerra, l’esercito piemontese può contare su
47.000 uomini di truppa e 3.000 ufficiali circa. Da quella data fino al luglio
seguente, oltre agli arruolamenti ordinari c’è anche l’arruolamento di un
numero considerevole di volontari, circa 9.692 inseriti nell’esercito sardo e
4164 nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, 2500 al Corpo degli Appennini.
Dunque, oltre 16000 volontari, ma forse anche 24000, con un numero rilevante di
giovani (21-26 anni), provenienti soprattutto dal Lombardo Veneto. Una scelta
coraggiosa, sia in virtù di un ideale, sia considerando le numerose difficoltà
anche per entrare nello stesso Piemonte, di nascosto dagli austriaci che
avevano chiuso le frontiere. La maggior parte vengono da ambienti popolari o di
ceto medio, per la maggiore commercianti, artigiani e operai, ma anche gli
studenti.
Il Piemonte vuole fortemente
la guerra, ma per averla deve farsi dichiarare guerra dall’Austria e spingerla
all’ultimatum. L’arruolamento dei volontari e l’organizzazione di eserciti
porta il Governo austriaco all’ultimatum, notificato il 24 aprile 1859. Il
Parlamento piemontese vota immediatamente i pieni poteri al sovrano per tutto
il corso della guerra mentre il maresciallo Gyulai, comandante dell’esercito
austriaco, decide di attaccare subito per anticipare l’arrivo del corpo di
spedizione francese. Tuttavia il suo piano non riesce. Reparti di fanteria
francese e di cavalleria piemontese fermano gli austriaci a Montebello (20
maggio) mentre Garibaldi e i suoi Cacciatori delle Alpi, dopo aver occupato
Varese e aver sconfitto gli austriaci a San Fermo, il 27 maggio arrivano a
Como. Il 30 e 31 maggio l’esercito piemontese occupa Palestro, difendendolo da
un tentativo di controffensiva austriaca. Il 4 giugno forze francesi, sostenute
da reparti piemontesi, sconfiggono gli austriaci a Magenta e l’8 giugno
Napoleone III e Vittorio Emanuele II possono entrare a Milano. Il 12 i Cacciatori
delle Alpi occupano Brescia, il 18 entrano a Salò. In avanzata verso est, il 24
giugno l’esercito franco-piemontese si scontra con gli austriaci nella
battaglia di Solferino e San Martino. Nella prima località si fronteggiano
circa 80.000 francesi contro i circa 90.000 austriaci; nella seconda, e a
Madonna della Scoperta, 31.000 piemontesi si battono con 29.000 austriaci. La
battaglia, molto cruenta (a Solferino vi furono 1662 morti, 8530 feriti e 1518
prigionieri o dispersi tra i francesi; poco meno di 12000 morti, feriti,
dispersi, prigionieri tra gli austriaci. A San Martino vi furono 745 morti,
3278 feriti e 671 dispersi o prigionieri tra i piemontesi, 2615 morti, feriti,
prigionieri e dispersi tra gli austriaci), viene vinta dai franco-piemontesi,
che così possono avanzare in direzione Peschiera e Verona, mentre una flotta è
in avvicinamento a Venezia; quando la conquista del Veneto è a portata di mano,
piuttosto inaspettatamente Napoleone III decide di interrompere la guerra e di
stipulare un armistizio con gli austriaci (8 luglio) cui segue, l’11 luglio, la
firma dei preliminari di pace a Villafranca. È la fine della guerra, una
soluzione che getta nello sconcerto l’opinione patriottica italiana, che la
giudica indebitamente prematura e che spinge Cavour alle dimissioni da capo del
Governo.
La decisione presa da
Napoleone III era comportata da un lato dal malumore in Francia dopo la
battaglia di Solferino per l’alto numero di vittime che la guerra stava
costando al corpo di spedizione francese. Inoltre la scelta è dettata dal
timore che movimenti di truppe prussiane al confine con la Francia possano
essere il preludio di un attacco sul fronte del Reno. In terzo luogo conta
quasi certamente anche la contemporanea evoluzione della situazione politica
nei ducati, in Emilia e nel Granducato di Toscana, che sta sconvolgendo tutti i
piani previsti a Plombieres.
Le insurrezioni nell’Italia centrale e
le annessioni - Anche grazie
all’azione attiva di membri della Società nazionale, oltre che di liberali di
vario orientamento, tra la fine di aprile del 1859 e il giugno seguente una
serie di sollevazioni porta alla cacciata del granduca di Toscana, della
duchessa di Parma, del duca di Modena e delle autorità pontificie da Bologna e
dalle Legazioni e a una loro sostituzione con governi provvisori, favorevoli a
un qualche tipo di unione con lo stato che la guerra stava forgiando più a
nord. Il legame viene subito formalizzato con l’invio di governatori piemontesi
(Pallieri a Parma, Farini a Modena) o di delegati straordinari (Boncompagni in
Toscana, d’Azeglio a Bologna).
Nel corso dell’estate viene
eletta a suffragio ristretto un’assemblea toscana che il 20 agosto
all’unanimità approva l’annessione al regno costituzionale di Vittorio
Emanuele. A Modena viene eletta un’assemblea con una legge che attribuisce il
voto a tutti i maschi maggiori di 21 anni che sappiano leggere e scrivere. Il
21 agosto anche questa assemblea delibera all’unanimità l’unione dei territori
modenesi al regno di Vittorio Emanuele. A Parma viene eletta un assemblea con
una legge elettorale simile. Anche qui, l’11 e il 12 settembre, l’assemblea
decreta all’unanimità l’unione delle provincie parmensi al regno
costituzionale. A Bologna e nelle Legazioni, viene eletta un’assemblea a
suffragio ristretto, che il 7 settembre esprime un analogo parere unanime.
Ai primi di giugno si è
proceduto all’annessione formale della Lombardia al Piemonte, sulla base dei
risultati del plebiscito che si era tenuto nel 1848. il 20 novembre vi viene
pubblicato lo statuto del Regno di Sardegna, che entra in tal modo in vigore
anche nei territori di nuova acquisizione. Una procedura simile non può essere
adottata per i ducati che pure avevano partecipato al plebiscito del 1848 e
tanto meno per Bologna e la Romagna o per la Toscana, che a tale plebiscito non
avevano neppure partecipato, perché i preliminari di Villafranca hanno previsto
chiaramente che sui troni dei ducati e del granducato debbano tornare i sovrani
legittimi e che Bologna e la Romagna non debbano essere staccate dallo Stato
pontificio. Ma dopo gli atti politici che nelle terre liberate si sono compiuti
durante l’estate è difficile bloccare il procedimento di annessione senza un
nuovo intervento militare che né la Francia né l’Austria vogliono mettere in
atto, in considerazione del favore con
cui la Gran Bretagna accompagna il processo. È Cavour che più di tutti ha
chiaro il quadro completo della situazione e col programma di affrettare le
annessioni per procedere alla convocazione del Parlamento dello stato ampliato
dei nuovi territori, riceve l’incarico di formare un nuovo Governo, che entra
in carica il 21 gennaio 1860. i plebisciti vengono fissati per l’11 e il 12
marzo e prevedono la formula Unione alla Monarchia Costituzionale del Re
Vittorio Emanuele, ovvero Regno separato; possono votare tutti i maschi adulti
che abbiano compiuto 21 anni. In Emilia, su 526218 aventi diritto votano 427512
di cui 4260006 a favore dell’annessione. In Toscana situazione simile. La
partecipazione al voto e la dimensione del consenso sono frutto di propaganda e
sentimenti liberali e nazionale, il che ha fatto sollevare dubbi sul senso e
sul valore di una consultazione di questo tipo. Ma non se ne dovrebbe
trascurare la portata simbolica e politica (documento 40). Perché ci sia un
condizionamento delle masse rurali ci deve essere un buon numero di proprietari
di inclinazioni patriottiche. Inoltre il gradi di partecipazione alle vicende
del 1859 da parte degli ambienti urbani delle terre liberate, suggerito
dall’afflusso al plebiscito, è testimoniato anche sia dal numero di volontari
che partono dai ducati, dalla Romagna o dalla Toscana, sia dalle manifestazioni
di giubilo che accolgono la cacciata degli antichi sovrani e i primi passi
verso le annessioni. E così se non si deve esagerare il senso di questo rituale
di fondazione del regno, non è nemmeno saggio negargli ogni rilievo.
Il 25 marzo 1860 si tengono a
suffragio ristretto negli antichi stati sardi, in Lombardia, in Emilia e in
Toscana le elezioni per il Parlamento di Torino; il risultato è la formazione
di una solida maggioranza liberale favorevole a Cavour. Un mese più tardi (il
15 e il 22 aprile) si celebrano anche i plebisciti di annessione a Nizza e
Savoia alla Francia, che anche in questo caso danno risultati nettamente
favorevoli. A questo punto il quadro geopolitico uscito dalla cosiddetta
seconda guerra di indipendenza sembra stabilizzato (vedi figura 4 pag. 112).
L’impresa dei Mille - Nella primavera del 1860 scoppiano agitazioni
antiborboniche in Sicilia. Questi episodi bastarono per spingere alcuni
patrioti mazziniani come Rosolino Polo e Giovanni Corrao a partire per l’isola,
per teneri viva una situazione preinsurrezionale. Garibaldi si convince della
fattibilità di un colpo di mano che, realizzato nel momento in cui è già in
atto un’insurrezione autonoma, può avere più chance di successo degli infelici
tentativi compiuti gli anni precedenti dai fratelli Bandiera o da Pisacane. Nel
mese di aprile cominciano i preparativi per l’impresa, con l’arruolamento dei
volontari e la loro convergenza su Genova. Il Governo guidato da Cavour li
tollera, anche se ufficialmente se ne dissocia, e fa mostra di voler ostacolare
l’iniziativa, tanto che il governatore di Milano, d’Azeglio, ordina il
sequestro di parecchie migliaia di buoni fucili Enfield, acquistati con una
sottoscrizione popolare: il problema dell’equipaggiamento viene risolto grazie
all’intervento di La Farina e della Società nazionale, che mette a disposizione
di Garibaldi un migliaio di fucili, di qualità peggiore di quelli degli
Enfield.
Nonostante le difficoltà la
spedizione parte. La sera del 5 maggio 1860 un commando di 40 persone guidato
ds Bixio si impadronisce dei piroscafi Piemonte e Lombardo, di proprietà della
compagnia di navigazione Rubattino, nel porto di Genova. Più tardi, a Quarto,
Garibaldi e i suoi volontari (poco più di mille) vi si imbarcano.
Il 7 maggio i due piroscafi
fanno scalo a Talamone: il corpo volontario si dà una più rigorosa
organizzazione militare, mentre un piccolo gruppo di volontari sbarca per
tentare, senza successo, un’azione diversiva verso lo Stato Pontificio.
L’11 maggio i garibaldini con
fortuna riescono a sbarcare a Marsala. Pochi giorni dopo a Salemi Garibaldi
assume il titolo di dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele
(documento 41).
I garibaldini si muovono in
direzione di Palermo e affrontano l’esercito borbonico a Calatafimi il 15
maggio. I garibaldini erano in svantaggio, con loro in basso e i borbonici
sulla collina, ma nonostante ciò conseguono una vittoria memorabile che gli
apre la strada verso Palermo.
L’attacco a Palermo inizia il
27 maggio e vi partecipa attivamente una parte della città, mentre gruppi di
siciliani armati, unitisi ai garibaldini durante il loro spostamento verso la
capitale dell’isola, collaborano all’operazione. Palermo viene presa il 6
giugno.
L’esercito garibaldino si
rafforza grazie ai volontari che arrivano con rifornimenti e armi migliori di
quelle inizialmente a disposizione (fra cui le carabine Enfield). In totale i
volontari che giungono in Sicilia dall’Italia centro-settentrionale sono
20.000; Garibaldi, sin dal 14 maggio, proclama anche la leva in massa dei
siciliani dai 17 ai 50 anni, che non dà i risultati sperati perché in
moltissimi vi si sottraggono.
L’esercito garibaldino è
comunque in grado di avanzare verso est e il 20 luglio sconfigge le forze
borboniche a Milazzo.
Il 27 luglio Garibaldi può
entrare a Messina, e di lì progettare lo sbarco in Calabria per dirigersi poi
verso Napoli. Il passaggio dello stretto riesce il 18 agosto. L’esercito
borbonico, anche per sua scarsa fermezza dei suoi generali, si sta sfaldando.
Molti soldati abbandonano i reparti per tornarsene a casa. La marcia militare
verso Napoli si fa relativamente più facile, mentre Francesco II di Borbone
abbandona la capitale il 6 settembre, Garibaldi vi può entrare il giorno dopo
(documento 42).
Nei mesi precedenti sono
stati due i problemi principali che Garibaldi ha dovuto affrontare:
L’arrivo delle camicie rosse
e del loro generale, circondato anche in Sicilia da un alone di leggenda,
spinge molte comunità contadine a ritenere che sia arrivato tempo di giustizia,
della redistribuzione delle terre demaniali mai divise, della punizione degli
abusi dei proprietari terrieri. Questo porta allo scoppio di rivolte e
occupazioni di terre che in alcuni casi come a Bronte, nei pressi di Catania,
si trasformano in violentissime sollevazioni popolari, nel corso dei quali
vengono massacrati proprietari terrieri e notabili. Garibaldi si fa garante
dell’ordine: la sua non è rivoluzione sociale, ma politica, e Bronte viene
utilizzato come un caso esemplare. Là, inviato con un reparto di garibaldini,
Nino Bixio reprime durissimamente la rivolta e procede subito a giudizi sommati
ed esecuzioni immediate.
Le difficoltà maggiori però
sono di natura politica. Garibaldi deve fronteggiare le pressioni che Cavour
mette in atto perché si proceda a un’immediata annessione delle terre liberate
allo stato italiano che si è formato nel Centro nord e al tempo stesso deve tenere
in considerazione anche le pressioni di molti suoi collaboratori (principale
fra i quali Francesco Crispi) che vorrebbero piuttosto l’elezione di
un’assemblea che scelga la migliore modalità di unione al regno
centro-settentrionale. Garibaldi in realtà segue una sua linea abbastanza
chiara. Ha proclamato che la sua impresa è condotta sulla base della parola
d’ordine Italia e Vittorio Emanuele, cioè in funzione della costruzione di uno
stato unitario che abbia come sua guida il Savoia. Per questo gli atti pubblici
dei suoi governi sono intitolati a Sua Maestà Vittorio Emanuele re d’Italia.
Per questo lo statuto albertino viene pubblicato in Sicilia (il 3 agosto) e nel
Mezzogiorno continentale (14 settembre). Tuttavia è riluttante a convocare un
plebiscito perché considera che possa essere d’intralcio alle operazioni
militari e perché ritiene che tale operazione debba essere compiuta solo una
volta che la spedizione sia giunta a liberare Roma.
Cavour non accetta questa
linea e non si fida né di Garibaldi né dei suoi collaboratori (a Napoli stanno
convergendo i nomi migliori della democrazia risorgimentale, oltre a Crispi vi
si recano Agostino Bertani, Giovanni Nicotera, Alberto Mario, Jessie White,
Aurelio Saffi, Aurelio Saliceti, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe
Mazzini. Per questo sin dal 29 agosto il Governo Cavour decide di inviare una
spedizione che, dopo aver invaso lo Stato Pontificio, marci su Napoli:
l’obiettivo è fermare Garibaldi prima che una sua avanzata verso Roma sollevi
un caso internazionale, e attuare la desiderata annessione di Sicilia e
Mezzogiorno al Regno d’Italia. Vengono presi contatti con Napoleone III che si
dice d’accordo con l’operazione militare, purchè abbia buoni motivi.
Il 7 settembre viene
comunicato un ultimatum al cardinale Antonelli con la scusa di presunti eccidi
commessi da un reparto di mercenari pontifici. L’8 settembre scoppia una
preordinata ma modesta insurrezione in Umbria e Marche, che dovrebbe
giustificare l’invasione. Il 18 settembre vi è la facile vittoria sull’esercito
pontificio a Castelfidardo: la strada verso sud è aperta.
I borbonici intanto si sono
attestati tra Capua e Gaeta, mentre in Terra di Lavoro, in Abruzzo e in Molise,
scoppiano moti legittimisti, nei quali i contadini sostengono l’esercito regio.
Il 1 ottobre l’esercito borbonico tenta un contrattacco sul Volturno, ma
l’abilità di Garibaldi e l’incredibile incapacità e disorganizzazione dei
generali borbonici fanno si che quel tentativo sia annullato.
Tra l’11 e il 13 ottobre,
dopo discussioni e incertezze, Garibaldi accetta di decretare i plebisciti e
non l’elezione di un’assemblea costituente. In questo il generale è coerente
con se stesso, avendo condotto l’impresa fin dall’inizio con questo obiettivo.
Inoltre tutta la questione è condizionata dall’evolversi della situazione
militare. Garibaldi sul Volturno è stato fermato; i suoi soldati (oltre 20.000
volontari provenienti dall’Italia centro-settentrionale si sono mano a mano
uniti altri 30.000 uomini circa, arruolatisi in Sicilia e nel Mezzogiorno
continentale) cominciano ad essere stanchi, e poi, soprattutto l’esercito
piemontese si sta avvicinando a Napoli; ai primi di ottobre già diverse
migliaia di soldati dell’esercito di Vittorio Emanuele sono sbarcati in città
ed è stata loro concessa l’occupazione dei forti cittadini; l’ammiraglio
Persano, comandante della flotta di Vittorio Emanuele, è stato nominato da
Garibaldi stesso comandante della flotta borbonica, catturata nel porto. La
guardia nazionale presente in città, che ha espresso una petizione favorevole
all’annessione, è forte di 12.000 effettivi. Anche se il generale avesse avuto
in mente altre soluzioni non ci sarebbero stati grandi margini di manovra.
I plebisciti, comunque, si
tengono il 21 ottobre con la formula “il popolo vuole l’Italia una ed
indivisibile, con Vittorio Emanuele, Re costituzionale, e suoi legittimi
discendenti”. La votazione è pubblica, su un palco, con due urne aperte.
Se sono documentate pressioni
delle autorità di Governo per la partecipazione al voto e per il voto
favorevole all’annessione, non va trascurato anche l’effetto straordinario
esercitato dalla personalità di Garibaldi nel garantire il successo
dell’operazione. In Sicilia e nel Mezzogiorno continentale i risultati, sia di
affluenza che di consenso all’annessione, sono strepitosi.
I plebisciti sono la premessa
dell’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, che avviene a Teano, a nord di
Capua, il 26 ottobre (documento 43). Il 7 novembre il re fa il suo ingresso a
Napoli. Garibaldi chiede di essere nominato luogotenente del Regno per un anno
e che il suo esercito non sia disperso: entrambe le richieste hanno risposta
negativa. Il 9 novembre Garibaldi, deluso, si ritira a Caprera (documento 44).
La proclamazione del Regno d’Italia - Il 4 novembre 1860 si tengono i plebisciti di
annessione nelle Marche e nell’Umbria, che completano il processo di
unificazione (fig. 4). Il 27 gennaio e il 3 febbraio del 1861 vi sono i due
turni elettorali per l’elezione della Camera dei deputati. Il 18 febbraio il
primo Parlamento del regno d’Italia si riunisce nella sua capitale, a Torino.
Il 17 marzo Vittorio Emanuele è proclamato re d’Italia e il 23 viene formato il
primo Governo del Regno, guidato di nuovo da Cavour.
Il processo di unificazione
viene portato avanti da due distinte iniziative, una monarchico-sabauda e
l’altra garibaldina, a danno di tutte le altre autorità presenti nella
penisola. La prima si impone sull’altra, anche per il determinato lealismo di
Garibaldi, il quale crede che costruire l’Italia con Vittorio Emanuele sia una
priorità assoluta. Che la forma dello stato sia unitaria e centralizzata
dipende da questa duplice dinamica: una soluzione federale non sarebbe stata
possibile, non essendoci di fronte a Vittorio Emanuele II, nessuna altra
autorità territoriale o politica con lo stesso grado di legittimità. Da qui
appare ovvio che fin dall’autunno del 1859, quando si elaborano le leggi
fondamentali che regolano l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna, si
proceda attraverso la proiezione degli apparati amministrativi sardi sui territori
di nuova acquisizione, modello che viene ripetuto nella sua struttura
fondamentale anche quando (nel 1865) si varano le leggi fondamentali per tutto
il Regno.
Altri atti sottolineano la
preesistenza del Regno di Sardegna. Il Regno d’Italia ha una carta
costituzionale che è ereditata da quel Regno (lo statuto albertino), il suo re
si chiama Vittorio Emanuele II (e non I come sarebbe stato ovvio), la
legislatura apertasi il 18 febbraio 1861 è l’ottava (e non la prima). Oltre che
registrare l’essenza di un processo questi atti vogliono cancellare,
nell’ufficialità della vita delle istituzioni, una realtà che a molti liberali
moderati (Cavour è tra i primi) non è gradita, ovvero che all’unificazione ha dato
un contributo assolutamente decisivo anche l’esperienza del volontariato
garibaldino, in larga misura di estrazione democratica.
Il punto è ancora una volta
la profonda divisione interna del movimento risorgimentale in orientamenti
politici tra loro inconciliabili. Un aspetto che bisogna considerare nello
studio dei conflitti dei decenni seguenti.
Capitolo 8 – Le eredità del Risorgimento
Nel risorgimento, come
accennato, parlano diversi movimenti politici. I repubblicani o i democratici
hanno in mente ipotesi politico-costituzionali inconciliabili con quelle che
vengono realizzate sotto la guida di Cavour e di Vittorio Emanuele. Quindi
all’unificazione non c’è una cooperazione fra le varie correnti, e nel post la
delusione e i dissensi iniziano ad emergere. Molti ex democratici, ex
garibaldini e ex mazziniani confluiscono nella sinistra parlamentare,
accettando l’esito del processo di unificazione e dichiarando lealtà al re e
alle istituzioni del Regno.
Per altri non è così
semplice. Garibaldi e i suoi seguaci continua a sognare la conquista di Roma
con una nuova impresa dei mille. La tenta due volte, nel 1862 e nel 1867 senza
successo, nel primo caso fermato dall’esercito italiano, nel secondo da quello
francese. Nel 1862 i militari italiani fronteggiano i garibaldini
all’Aspromonte, in Calabria, e nello scontro a fuoco che ne segue Garibaldi
stesso viene ferito ad una gamba per essere poi arrestato, incarcerato e
liberato dopo un mese con provvedimento di amnistia, mentre alcuni dei suoi
volontari vengono giustiziati perché disertori dell’esercito. L’iniziativa
garibaldina era illegale e rischiava di compromettere i rapporti tra Italia e
Francia, ma voleva pur sempre il completamento dell’unità nazionale.
Non è diverso il sentimento
che anima i repubblicani e Mazzini. L’unità d’Italia, pur con l’intervento del
popolo, non ha avuto la fase dell’assemblea costituente, il popolo non ha
deciso di se e delle sue sorti e l’unificazione si è compiuta attraverso una
semplice annessione progressiva al Regno di Sardegna. Questo li spinge a negare
la legittimità delle istituzioni dello stato nuovo e a non voler partecipare
alle elezioni politiche né a volersi far eleggere alla Camera dei deputati, che
comportava il giuramento di fedeltà al sovrano e alle istituzioni monarchiche.
La vita di Mazzini si chiude
in modo drammatico. Nel 1870 lui ha 65 anni. La guerra franco prussiana,
scoppiata il 19 luglio, apre secondo lui nuove possibilità per un’insurrezione
repubblicana sulla penisola. Per questo, sollecitato da repubblicani siciliani,
il 14 agosto si reca a Palermo dove viene arrestato dalla polizia prima ancora
di sbarcare, per essere condotto alla fortezza di Gaeta. Resta in carcere per 2
mesi perché il 9 ottobre ci fu un’amnistia generale. Egli tuttavia rifiuta di
accettare la regia clemenza e va in esilio volontario. Si ferma in Svizzera e
poi va a Londra. Nel 1871 torna diverse volte in Italia, segretamente e sotto
falso nome. È a Pisa nel 1872 dove è ospite della famiglia Rosselli, sotto la
falsa identità di George Brown quando muore il 10 marzo del 1872. La sua morte
viene appresa con contrasto. Da un lato 15000 persone parteciparono al corteo
funebre che accompagnò la sua salma al cimitero di Staglieno, a Genova, e
moltissimi gli rendono omaggio nel tragitto che l’ha portato da Pisa a Genova.
Dall’altro lato il Parlamento approva un semplice voto di cordoglio, ma il
presidente della Camera vieta qualunque discorso di commemorazione, mentre il
Presidente del Consiglio, Lanza, non pronuncia neanche una parola.
Oltre a questa componente del
movimento risorgimentale c’è anche un’ampia sezione di opinione pubblica che si
mostra polemica, ed è quella che si identifica con le posizioni di Pio IX. Il
papa, sin dalla primavera del 1848 si era allontanato dal movimento nazionale. Nel
corso degli anni ’50 c’erano stati molti attriti con i governi del Piemonte
costituzionale. Ma la svolta definitiva nei suoi rapporti con l’intero
Risorgimento, con le sue idealità con le sue realizzazioni, giunge quando, tra
il 1859 e il 1860, una gran parte dei suoi territori gli viene sottratta per
andare a far parte del nuovo stato italiano. La reazione del pontefice è
durissima. Il 26 marzo 1860 lancia una scomunica maggiore nei confronti di
tutti coloro che hanno concorso all’usurpazione delle terre che appartenevano
allo Stato Pontefice. Il 18 marzo 1861, nell’allocuzione concistoriale, il papa
interrompe i tentativi di trattativa avviati in precedenza da Cavour per una
qualche forma di conciliazione. Nel suo discorso, egli, dopo aver rievocato i
torti subiti dalla chiesa per la causa del Piemonte e del liberalismo, afferma
di non poter accettare che la cosa ingiustamente e violentemente rubata (ovvero
il territorio appartenuto allo Stato Pontificio, possa tranquillamente e
onestamente possedersi dall’iniquo aggressore. A questo seguiranno l’enciclica
Quanta cura del 1864 con il Sillabo degli errori del nostro tempo, e il
Concilio Vaticano, con la proclamazione dell’infallibilità del pontefice
(1870); per la verità lo stato italiano non fa molto per attenuare la tensione
(1865: introduzione del matrimonio civile; 1867: abolizione di enti
ecclesiastici e vendita dei loro beni; 20 settembre 1870: presa di Roma),
aprendo così ulteriormente il solco che lo separa dal papa e dall’opinione cattolica.
Nemmeno la legge delle guarentigie del 13 maggio 1871, approvata dopo la presa
di Roma, è sufficiente a riconciliare il papa con il nuovo stato.
I gesti del pontefice hanno
enormi conseguenze a carattere politico. L’opinione pubblica cattolica si spacca,
da una parte seguendo il magistero spirituale del papa, dall’altra mantenendo
comunque direttive politiche differenti (tra cui autorevoli liberali come
Ricasoli e Minghetti, Bonghi e Jacini). I primi decidono di seguire fedelmente
il papa, di non riconoscere la legittimità delle nuove istituzioni e di non
votare per la designazione dei rappresentanti alla Camera dei deputati e opta
per la partecipazione alle elezioni amministrative e comincia a organizzarsi in
strutture associative di varia natura, fra cui l’Opera dei congressi,
organizzazione nazionale del cattolicesimo intransigente costituita nel 1875.
inoltre non rinuncia a utilizzare il linguaggio del nazionalismo, presentando
tuttavia solo la parte cattolico-intransigente come l’unica vera interprete
dell’essenza della nazione italiana. E tutto ciò rende ovviamente meno solide
le basi dello stato-nazione effettivamente esistente.
Al di là di ciò il distacco
del papa dal movimento nazionale fa diventare meno efficace il processo di
sovrapposizione dei simboli del discorso nazionale su quelli della tradizione
religiosa. Non vale a cancellare di certo i dispositivi retorici che ne
derivano e che anche dopo il 1848 continuano ad essere impiegati come
l’invocazione ai martiri, al sacrificio, alla santità delle guerre nazionali,
considerate alla stregua di vere e proprie crociate, tutto ciò non viene mai
meno. Ma essi non susciteranno mai più i parossistici entusiasmi generali della
fase neoguelfa, l’epoca dell’illusione del papa liberale, compresa tra l’elezione
di Pio IX e i primi mesi del 1848, non almeno con un paragonabile grado
d’intensità.
Fratture profonde che minano
la compattezza del nuovo ordine istituzionale e simbolico. Altre difficoltà,
però, si profilarono. La prima riguarda ciò che un grande storico, George
Mosse, ha chiamato la nazionalizzazione delle masse. La nazione non è un dato
di natura; il sentimento nazionale è, come ogni altra formazione concettuale,
un insieme di valori, di norme, di simboli che bisogna imparare. Fatta l’Italia
bisogna fare gli italiani, questo era lo slogan attribuito a d’Azeglio che
riassume il punto (documento 45). Nell’Italia dell’800 la nazione andava
insegnata, cercando di “eliminare” le identità municipalistiche per percorrere
un senso più ampio di nazione nelle città, ma soprattutto nelle campagne dove
la rivoluzione non fece troppo breccia. Nelle aree rurali c’è la necessità di
un’azione pedagogica, visto che l’esperienza garibaldina aveva mostrato che non
c’era chiusura totale della cultura contadina ai valori della nazione.
Il problema della classe
dirigente, la destra storica, che guida la formazione del Regno, è che non si
impegnò troppo in questa possibile opera di socializzazione. L’insegnamento
elementare, affidato alle sole finanze dei comuni, stenta a decollare. Negli
stessi programmi scolastici solo in misura marginale si fa spazio alle vicende
del Risorgimento o all’illustrazione della storia della nazione, perché troppo
recenti per farne materia di pedagogia nazional-patriottica. Inoltre gli uomini
della destra sono spesso ricchi proprietari terrieri, nobili e borghesi, con un
atteggiamento duramente elitista, che considera le classi popolari come
soggetti pericolosi, non degni di qualsiasi sforzo di socializzazione alla
politica. Meno se ne occupano meglio è. Questo pensiero trova riscontro nella
legge elettorale adottata dal Regno d’Italia, che non è altro che un
adattamento di quella già in vigore nel Regno di Sardegna, che stabilisce che
possano essere elettori i maschi adulti che sanno leggere e scrivere e che
pagano almeno 40 lire di imposte annue; ne risulta che gli elettori sono
all’incirca il 2% del totale della popolazione del Regno.
Non coinvolti né dal discorso
nazionale né dalla vita politica, gli ambienti rurali rimangono apatici, salvo
occasioni di protesta come la tassa sul macinato o i rincari dei prezzi di
prima necessità o per altri motivi ancora. Alla lunga le campagne in queste
zone saranno terra di conquista per l’opera di proselitismo di due gruppi
opposti, per diverse ragioni, ai principi che fondano la nazione italiana o il
Regno d’Italia, ovvero i socialisti e i cattolici intransigenti.
Ma nell’immediato il problema
più grave si propone nell’Italia meridionale, e in particolare nel Mezzogiorno
continentale. Qui fra il 1861 e il 1865 scoppia un largo movimento di reazione
all’Unità che le autorità del Regno chiamano brigantaggio, ma che solo in una
misura limitata può essere effettivamente definito così. Prima dell’unità nel
mezzogiorno erano già presenti gruppi criminali, il fenomeno si accentua dopo
il 1861. gli insorti tra il 1861 e il 1870 erano 85.000. le loro azioni
oscillavano, in particolare in Abruzzo e Lucania, tra le operazioni militari
dimostrative (attacchi a simboli dell’autorità o ai beni e alle persone di esponenti
del nuovo ordine politico) e i più tradizionali atti criminali (rapine,
estorsioni, sequestri). Il carattere era esplicitamente politico delle bande,
poiché i leader dichiarano pubblicamente di operare per la restaurazione dei
Borbone o per la difesa del pontefice e dei suoi diritti, e in effetti emissari
borbonici e pontefici sono all’opera per sostenere anche finanziariamente il
movimento. Nelle bande confluivano ex militari borbonici, delusi dagli scarsi
risultati sociali dell’impresa garibaldina, molti che nutrono risentimenti nei
confronti dei proprietari, per le loro condizioni di vita e di lavoro o per i
torti subiti con il processo di sistemazione delle terre demaniali.
L’applicazione della coscrizione obbligatoria al Mezzogiorno contribuisce poi a
spingere molti altri contadini verso l’affiliazione alle bande.
Le azioni delle bande sono
violentissime, accompagnate da una dura repressione dell’esercito. Una legge
del 1863 autorizza l’attuazione di misure eccezionali, cosicché nel giro di
qualche anno il fenomeno è quasi del tutto cancellato. Tuttavia non è un modo
brillante di aprire la vita di un nuovo stato, perché lasciò scie di sangue
nella memoria di molte comunità del Mezzogiorno rurale, mantenendole in un
atteggiamento di sospetto distanza nei confronti delle istituzioni del Regno
d’Italia o della simbologia e dei valori nazionali.
Per le elezioni solo i maschi
ricchi e alfabeti potevano partecipare. Non le donne, ad alcuna condizione. La
marginalità femminile non viene meno dopo l’unità. Partono delle richieste di
estensione come quelle di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in nome della
comune appartenenza alla nazione, del sacrificio comune per la costruzione
della patria italiana.
Ai primi del 1866 il Governo
La Marmora si accorda col Governo prussiano per una possibile guerra contro
l’Austria; per evitare di avere due fronti aperti, l’Austria fa sapere di
essere pronta a cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia, con
l’intermediazione di Napoleone III, purché l’Italia si ritiri dall’alleanza.
Tuttavia il Governo decide di rispettare l’impegno preso con gli alleati e di
partecipare alla guerra. L’Italia può schierare un esercito regolare composto
da 220.000 soldati, più un corpo di 38.000 volontari, comandati da Garibaldi (appena
4 anni prima ferito da soldati italiani e rinchiuso in un carcere del Regno).
Di fronte ha un esercito austriaco inferiore di numero (190.000 unità) perché
in larga misura impegnato a fronteggiare i prussiani; anche la flotta da guerra
italiana è superiore a quella austriaca. Nonostante ciò la guerra viene
condotta molto male sia dai generali La Marmora e Cialdini, incaricati di
guidare le forze di terra, sia dall’ammiraglio Persano, responsabile della
flotta. L’esercito è sconfitto il 24 giugno a Custoza, mentre la flotta è
battuta il 20 luglio a Lissa, a largo della costa dalmata, nessuna delle due
sconfitte ha carattere catastrofico, ma certo viene resa più grave dalla scarsa
lucidità dei comandanti. Solo Garibaldi, impegnato con i suoi volontari in Trentino,
riesce a conseguire importanti successi, in particolare battendo il 21 luglio
gli austriaci a Bezzecca e aprendosi la strada verso Trento.
Gli austriaci hanno perso la
guerra con i prussiani sottoscrivendo una tregua in quello stesso 21 luglio. Il
26 luglio una tregua viene sottoscritta anche da italiani e austriaci. Il 9
agosto Garibaldi riceve l’ordine di ritirarsi dal Trentino, poiché le forze
austriache ora disponibili si stanno muovendo in quella direzione e l’Austria
non vuole cedere che il solo Veneto. Negli accordi di pace l’Austria impone la
clausola, ora umiliante, secondo la quale cede il Veneto e Mantova all’Italia
attraverso la mediazione di Napoleone III. Anche il Veneto e nella provincia di
Mantova si celebra un plebiscito, che dà una grandissima maggioranza a favore
dell’annessione al Regno d’Italia.
Ma la sconfitta provoca un
vero trauma nell’opinione patriottica; il primo battesimo di fuoco sembra
confermare lo stereotipo che ha ossessionato gli intellettuali del
Risorgimento, secondo cui gli italiani non sanno battersi. Oppure, come disse
Pasquale Villari nel sui articolo Di chi è la colpa? O sia la pace e la guerra,
in Italia c’è una dilagante ignoranza in ogni campo che ha portato problemi.
Il Risorgimento, dunque,
lascia un’eredità di divisioni, insuccessi e contrasti. Ma esiste anche un
altro aspetto positivo. La mitologia nazionale che ha sorretto il movimento
patriottico prima dell’Unità non va perduta dopo, anzi se c’è qualcosa che
tiene insieme il quadro politico culturale dell’Italia nuova è proprio il
profondo radicamento di quel sistema valoriale, specie nelle città e tra i ceti
colti.
Nel 1876, quando cambia la
maggioranza di Governo e va al potere la sinistra, uno schieramento composto da
politici che provengono da esperienze mazziniane democratiche o garibaldine, ma
che hanno poi giurato fedeltà alle istituzioni monarchiche, l’operazione di
ricomporre la memoria del risorgimento, di riscrivere la storia unitaria, anche
se unitaria non lo è stata, diventa possibile. Lo consente anche il fatto che
gli opposti protagonisti dell’epopea sono già morti (Cavour nel 1861), Mazzini
nel 1872, Vittorio Emanuele II nel 1878 e Garibaldi nel 1882) e che si può
comunicare a immaginarli tutti quanti partecipi di una comune lotta contro lo
straniero, per il riscatto della patria, per ml’affermazione della libertà: non
è vero, ma è una soluzione retorica di un certo fascino. E a quel fascino
cedono in molti.
La suggestione esercitata da
Mazzini aveva fatto partecipare migliaia di persone al trasporto della salma,
stessa cosa per Vittorio Emanuele II e Garibaldi. Alla sua morte, il 2 giugno
del 1882, la Camera delibera il lutto per due mesi, funerali di stato e
pensione da pagarsi alla vedova, mentre il nuovo re d’Italia, Umberto I, telegrafa
alla famiglia scrivendo parole onorevoli. Questo perché Garibaldi, a differenza
di Mazzini, aveva dato lealtà alla corona. Processo di ricomposizione del
pantheon degli eroi va talmente avanti negli anni seguenti che tredici anni più
tardi inaugurando il monumento a Garibaldi sul Gianciolo, a Roma, Francesco
Crispi può dire, alla presenza della famiglia reale (allora era presidente del
Consiglio) che nel nome di Garibaldi e in quello di Mazzini e in Vittorio
Emanuele c’era la storia del risorgimento nazionale.
Una delle maggiori
testimonianze viene data dal libro Cuore di Edmondo De Amicis, pubblicato nel
1886. esso racconta le vicende che si svolgono in una terza elementare di
Torino nell’anno scolastico 1881-82 in parte con i commenti e le descrizioni che
il piccolo protagonista, Enrico Bottini, affida al suo diario, in parte con gli
interventi pedagogici che il padre e la madre vi aggiungono. È un testo
straordinariamente ricco di microintrecci narrativi, personaggi di grande
impatto, narrazioni e massime patriottiche della più intensa temperatura
emotiva., nel libro trovano spazio i grandi del Risorgimento, ma soprattutto la
descrizione della nazione italiana come comunità di discendenza che bisogna
amare e servire con la consapevolezza che il futuro della patria sarà sui campi
di battaglia (documento 46). Nonostante alxcune figure retoriche, come il ruolo
lacrimoso delle donne e i protagonisti prevalentemente maschili, il libro avrà
40 edizioni nello stesso anno e tirerà 1 milione di copie fino al 1923
Il patriottismo
risorgimentale riveduto e corretto dall’opera propagandistica della sinistra e
dei suoi intellettuali non è cosa da trascurare e lascia tracce che durano a
lungo nella storia dell’Italia contemporanea.
Nella mitografia
nazional-patriottica di fine secolo ha uno spazio ridotto il Parlamento e la
sua funzione di rappresentanza. Anzi, si
sviluppa un discorso critico molto aggressivo nei suoi confronti. Il discorso
nazionale, fin dai suoi esordi, considera la nazione come un’entità compatta,
non suscettibile di divisioni interne, se non a prezzi gravissimi. Per questo,
se in tutta l’esperienza risorgimentale si chiedono costituzioni e
rappresentanza, come forme di garanzia dagli abusi di autorità tiranniche, pure
si prendono le distanze dalle divisioni partitiche, dai personalismi, dalle
fratture che la discussione politica necessariamente comporta. Questo aspetto è
aggravato dal fatto che i diversi schieramenti politici che si formano
all’interno del movimento risorgimentale sostengono progetti
politico-costituzionali, la cui reciproca inconciliabilità rende difficilissimo,
se non impossibile, il dialogo. Ma la rappresentazione olistica della nazione,
come un tutto, ha un notevole grado di coerenza con le argomentazioni di chi
considera il Parlamento il luogo della corruttela perché fra le altre cose,
funzionalmente incapace di interpretare la volontà della nazione, incapace di
individuare i superiori interessi della collettività.
Scipio Sighele, nel 1895 in
Contro il parlamentarismo. Saggio di psicologia collettiva, ricorda epoche in
cui le ideologie tiravano le masse.
Carlo Morini, nel 1894 in
Corruzione elettorale., Studio teorico pratico, osserva la larga diffusione
della corruzione in Italia, ma crede nella sua ripresa perché ha due grandi
presidi, che sono la casa Savoia e il popolo.
Sidney Sonnino, nel 1897 con
Torniamo allo Statuto, auspica che si reintroduca una pratica politica più
coerente nei confronti della lettera dello statuto rispetto a quella che si era
imposta dalla crisi Calabiana in avanti, ovvero che si formino governi non
sulla base della volatile e fragile volontà del Parlamento, ma sulla scorta
delle sicure indicazioni di un solo uomo, il sovrano, l’unico capace di farsi
interprete della volontà generale della nazione.
Se da un lato il discorso
nazionale enfatizza la possibile simmetria tra olismo della nazione e monismo
del potere (nel senso dell’attribuzione dei poteri a singoli soggetti o
funzioni), l’esperienza del Piemonte costituzionale e dell’Italia liberale
consente che, al tempo stesso, di valorizzare il Parlamento come grande scuola
di libertà.. in questo la lezione di Cavour è fondamentale. Scrivendo alla
contessa di Circourt il 29 dicembre 1860 e commentando ipotesi di dittatura che
circolano nella fase di transizione verso l’Unità egli afferma di credere in un
parlamento, dove possono essere fatte cose impossibili per un potere assoluto.
Un ministero onesto ed energico ha tutto da guadagnare dalle lotte
parlamentari, se si pone al di sopra della violenza dei partiti. La vita
parlamentare è più lunga ma più sicura, rispetto a una dittatura (come poteva
essere quella garibaldina).
L’eredità del Risorgimento,
in realtà, è ambivalente e contiene l’una e l’altra opzione, il disprezzo nei
confronti della rappresentanza parlamentare e la sua valorizzazione. E, come i
decenni seguenti si incaricheranno di mostrare chiaramente, questa ambivalenza
non è la meno importante delle eredità del Risorgimento.
La storiografia, i luoghi della ricerca,
le fonti
Come in molti altri casi,
anche per il Risorgimenti la richiesta del giudizio etico-politico prevale sul
desiderio di conoscere e capire il comportamento di donne e uomini che hanno
vissuto nel passato, spesso secondo culture e ideologie, nonostante tutte le
apparenze o le somiglianze linguistiche, assai diverse da quelle che ci sono
famigliari.
Non sorprende che anche per
il Risorgimento sia stato così: quello è stato il processo fondativo di uno
stato nuovo, un processo altamente conflittuale, per di più. E come sempre in
questo tipo di dinamiche, in cui le urgenze politiche si riflettono sullo
studio del passato, anche per il Risorgimento il dibattito ha spesso
rispecchiato i profili delle fratture politiche che, in quella o in quell’altra
fase, hanno animato la discussione o il conflitto. E così, con varie scansioni
cronologiche, le ricerche e le interpretazioni a confronto hanno misurato il
rilievo dei diversi partiti risorgimentali nella costruzione del Regno
d’Italia, per cui a storici sabaudisti si sono contrapposti storici filo
mazziniani o storici simpatetici con le ragioni dei democratici.
Ai primi del XX secolo alcune
opere di impianto polemico, scritte da storici non professionisti, hanno
tuttavia lasciato un segno più duraturo, per la forza dei loro suggerimenti
interpretativi. Nel 1913 viene pubblicata La lotta politica in Italia di
Alfredo Oriani (1852-1909) che ebbe l’attenzione del grande pubblico e le
simpatie di ambienti nazionalisti, ma anche molte critiche da storici
professionisti. Valorizzando l’impulso nazionale come cardine dell’azione
politica del risorgimento, Oriani ne critica la traduzione operatica, perché da
un lato troppo elitaria, dall’altro costretta in un processo che ha il
carattere di una pura e semplice conquista regia: questa è una premessa a che
le nobili speranze dei grandi del Risorgimento come Mazzini, siano dissipate in
una meschina prassi amministrativa, priva di slanci ideali, qual è quella che,
secondo lui, ha caratterizzato i decenni post-unitari.
Di taglio egualmente polemico
Piero Gobetti (1901-1926) che in Rivoluzione liberale del 1924 e Risorgimento
senza eroi, apparso postumo nel 1926 vi giudica il Risorgimento come una
rivoluzione fallita, incapace di laicizzare e modernizzare veramente il mondo
mentale delle masse italiane, di portarle come soggetti attivi sulla scena
della storia. Il suo stile è tranchant e i suoi giudizi sono senza appello,
sulla poca organizzazione del paese, sull’entusiasmo spesso avventato delle
figure cardine come Mazzini e Garibaldi. I giudizi di valore dominano i suoi
testi, controbilanciati da uno stile coinvolgente e spregiudicato nelle
valutazioni.
Negli stessi anni si fa
strada anche un tipo diverso di storiografia, più attenta alla ricostruzione
documentaria, fino al perfezionismo erudito, ma capace ance di non perdere il
filo dell’interpretazione complessiva della dinamica storica ottocentesca.
Tra fine ‘800 e inizio ‘900
tale processo è favorito dalla nascita di istituzioni culturali specializzate a
promuovere gli studi sulla storia risorgimentale. Nel 1883 viene fondato
l’Istituto storico italiano a Roma, nel 1895 inizia le sue pubblicazioni la
Rivista storica del risorgimento italiano, nel 1907 si costituisce la Società
nazionale per la storia del Risorgimento, che nel 1908 pubblica la sua rivista
Il Risorgimento Italiano.
La vera stagione della
storiografia risorgimentista è aperta da 4 figure, molti diversi tra loro, non
specializzati in Risorgimento ma di grande rilievo: Benedetto Croce
(1866-1952), Gaetano Salvemini (1873-1957), Giovanni Gentile (1875-1944) e
Gioacchino volpe (1876-1971).
Fin dai primi del Novecento
Croce pubblica alcune importanti opere storiche dedicate al Risorgimento. Ma è
anche autore di due lavori storici di vasto respiro, che fissano in forma
sintetica la sua ricostruzione e il suo giudizio sulle vicende della storia
dell’Italia liberale e dell’Ottocento europeo: la Storia d’Italia dal 1871 al
1915, del 1928, e la Storia d’Europa nel secolo decimo nono, del 1832. in
quest’ultimo l’esperienza risorgimentale è collocata nel contesto della più
generale storia dell’Europa ottocentesca, che Croce ritiene caratterizzata
dall’affermazione di una vera e propria religione della libertà. Il processo di
unificazione va inserito in questo quadro. Se il movimento risorgimentale è
evidentemente spaccato in viarie anime contrapposte (democratici-repubblicani
vs liberali-monarchici) nella realtà nessun partito abbatteva l’altro ma
piuttosto ne compiva le mancanze. Croce dà una valutazione totalmente positiva
dell’unificazione come processo puramente liberale. Secondo lui era stato un
capolavoro dei movimenti liberal-nazionali, flessibili e logici, tanto
rispettosi del passato quanto orientati all’innovazione. Un giudizio che si
distanzia nettamente da Oriani e da Gobetti.
Gaetano Salvemini compie le
sue più impegnative prove di storico nel campo degli studi medievali ma non
manca di occuparsi della storia italiana dell’800. Coerentemente con le sue
inclinazioni politiche, il suo studio fu sulle personalità e le forme
organizzative del campo democratico. Nel 1905 pubblica Il pensiero religioso
politico sociale di Giuseppe Mazzini, mentre nel 1922, edito da Treves in una
fortunata collana, pubblica Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, un’antologia
di scritti preceduta da una sua ampia introduzione che vale a riaccendere
l’interesse per l’intellettuale e politico milanese, identificato come il
portatore di un’alternativa (sfortunata) all’unificazione regia. Salvemini non
mancherà di dedicare attenzione all’intreccio tra i progetti politici e la
questione sociale, come il movimento nazionale italiano con le lotte economiche
e sociali, e soprattutto l’arretratezza rurale.
Fin dall’inizio della sua
attività intellettuale Giovanni gentile dedica attenzione alla storia delle
idee nell’Italia del Risorgimento e ad autori chiave del periodo come Alfieri,
Cuoco, Rosmini, Gioberti, Spaventa, Manzoni, ma in particolar modo sul pensiero
di Giuseppe Mazzini (1919), in cui entra in polemica con l’interpretazione di
Salvemini. Gentile insiste sull’enorme importanza della componente religiosa
del pensiero mazziniano e sull’idea di nazione che in Mazzini è definita da
fattori naturalistici, ma che è soprattutto coscienza di sé, l’acquisizione
della quale è premessa indispensabile perché la nazione politicamente attiva
riesca a fondare se stessa come stato. Nel 1923 Gentile raccoglie i suoi
scritti su Mazzini e Gioberti in un libro intitolato I profeti del Risorgimento
italiano, dedicato a Benito Mussolini, italiano di razza degno di ascoltare la
voce dei profeti della nuova Italia.
La dedica è indice
dell’evoluzione nell’interpretazione del Risorgimento che Gentile nel frattempo
ha maturato: l’epopea risorgimentale (e quella mazziniana in particolare)
precorre il fascismo, in quanto entrambi sono movimenti religiosi, diversi dal
liberalismo individualistico, di cui Cavour è espressione. Se doopo il 1870 è
iniziata una decadenza che ha smarrito il filo della generosa religione della
nazione, il fascismo ha raccolto l’eredità del Risorgimento proprio per le sue
componenti spirituali.
Anche Volpe, come Croce,
Salvemini e Gentile, non è un risorgimentista, essendosi formato prima della
Grande Guerra come brillante studioso del Medioevo alla lezione della scuola
economico-giuridica di Amedeo Crivellucci, quindi con una particolare
sensibilità per le trasformazioni economiche e sociali, oltre che per le
istituzioni e le culture politiche. Tuttavia anch’egli nei decenni tra le due
guerre, presta attenzione alla vicenda risorgimentale e in vari scritti, quanto
nel capitolo introduttivo di L’Italia in cammino (1927), ripreso anche nella
nuova versione Italia moderna (1943-1952) suggerisce una lettura del
Risorgimento come di un movimento che trae le sue origini dal plurisecolare
processo di creazione di una borghesia non municipale ma nazionale, attraverso
cui fin dal medioevo si viene formando una spirituale unità, logorando
moralmente i piccoli Stati feudali. Tale dinamica giunge a maturazione nel ‘700
perché è da allora che inizia a delinearsi il senso di ideale nazionale e
unitario. Come Gentile vede il Risorgimento come opera di una minoranza
socialmente e politicamente variegata. Diversamente da altri Volpe, come
Gentile, non attribuisce al termine minoranza un significato negativo, ma
spiega che essa è una coraggiosa avanguardia politica e culturale, aristocrazia
morale della nazione la cui eredità viene smarrita, salvo poche eccezioni,
dalla classe dirigente dell’età liberale, per trovare poi una sua ulteriore
rinascita nella guerra e nella rivoluzione fascista. Questa però non è più
opera di un’elite appassionata ma isolata dal popolo, essendo invece il momento
che segna la più attiva e consapevole partecipazione del popolo alla vita della
nazione e dello Stato.
Influenzata da questi quattro
intellettuali si forma, tra le due guerre, una generazione di storia del
Risorgimento che si può dividere in tre gruppi che sviluppano i temi di Croce,
interessati alla storia delle idee e delle organizzazioni politiche, sensibili
all’azione svolta dalle forze liberal-moderate come Adolfo Omodeo, Walter
Maturi, Federico Chabod, Rosario Romeo. Dall’altro lato alcuni storici
cominciano a occuparsi del movimento democratico o dei problemi sociali nel
Risorgimento, temi che tuttavia trovano scarsissima attenzione negli ambienti accademici
e politici dell’Italia fascista. Tra questi Nello Rosselli, Luigi Salvatorelli.
Infine un nutrito gruppo di
studiosi dà vita a una variegata ricerca storica di intonazione nazionalista e
fascista sul Risorgimento. Come diceva Volpe, sul Risorgimento il fascismo si
era posto in modo critico. Nel 1924-25 si esaltava il fascismo come
“antirisorgimento”, che democratici e liberali condannavano. Il Risorgimento
veniva visto come premessa per la fondazione dello Stato liberale. Alessandro
Luzio, attento alle ragioni dei “nemici”, elabora in questo senso una ricerca
dal punto di vista anche degli austriaci e della demolizione dei miti
risorgimentali.
Prevale, tuttavia, negli anni
seguenti, l’incorporazione del Risorgimento nelle sue varie declinazioni (mazziniana,
sabaudi sta, garibaldina) all’interno di una visione che enfatizza gli elementi
di continuità tra esperienza risorgimentale e rivoluzione fascista. In questo
contesto, per volere di Cesare Maria de Vecchi, ministro dell’Educazione
nazionale, che nel 1936 vengono istituite le prime cattedre di Storia del
risorgimento. Qui vedono la luce numerosi lavori di Arrigo Solmi, Albano
Sorbelli, Renato Soriga, Domenico Spadoni, Pietro Zama che, depurati dei loro
compiti patriottici, sono non di rado ottime prove di ricerca, ricche di
scoperte documentarie e di non spregevoli intuizioni analitiche.
Tuttavia nel secondo
dopoguerra quest’ultima tendenza interpretativa perde ogni rilievo, in
concomitanza non solo col mutamento del quadro politico istituzionale, ma anche
con quella trasformazione nella cultura politica e nella sensibilità che fa si
che gli ideali nazional-patriottici, troppo strettamente associati al fascismo,
subiscano il processo di radicale svalutazione. Viceversa la pubblicazione
degli scritti di Antonio Gramsci (1891-1937) fondatore del partito comunista
italiano, e per questo recluso in carcere dal 1926 fino alla morte, in
particolare nel suo Il Risorgimento (1949) che fa parte dei Quaderni dalle
carceri, serie di appunti su argomenti vari stesi nel periodo di detenzione,
che traccia una storiografia attenta all’intreccio tra questioni politiche e
sociali. Egli lo considera una rivoluzione passiva, dove le classi dirigenti
non sanno o non vogliono suscitare volontà collettive nazional-popolari e nel
Risorgimento italiano le classi dirigenti sono quelle liberal-democratiche che
si riuniscono intorno a Cavour. Esse, per le debolezze e le inadeguatezze dei
democratici, impongono la soluzione monarchico-annessionista, rifiutandosi al
tempo stesso di procedere a una seria riforma agraria, che sola avrebbe potuto
coinvolgere le masse contadine nel processo di unificazione. Due anni prima è
già stato pubblicato Il capitalismo nelle campagne 1860-1900 di Emilio Sereni,
storico marxista che indipendentemente dall’elaborazione gramsciana, fonda la
sua analisi delle strutture agrarie italiane sull’idea di una persistenza di
residui feudali (vessazioni tra proprietari e contadini) che avrebbe limitato
la crescita economica e posto su fragili basi lo sviluppo dell’industria e un
proletariato moderni.
Questa impostazione suscita
la dura polemica di Rosario Romeo, con il saggio del 1956 sulla rivista Nord e
Sud intitolato La storiografia politica marxista, ripubblicato nel ’59 in
Risorgimento e Capitalismo, sviluppa due osservazioni critiche. Da un lato
individua nella posizione di Gramsci l’errore di avere un ricorso astratto
ideale morale e politico che lo allontanano dalla ricostruzione storica reale e
dall’altro mostra che un’ipotetica redistribuzione delle terre ai contadini,
quand’anche avesse potuto essere realizzata, avrebbe rischiato di essere
economicamente controproducente e di rallentare lo sviluppo economico italiano
molto più di quanto sia realmente accaduto.
Soprattutto la prima delle
due ha una notevole forza anche se l’immediata attenzione degli storici, anche
economici, si concentra piuttosto sulla verifica della validità della seconda.
Resta che l’impostazione originaria del problema Risorgimento, suggerita da
Gramsci, anche Grazie a quella discussione, perde lentamente di interesse,
sebbene continui per alcuni anni ancora a ispirare importanti lavori, come
quelli di Candeloro, Della Peruta e altri, .
Qualche anno dopo, nel 1964,
uno storico marxista, Ernesto Ragionieri, si chiede se non sia il caso di
parlare di fine del Risorgimento, dato che negli studi recenti non si incontra
più un atteggiamento militante e partecipe agli ideali risorgimentali, com’era
frequente in precedenza, e dato che gli studi del Risorgimento sembrano
orientarsi a considerarlo come una delle rivoluzioni borghesi, dopo quella
inglese, americana e francese (Fine del Risorgimento?= Alcune considerazioni
sul centenario dell’unità d’Italia, ripubblicato in E. Ragionieri, Politica e
amministrazione nella storia dell’Italia unita, 1979). Le aperture dello studio
verso la borghesia era ancora agli albori, iniziata da Rosario Romeo nei suoi
studi Il Risorgimento in Sicilia (1950) e Il Risorgimento in Piemonte (1960).
Le considerazioni di Ragionieri trovano comunque applicazione tra gli anni ’70
e i primi anni ’90 in una stagione di studi che è assai ben descritta da Lucy
Riall in Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, 1997. secondo Riall lo
studio più innovativo è la ricostruzione degli apparati statali preunitari tra
il 1815 e il 1859, lo studio della struttura sociale italiana, con borghesia e
nobiltà da un lato e , e sul conflitto sulla devianza sociale dall’altro, e
l’analisi delle trasformazioni economiche con le sue dinamiche proto-industriali.
Secondo Riall tutta questa serie
di studi può essere detta “revisionista” perché questa nuova storiografia si
differenzia da una lunga tradizione, incarnata ancora da prospere riviste di
settore come la Rassegna storica del Risorgimento, Il Risorgimento, Rassegna
storica toscana, visto che ha scelto di non privilegiare le questioni
politiche, ideologiche e organizzative del movimento risorgimentale, al centro
dell’attenzione nella storiografia precedente,m per osservare invece le
dinamiche di trasformazione economica, sociale o istituzionale.
In ciascuna di queste aree la
nuova ricerca storica censita dalla Riall trascura di focalizzare la sua
attenzione sui personaggi chiave del Risorgimento , così come evita di
concentrarsi sui momenti cruciali della lotta risorgimentale.
In questo mutamento di
sensibilità si devono distinguere vari fattori:
a)
l’influenza di
correnti storiografiche di impatto più generale che trascendono lo specifico
settore risorgimentale, ma che ad esso vengono applicate: gli studi di storia
dello stato, gli studi di microstoria o di storia sociale, gli studi sulla
proto industria;
b)
questo primo
aspetto, tuttavia, non è né il solo né il più rilevante; un altro impulso
importante nasce dal desiderio sincero, in molti dei protagonisti di quella
stagione di studio, di liberarsi da un modo esplicitamente o implicitamente
celebrativo o polemico di studiare le vicende risorgimentali e, anche, dal
desiderio di ricostruire intorno a quelle vicende un contesto sociale,
economico e istituzionale che potesse aiutare a guardarle con occhi nuovi e a
capirne gli sviluppi;
c)
infine, in parte
nella forma di presupposto metodologico, in parte come esito degli studi, c’è
anche un certo atteggiamento di sufficienza nei confronti delle dinamiche del
Risorgimento, considerate in fondo non così rilevanti per lo studio della
storia italiana della prima metà dell’Ottocento; quando poi capita che siano
studiati personaggi che più direttamente erano stati coinvolti nelle vicende
risorgimentali, l’interpretazione che viene suggerita in alcuni studi
importanti è che, in fondo, le loro azioni politiche o le loro declamazioni
ideologiche, avevano altre finalità, erano mosse da altri interessi, da altri
obiettivi, normalmente di tipo economico-sociale. In questo caso
un’impostazione storica elegantemente neo-materialistica tende a sottrarre
significato alle battaglie o alle discussioni o alla stessa formazione del
movimento risorgimentale.
Lucy Riall conclude la sua
panoramica in modo un po’ interlocutorio. Da un lato riconosce la buona qualità
della maggior parte degli studi che ha passato in rassegna, dall’altro torna a
osservare che questo revisionismo storiografico sembra voler evitare
tenacemente il nodo storico fondamentale del Risorgimento, ovvero la formazione
di uno stato-nazione. Non c’è dubbio che ciò che caratterizzò in modo
particolare il primo Ottocento italiano fu una radicale ristrutturazione degli
assetti geopolitici della penisola, compiuta da un movimento politico-militare,
quello risorgimentale appunto, molto variegato al suo interno, fino alla più
drammatica conflittualità, ma unito nell’obiettivo di dare uno stato alla
nazione. Stando così le cose Lucy Riall si chiede allora se può vaver senso
fare come se tutto ciò non abbia avuto significato. Il Risorgimento come evento
casuale? Così dicendo il processo di costruzione dello stato-nazione sembra
inesplicabile, una specie di scherzo del destino.
Dagli anni Novanta ad oggi
sempre più storici si sono interessati del Risorgimento, perché i simboli di
quel periodo, nonostante le numerose contestazioni, sono strati veicolo di un
importante messaggio culturale ed emozionale alla società italiana del XIX e XX
secolo, cosicché dal loro esame dipende una comprensione equilibrata dello
svolgersi del processo di unificazione e del fatto, assolutamente
rivoluzionario per i contemporanei, del crollo di antichi stati e del formarsi
dalle loro ceneri di un duraturo stato nuovo (indicazioni bibliografiche pag.
145).
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