giovedì 2 febbraio 2012

Gli Stati italiani prima dell'Unità


Gli stati italiani prima dell’Unità

Prefazione

Negli anni successivi al Congresso di Vienna il principe Metternich, ministro degli esteri austriaco, inviò sul territorio italiano degli agenti che monitorassero i rapporti tra il potere pubblico e la società. L’opinione pubblica, nel quale si sperava di suscitare del consenso, rimpiangeva i governi napoleonici crollati tra il 1814 e il 1815. Inoltre gli agenti dovevano monitorare le carenze strutturali delle amministrazioni insediate dai governi restaurati, visto che un loro buon operato poteva garantire la quiete politica tra governati e governanti, non basata esclusivamente nella repressione. Tra questi agenti figuravano Diego Guicciardi e Antonio Mulazzani, esponenti di primo piano della classe di governo attiva nel regno d’Italia di Eugène Beauharnais, ora investiti di importanti funzioni amministrative rispettivamente a Milano e a Venezia, e il toscano Tito Manzi, sotto Gioacchino Murat, influente esponente del Consiglio di stato del regno di Napoli, al momento privo di qualsiasi impiego ufficiale. Il coordinatore in Italia di questa missione informativa era Diego Guicciardi, che tenne un diario delle attività segrete di quegli anni, e alla sua morte nel 1836 il figlio Enrico lo rinvenne e lo fece recapitare a Metternich. L’ex funzionario italico, dopo aver segretamente incontrato il cancelliere austriaco, riattivò la sua rete di contatti individuando Antonio Mulazzani, residente in Veneto per motivi di ufficio, si sarebbe chiesto di fornire lumi sulle condizioni dello spirito pubblico tanto nella sua regione quanto nelle contigue porzioni settentrionali dello Stato pontificio. Guicciardi avrebbe provveduto alla Lombardia e al regno di Sardegna. Al resto dell’Italia (ducati padani, granducato di Toscana, principato di Lucca, parti restanti dello Stato pontificio, il regno delle due Sicilie) avrebbe pensato Manzi che era libero di viaggiare non ricoprendo cariche governative.
Si potrebbero considerare Guicciardi, Mulazzani e Manzi dei voltagabbana verso uno stato che gli aveva dato lavoro un paio di anni prima. In realtà, nei loro resoconti, erano molto critici nei confronti dei governi austriaci, mentre la precedente amministrazione era vista come “illuminata, ferma e rigorosa”. Manzi, in particolare rifiutò di ricoprire il titolo di consigliere aulico nell’impero asburgico, e si fece fare consigliere di reggenza ma in segreto, in modo da non contraddire il suo amore per l’Italia. Infatti l’incarico venne accettato solo per la speranza che, attraverso l’apprezzamento del suo lavoro, ci fosse un ripensamento sul regime istituzionale che si stava profilando. Nei rapporti a Metternich si leggeva che si dovevano conservare le istituzioni dell’età appena trascorsa e non si doveva prestare ascolto ai tanto nostalgici dell’antico regime, che alla caduta di Napoleone avevano rialzato la testa dopo anni di silenzio. Manzi, in realtà nei suoi giudizi, salvava quasi solo il nuovo governo borbonico di Napoli, perché era il più coerente erede delle innovazioni introdotte nel regno meridionale in età napoleonica, rispetto agli altri stati che erano affondati nell’immobilismo delle amministrazioni restaurate nel regno di Sardegna, nel granducato di Toscana, nei ducati padani e nello Stato pontificio, anche se il primato negativo spettava a Lucca. I Borboni, invece, erano più efficienti, avevano mantenuto l’ordinamento murattiano nel Mezzogiorno continentale, e nel 1818 l’avevano esteso anche in Sicilia. Concentrare saldamente il potere nelle mani sovrane e organizzare amministrazioni efficienti e funzionali, dare forza allo stato, sottrarne ai vecchi corpi privilegiati, in primis alla nobiltà e al clero.
A questo punto, perché Metternich aveva scelto Manzi, e Manzi aveva accettato? Metternich sapeva che Manzi amava la rivoluzione, ma non credeva nella repubblica, ma nella monarchia. Credeva inoltre che avrebbe abbracciato e seguito la causa austriaca. Nel 1820, però, ci fu il moto di Napoli, che vide ben troppo evidente la sua eccitazione. Nel 1922 i rapporti con gli agenti segreti italiani di Metternich si interruppero. Ciò poté avvenire perché, come ammetteva lo stesso Metternich, tra governo alla napoleonica e governo austriaco poteva ben prodursi, al di sotto delle differenze superficiali, qualche non marginale punto di contatto.
Centralità, luminosità, efficienza dell’amministrazione: obiettivi apparentemente neutri e tutti identici, di per sé poco idonei a suscitare passioni, slanci ideali, ancoramenti ideologici. Eppure è nella costellazione da questi delineata che gli informatori italiani di Metternich parevano riconoscere, agli esordi della restaurazione, il riverbero più intenso e durevole delle aspirazioni rivoluzionarie che avevano coltivato, in giovane età, tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, quando gli slogan che infuocavano le colonne della stampa giacobina suonavano, piuttosto: democrazia, rigenerazione, patriottismo, abbattimento del potere dei re e della chiesa, abolizione della nobiltà e delle diseguaglianze, in qualche caso addirittura rivoluzione sociale.

Capitolo 1
L’ora delle repubbliche (1796-1802)

Nel 1796, quando l’esercito franco-rivoluzionario invase l’Italia, la penisola risultava politicamente divisa in un variegato mosaico di stati, retti certo in base a formule diverse, ma accumunati dalla vigenza al loro interno di istituzioni e leggi rispondenti ai valori chiave di quello che dopo la rivoluzione francese si cominciò a chiamare “antico regime”: privilegio giuridico nobiliare ed ecclesiastico, con godimento da parte dei componenti i due principali corpi privilegiati di parziale o totale immunità fiscale e di foro riservato, larga autonomia dei poteri locali rispetto a quello centrale e ai suoi rappresentanti nelle periferie, esposizione dei semplici sudditi all’arbitrio dei pubblici poteri, tanto quelli riconducibili direttamente all’apparato principesco, quanto quelli espressivi di giurisdizionali alternative o complementari a quest’ultimo. Assenza, infine, dei diritti di rappresentanza politica individuale, nella forma che questi cominciarono abitualmente ad assumere nell’accezione diffusa a partire dall’emanazione delle costituzioni francesi degli anni ’90 del ‘700.
I vari stati non erano privi di costituzione, ed anzi, in essi sussistevano dei patti legislativi (o, al massimo, statuti). Al contrario del senso di costituzione sancito dalla rivoluzione francese, cristallizzato nelle costituzioni del 1791, 1793 e 1795, che prevedevano la sovranità popolare, le costituzioni di antico regime non prevedevano organi parlamentari espressioni della cittadinanza capaci di contendere il potere sovrano, rappresentato come unitario e assoluto soprattutto in quello che diverrà il potere legislativo. Piuttosto esse si sostanziavano della condivisione di una comune nozione di diritto, inteso essenzialmente come tesoro di regole ricevute dalla tradizione e per questo in linea di principio da non modificare, da parte dell’autorità sovrana e dei corpi collettivi (aristocrazia, clero, città, in qualche caso anche comunità rurali) cui era demandata la funzione di rappresentare il territorio, nella misura in cui non avesse leso antiche consuetudini e tradizioni, che era incaricato di custodire insieme ai corpi sociali, il potere sovrano era assoluto e insindacabile. Ma al contempo era costituzione del territorio tutto ciò che faceva parte del tradizionale ordinamento giuridico-istituzionale locale che contribuiva a dislocare porzioni rilevanti di pubblico potere al di fuori della sfera giurisdizionale sovrana, o nel caso delle repubbliche del governo centrale.
Gli statuti c’erano in moltissime città del centro-nord ma anche nel mezzogiorno. Le carte di regola governavano le transazioni quotidiane interne di molte comunità montane. C’erano inoltre gli statuti delle arti (corporazioni) per cui si esercitavano discipline di lavoro artigianale e manifatturiero, così come quelli che regolavano l’attività dei collegi professionali e delle università. Erano costituzioni anche (nel mezzogiorno e nei domini sabaudi, Friuli veneziano e stato della chiesa) le giurisdizioni feudali laiche ed ecclesiastiche, al cui interno ogni individuo risultava suddito di un signore locale, ancor prima del proprio sovrano. Poi c’erano le istituzioni collegiali che con vario nome (parlamenti, congregazioni, consigli, senati) rappresentavano in forma gerarchica e corporata il territorio, contribuendo al ricco pluralismo istituzionale dell’antico regime. Un pluralismo che rendeva difficile la secca equazione tra potere pubblico e stato sovrano. In baso a tutti questi poteri lo stato andava pensato in molti rami distinti, e non come unico tronco con delle derivazioni.   

Il riformismo settecentesco e i suoi limiti. Prima dell’invasione franco-rivoluzionaria gli equilibri tra governo e giurisdizione si erano incrinati. A partire dagli anni ’40 il dibattito si concentra sulla riformulazione delle istituzioni, anche se un cambiamento si era dato solo in Lombardia e in Toscana negli anni 70-80, due regioni governate dagli Asburgo, una come periferia meridionale dell’impero, l’altra come granducato indipendente, confluito nel patrimonio della casata grazie al matrimonio tra gli Asburgo e i Lorena. Altrove (Venezia, Genova, Lucca, Stato pontificio) ci si era arenati alle intenzioni, mentre in altri casi, come in quello sabaudo per quanto riguarda la porzione continentale dei domini dei Savoia, esclusa la Sardegna, si era operato senza clamore, con efficacia dagli anni ’30. nel regno di Napoli e Sicilia ci fu un esito deludente di molti dibattiti sulla questione.
Negli anni ’80, mentre Giuseppe II d’Asburgo lanciava in Lombardia uno degli attacchi più virulenti mai concepiti nell’Europa dell’antico regime al mondo delle autonomie corporate, e mentre suo fratello Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, delineava a sua volta un progetto di costituzione nel quale si potevano osservare riverberi evidenti di una visione della società ormai disancorata dai vecchi ceppi cetuali, per poi promulgare, qualche annoi più tardi, una riforma del diritto penale finalizzata a fornire agli individui garanzie di fronte alla legge completamente sconosciute alla cultura e alla prassi giudiziaria sin lì corrente,m nel resto degli stati italiani lo slancio riformatore, nella misura in cui se ne era dato uno, ovvero, essenzialmente, nell’ambito delle relazioni tra stato e chiesa, al fine di contenere le prerogative di quest’ultima, mostrava di segnare ormai il passo. La giurisdizione cetual-territoriale stava, cioè, riprendendo il sopravvento sul governo, una tendenza che sui sarebbe rafforzata nei primi anni ’90, estendendosi alla Lombardia e alla Toscana, dove, negli anni precedenti all’arrivo dei francesi, si sarebbe assistito alla revoca di molte delle innovazioni imposte dai due figli di Maria Teresa, e al ritorno allo status quo ante.
In Francia, negli anni ’90, gli eventi avevano preso una svolta quando le prime fasi rivoluzionarie si erano diradate per cedere il passo alle nuove carte costituzionali, la seconda delle quali, insieme al tradizionale ruolo di con titolarità del pubblico, potere prima dei corpi privilegiati, cancellò tout court l’istituto stesso della monarchia, individuando nella cittadinanza nazionale, inedito soggetto composto da una miriade di individui giuridicamente uguali, la fonte unica di una giurisdizione unica, quella statale, la costituzione dell’anno III scalzava i re dal prono, consacrando la trasformazione del paese in una repubblica.

Nascita e morte delle repubbliche sorelle. Quando tra il 1796 e il 1799 le armate franco-rivoluzionarie dilagarono nella penisola spodestando i sovrani e instaurando le repubbliche “sorelle” di quella francese, confluirono ad appoggio del nuovo ordine anche le élite tradizionali, l’aristocrazia, che si riconosceva nell’ala moderata pur con il rischio di perdere i suoi privilegi, ma cercando di trarre vantaggio da questo innovativo assetto.
La repubblicanizzazione della penisola iniziò nel dicembre del 1796 quando l’esercito di Bonaparte da qualche mese si era impadronito dell’Italia settentrionale. I filo francesi di Modena, Reggio Emilia, Bologna e Ferrara proclamarono la Repubblica Cispadana.
Ø  Nel 1797 Bergamo, Brescia e Crema recisero il legame con Venezia, che nella pace di Campoformio aveva consegnato i suoi territori fino al Mincio all’Austria fino al 1805, e divennero repubbliche indipendenti.
Ø  A maggio venne istituita, con i territori dell’ex Lombardia austriaca e con quelli cispadani di Reggio, Modena, Massa e Garfagnana, la Repubblica Cisalpina, mentre la Romagna entrava nella Cispadana.
Ø  Il 6 giugno prendeva forma la Repubblica ligure democratica, sovrana sugli stessi territori sui quali, pure in forma repubblicana, aveva governato sino all’arrivo dei francesi il patriziato di Genova.
Ø  Negli ultimi giorni di luglio la Cispadana confluì intera nella Cisalpina e divenne un vasto stato esteso dalle Alpi al mare, comprensivo dei territori dell’ex Veneto occidentale (Bergamo, Brescia, Crema) scampati alla soggezione all’Austria sancita dal trattato di Campoformio per il resto delle città già suddite della Serenissima.
Ø  Dopo qualche mese una nuova ondata repubblicana si riversò al centro-sud.
Ø  A novembre fu Ancona a costituirsi in repubblica indipendente e a staccarsui da ciò che restava dello Stato della chiesa.
Ø  Tre mesi più tardi, il 15 febbraio 1798, con il pontefice in fuga venne proclamata la Repubblica romana, assalita qualche mese più tardi dal re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, che dopo aver espugnato Roma a fine novembre nne venne ricacciato dall’esercito francese.
Ø  L’esercità francese non si arrestò e il generale Championnet fece marciare i suoi uomini verso sud travolgendo la resistenza borbonica. Nel gennaio 1799 i francesi entrarono a Napoli abbandonata da un mese dal sovrano e proclamata dai patrioti napoletani repubblica contestualmente all’iungresso delle truppe transalpine.
Ø  Nel mentre anche Lucca, occupata a sua volta dai francesi, da repubblica aristocratica venne trasformata in repubblica democratica.
Nel giro di due anni e mezzo, sotto la spinta francese, gli stati italiani sperimentarono la repubblicanizzazione rivoluzionaria e la riscrittura dei confini.

Il triennio antidispotico. Il triennio rivoluzionario introdusse alcune innovazioni di base nel sistema politico. Davanti alla provvisoria caduta dei sovrani si assistette anche all’affluenza dei nobili nella corrente repubblicana, nonostante l’abolizione del mondo del privilegio corporato, per una cittadinanza unitaria e nuova. Questo perché le repubbliche sorelle avevano abolito il potere assoluto dei sovrani contro cui i nobili si erano scagliati per tutto oil secondo ‘700. ora brillava una giurisdizione intesa come partecipazione della cittadinanza egualitaria alla titolarità del pubblico potere, che si esprimeva in forme diverse da quelle tradizionali ma si chiamava Costituzione, come nell’antico regime.
L’avversione al dispotismo unì l’aristocrazia più aperta e disinibita (partito moderato) e i patrioti (professionisti e intellettuali) che si erano schierati dalla parte della rivoluzione. I nobili credevano di realizzare delle repubbliche aristocratiche, come a Venezia, Genova e Lucca, cosa che non potevano fare con i sovrani. Erano pronti ad accantonare i loro privilegi di status in cambio della partecipazione attiva e determinante al pubblico potere ad essa offerta da una costituzione che selezionava rigidamente in base al censo il corpo elettorale.
All’interno del partito democratico che fronteggiava nelle repubbliche sorelle quello moderato e nel quale, accanto a esponenti della borghesia professionistica militavano come singoli anche aristocratici, la nuova costituzione introdotta dai francesi veniva vista come partenzaa per sviluppi partecipativi o per più vaste aperture sociali che avrebbero arricchito la cittadinanza civile sancita dalle carte con una cittadinanza politica più larga di quella tutta vestita di panni proprietari, nei quali i nobili più lungimiranti non facevano fatica a identificare i propri.

Le costituzioni rivoluzionarie. La prima costituzione rivoluzionaria italiana fu quella bolognese nell’ottobre del 1796. nell’aprile del 1977 ci fu la presentazione di quella napoletana. Il travaso tra costituzionalismo antico e quello moderno si esplicitava nell’adesione alle linee generali della costituzione francese dell’anno III.
La libertà, l’uguaglianza, la sovranità popolare, la sicurezza, la proprietà, le garanzie relative all’arresto e alla detenzione, il principio di stretta legalità, la proporzione delle pene. Questo era il preambolo delle carte costituzionali, che rispecchiava la rivoluzione. Nelle costituzioni ligure e cispadana il principio di piena equiparazione dei culti veniva sostituito dalla preminenza cattolica. Era l’enunciazione dei diritti del cittadino, un nuovo soggetto giuridico fuoriuscito dalla disgregazione dell’antico regime.
Un altro punto delle carte costituzionali era la separazione tra la funzione legislativa, esecutiva e giudiziaria, con la teorica prevalenza gerarchica della prima, cristallizzazione istituzionale figurata della sovranità popolare – sulla seconda, i cui componenti venivano da questa nominati, e con la piena indipendenza della terza, affidata a magistrati in parte eletti direttamente dalla popolazione, in parte ai livelli superiori, designati dal corpo legislativo.
Il corpo legislativo era diviso in due Camere elettive, ad una delle quali (Camera bassa) era affidato il compito di proporre leggi, all’altra (quella alta) di approvarle o respingerle. Ma, e qui si vede la distanza tanto dalle costituzioni italiane del triennio quanto dal loro arcitesto, la costituzione francese dell’anno III, rispetto alla costituzione popolare del 1793 si rivelava evidente, - il diritto elettorale vi risultava delineato a vantaggio dei ceti proprietari.
Laddove la cittadinanza civile delle repubbliche sorelle era larga, quindi con diritti e doveri uguali di fronte alla legge, quella politica era stretta e selettiva. Al voto primario erano ammessi tutti i contribuenti maschi adulti, che non era l’insieme della popolazione adulta, visto che c’erano moltissimi nullatenenti, e questi si delimitavano a designare un altro corpo elettorale investito del secondo grado delle elezioni, quello da cui scaturiva la nomina di deputati. Per entrare in questo corpo venivano richiesti requisiti di ceto, età e capacità, per escludere gli strati inferiori della popolazione, assicurando la preminenza dei ceti medi e alti.
Il soggetto politico delle costituzioni repubblicane di fine Settecento era, in altre parole, rappresentato, dai proprietari e lo scopo principale del patto sociale era la difesa di una qualità, la proprietà privata, socialmente poco distribuita, e anzi tutta concentrata all’interno di un ristretto strato di borghesi e di ex nobili.

L’illusione elettorale. Tanto a Milano, quanto a Roma e a Napoli, l’onda d’urto impressa dall’esercito francese, con l’appoggio di qualche settore della società locale, tra il 1796 e il 1799 aveva messo in fuga le teste coronate e consegnato teoricamente attraverso le carte costituzionali il potere alla cittadinanza; una cittadinanza stretta e socialmente selezionata, al punto da offrirsi come sponda d’approdo accettabile anche per le antiche élite cetuali. Sui troni abbandonati dai re il potere non era tenuto dai rappresentanti della sovranità popolare, bensì dei capi dell’esercito occupante, la cui principale preoccupazione era quella di istituire esecutivi disinceppati dal sindacato del legislativo e viceversa saldamente assoggettati al loro personale controllo. Le elezioni, per il cui espletamento ogni carta costituzionale prevedeva la convocazione di una serie successiva di assemblee ai vari livelli della ripartizione politico-amministrativa del territorio, ciascuna chiamata a designare i partecipanti a quella corrispettiva all’altezza dell’unità amministrativa superiore, così da giungere, in capo a un complesso e farraginoso meccanismo indiretto a due o anche a tre gradi, alla selezione dei membri delle due Camere, in alcune delle repubbliche del triennio almeno una volta in effetti si tennero (Repubblica cispadana e ligure). In altre, invece, rimasero puramente allo stadio di progetto, vuoi per la durata effimera del contesto politico per il quale erano state concepite (la repubblica democratica di Lucca e la napoletana durarono appena pochi mesi, quella romana poco più di un anno), vuoi per l’indisponibilità delle forze militari d’occupazione a tollerare il consolidamento istituzionale di un potere legislativo in grado di sindacarne le disposizioni, non di rado duramente vessatorie nei confronti delle finanze delle repubbliche ospitanti. Il vero soggetto politico-istituzionale delle repubbliche sorelle fu, semmai, l’organo collegiale (in Francia chiamato direttorio) titolare del potere esecutivo, insediato nelle capitali e dotato di una rete di agenti periferici che nella Cisalpina erano denominati commissari del potere esecutivo e che reggevano un ufficio insediato nei capoluoghi di dipartimento (cioè di provincia): ma il fatto è che l’istituto direttoriale risultò quasi completamente impermeabile al controllo e alla pressione del corpo legislativo, anche là dove se ne formò uno.
Il caso della Repubblica cisalpina, che ebbe una durata lunga (maggio 1797 – aprile 1799) e la sua estensione territoriale, dimostra un legame privilegiato e obbligante, per cui l’esecutivo venisse intrattenuto dai generali che si alternavano al comando delle truppe francesi di occupazione e con gli ambasciatori francesi di turno a Milano, che in più di una occasione ne modificarono di imperio composizione e orientamenti, attuando frequenti colpi di stato, finalizzati alla formazione di governi docili alle loro sollecitazioni.

Cittadinanza politica e cittadinanza civile. Il tema della cittadinanza politica venne dibattuto, ma il suo contenuto stentò a trovare concreta applicazione. La virulenza del dibattito, dello scontro tra i democratici, fautori di una cittadinanza politica larga, e i moderati, i quali, in linea di continuità con l’esclusivismo di antico regime, tendevano piuttosto a leggerla nel senso di una giurisdizione adattata al mondo nuovo e al tempo stesso potenziata nella sua efficacia pratica, fu inversamente proporzionale alla virtuale attualità del problema, in repubbliche nelle quali il governo, longa manus dei militari, mostrò di godere nei confronti della popolazione di una insindacabilità e di una libertà di manovra mai conosciuta in precedenza.
Gli abitanti delle repubbliche sorelle in gran parte non ebbero modo di conoscere i riti democratici della partecipazione al potere, ovvero di godere di una piena cittadinanza politica. Non di meno, lo smantellamento dell’antico ordine cetuale comportò l’addensarsi di un tessuto di relazioni totalmente inedito tra l’individui e il potere politico: quello definito dall’istituto della cittadinanza civile, di cui quella politica cominciò allora ad essere considerata come un corollario possibile e auspicabile, ma non indispensabile. La pervasiva centralità del potere esecutivo, i cui sviluppo nell’esperienza politica delle repubbliche rivoluzionarie offrivano quotidiana testimonianza, riposava sul presupposto congiunto dell’eguaglianza politica delle repubbliche rivoluzionarie offrivano quotidiana testimonianza, riposava sul presupposto congiunto dell’eguaglianza giuridica degli abitanti, elevati al rango di cittadini, e dell’esercizio monopolistico del pubblico potere da parte dello stato in virtù di una formazione generale resa simultaneamente vigente senza eccezioni, sull’intera superficie territoriale.
Contestualmente all’abolizione dei privilegi del clero e della nobiltà, quest’ultima nell’abolizione tout court dell’istituto, si era arrivati alla cancellazione di qualsiasi giurisdizione (feudale, ecclesiastica, corporata, cittadina) alternativa (o complementare) a quella statale. Liberando la nuova cittadinanza dai vecchi reticolati gerarchico-cetuali e trasformando la popolazione in un insieme di privati giuridicamente tutti eguali (e tutti egualmente impermeabili a qualsiasi giurisdizione particolare), lo stato aveva così in primo luogo liberato se stesso, assumendosi l’esclusiva dell’esercizio del pubblico potere. Poi ha provveduto a riorganizzare il territorio a misura delle proprie esigenze, sovrapponendovi le maglie di un’amministrazione unitaria e centripeta nella quale ciascun cittadino riconosceva ora necessariamente il proprio esclusivo interlocutore istituzionale.

Da sudditi ad amministrati. Più che nell’esercizio tutto virtuale di diritti politici, la nuova condizione di cittadino si misurava dunque in realtà già in quegli anni, durante i quali, pure, l’affermazione di principi come la libertà di culto, di pensiero, di stampa, di associazione suonava come un’epifania di straordinaria valenza simbolica, nella fruizione uniforme e paritaria della condizione di amministrato. Si trattava di una condizione il cui inveramento aveva reso necessario il preventivo e tutt’altro che pacifico azzeramento della varia geografia giurisdizionale preesistente. Come si tentò di fare a Napoli per poi tornare subito indietro, trasferendo di colpo lo schem,a dell’amministrazione centralistica franco rivoluzionaria, costruito in base ai colpi di compasso che di segnava la trama geometrica dei dipartimenti e dei cantoni, a un territorio tradizionalmente frastagliato in una pluralità di giurisdizioni in parte parallele e in parte sovrapposte, a ciascuna delle quali corrispondeva un ambito spaziale sotto molti aspetti autonomo rispetto all’insieme dei nessi circostanti. I molti nomi della tradizione corrispondevano a un pluralismo di poteri, a una varietà giurisdizionale, a una frammentazione dello spazio giuridico-istituzuonale, a una frammentazione dello spazio giuridico-istituzionale , oltre che territoriale, che lo stato della cittadinanza egualitaria, lo stato cioè degli amministratori e degli amministrati, non poteva lasciar sopravvivere, pena l’ineffettualità delle proprie funzioni.

Uomini nuovi per strutture nuove. Alla nuova società degli individui privati, uscita dall’abolizione dei poteri corporati e insediata in un territorio non più suscettibile di dotarsi di una pellicola giurisdizionale autonoma rispetto a quella statale, corrispondeva ora uno stato munito del monopolio istituzionale e animato dal proposito di porsi in diretta relazione con tutti i cittadini indistintamente. Per farlo, e per rendere a questi ultimi possibile di ripercorrere a loro volta allo stato in forma diretta, la struttura del governo doveva necessariamente distendersi sul territorio attraverso una trama uniforme, facendo corrispondere al gioco di scatole cinesi del ritaglio amministrativo (il dipartimento, il cantone, il comune) una rete di uffici agevolmente riannodabile al centro e idonea tanto a controllare la galassia dei privati quanto a proporsi ad essa come il naturale referente per le loro esigenze. Mentre i tradizionali poteri locali flettevano (tanto le giurisdizioni feudali ed ecclesiastiche, prevalenti nel Mezzogiorno, quanto gli autogoverni patrizio-cittadini più diffusi nell’Italia centro-settentrionale) e mentre gli istituti di partecipazione democratica al potere formalmente previsti dalle carte costituzionali stentavano a diventare realtà, a imporsi dunque era l’amministrazione dello stato, con la sua trama di dipartimenti e di cantoni, riverbero istituzionale della nuova geometria dell’eguaglianza civile. Ma la crescita dell’amministrazione non era, a sua volta, fenomeno che non incidesse a fondo nella struttura della società, modificandone bruscamente le gerarchie  di deferenza e di status. Al contrario,m già negli anni rivoluzionari essa si tradusse nell’approdo ai vertici del potere civile di un’onda di uomini nuovi in genere tanto appassionatamente schierati a favore del nuovo ordine quanto irrimediabilmente eccentrici e marginali all’interno della stratificazione sociale di antico regime. Amministrazione ed esercito: furono questi, molto più che balbettanti corpi legislativi, i luoghi nei quali parole come eguaglianza e libertà cominciarono ad assumere, tra il 1796 e il 1799 un significato concreto e al tempo stesso a dispiegare un effetto sovversivo nei confronti delle tradizionali gerarchie sociali.
Bonaparte aveva parlato di “carriera aperta ai talenti”, ovvero cariche non più solo per un certo ceto, ma che si costituivano sulla base dell’uguaglianza. Ma questo pensiero era destinato a conoscere fortuna, al punto da compensare agli occhi di tutta una generazione di militanti filo francesi di fine ‘700 la delusione patita del piano della mancata attuazione della democrazia partecipativa siamo all’interno delle repubbliche sorelle, sia nell’ambito delle successive esperienze istituzionali franco napoleoniche.

La reazione del 1799. A partire dal ’99 l’effimero sistema delle repubbliche sorelle cominciò a crollare in ogni parte d’Italia, non solo a causa delle vittorie militari austro russe, ma anche sull’onda di una serie di insurrezioni popolari che investirono quasi ogni lembo della penisola, offrendo palmare dimostrazione del fatto che il repubblicanesimo nuovo caratteristico del triennio di fine ‘700 non era riuscito a mettere radici presso la stragrande maggioranza della popolazione, sia aristocrazia che masse popolari-rurali. I popolani mostrarono una netta, anche se non esclusiva, propensione per l’ordine antico e per la tradizione, e in nome di questa non esistarono a massacrare chi s’era schierato dalla parte dei francesi, inseguendo un sogno di partecipazione paritaria al potere, che le varie vicissitudini del trienniuo s’erano via via incaricate di convertire nella quasi costante umiliazione del giogo militare, prima di sfociare nell’epilogo tragico della reazione.
Serpeggianti per tutto il triennio, dalla primavera del 1799 in avanti, le insorgenze antigiacobine si fecero generalizzate e ad esse si accompagnò l’avanzata degli eserciti della coalizione francese. Alla fine di aprile le truppe transalpine furono costrette ad abbandonare la Lombardia e il governo cisalpino le seguì in Francia. Pochi giorni più tardi aveva inizio l’insorgenza antifrancese in Toscana; ancora qualche settimana e i russi, scortati a loro volta da bande di insorgenti, entravano a Torino. A metà giugno cadde Napoli, alla fine di settembre Roma. La presenza francese nella penisola si limitava, dunque, alla sola città di Genova, dove a dicembre venne comunque sciolto il governo repubblicano costituzionale sostituito con una commissione esecutiva d’emergenza. La reazione avrebbe poi avuto durata e modalità assai diverse a seconda delle aree.
La Milano capitale della prima Repubblica cisalpina, per esempio, era destinata ad essere ripresa dai francesi già nel giugno del 1800 e a divenire capitale di una seconda Repubblica cisalpina. Di lì in avanti sarebbe rimasta sotto la diretta influenza napoleonica fino al 1814, come capitale di un vasto stato che dal 1802 al 1805 si chiamò Repubblica italiana e dal 1805 al 1814, mutata forma istituzionale, Regno italico, e che venne via via ingrandendosi, inglobando il Veneto, l’Istria, la Dalmazia (dicembre 1805), le Marche (1808) e il Trentino (1810).
Il Mezzogiorno continentale, viceversa, rientrò nell’orbita francese solo nel 1806, quando Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, assunse la corona delle Due Sicilie. Il resto d’Italia, infine, fu riacquisito in ordine sparso all’egemonia napoleonica. Già nel 1801 Piemonte e Liguria, l’anno dopo Lucca, Parma e Piacenza, la Toscana, solo nel 1809 ciò che ancora restava dello Stato pontificio, cioè l’Umbria e il Lazio. Tutti questi territori in capo al 1809 furono poi annessi, anche se in date diverse, direttamente all’impero francese.

La reazione del 1799: il caso di Milano. Dato per assodato che alla fine del 1809, con l’eccezione della Sardegna e della Sicilia (rispettivamente con le corti sabauda e borbonica), la penisola italiana risultava di nuovo tutta, in forma diretta o indiretta, soggetta all’egemonia franco napoleonica. A Milano il ritorno all’antico regime durò solo qualche mese e delinearne le caratteristiche significa in realtà puntare il dito più su ciò che l’esperienza del triennio precedente venne rimosso e abolito che su quanto del vecchio disegno politico-istituzionale tornò a mettere solide radici. L’amministrazione provvisoria che resse tra il 1799 e il 1800 la Lombardia, diretta dal conte mantovano Luigi Cocastelli, commissario imperiale, si preoccupò in primo luogo di abolire le principali innovazioni giuridiche introdotte nella prima Cisalpina. In quei mesi di interregno tra la caduta di questa e la formalizzazione della sua seconda fase rientrarono dunque in vigore le distinzioni e i privilegi connessi alla nascita (nobiliare) o al rango (clericale) così come essi si configuravano alla data del 1796. la moderna nozione di cittadinanza, con i suoi corollari in termini di libertà di pensiero, di culto, di stampa, di associazione, fu rimpiazzata da quella tradizionale di sudditanza e dalla contestuale riconsegna al pubblico potere dell’assoluta discrezionalità intorno a tali materie. La costituzione fu abolita e vennero smantellati tutti gli organi nei quali essa s’era venuta cristallizzando nel triennio precedente (Corpo legislativo, Direttorio). Questa fu la reazione del ’99 in Lombardia. A ciò si accompagnò la persecuzione personale di quanti, tra coloro che maggiormente s’erano esposti negli anni precedenti in senso filo francese, non avevano scelto di seguire l’esercito della repubblica madre nella ritirata in Francia.
Nel ’99 il peso dell’aristocrazia negli uffici civici [tornò] preponderante ovunque. Ci fu inoltre una ripresa di visibilità dell’aristocrazia tradizionalista, fosse di per sé la ricostruzione di forme di governo locale dotate di robusta autonomia rispetto al centro, oltre che riammantate di un’impronta cetuale.
Il ritorno all’antico, se per un verso finì per confondersi essenzialmente anch’esso con la stessa vessatoria prepotenza dei militari (questa volta gli austro-russi) che aveva tormentato la storia del triennio precedente, per l’altro esaurì la propria spinta nel volgere di pochi mesi; distrusse sistematicamente l’esistente senza avere il tempo di convertirsi da dimensione provvisoria a progetto istituzionale dai tratti davvero riconoscibili; come potesse concretamente articolarsi la rinascita dell’antico regime che molti si erano da esso attesi restò allora questione sostanzialmente impregiudicata.

La reazione del 1799: il caso di Napoli. Tutt’altro lo scenario a Napoli. Qui, infatti, sebbene la coppia sovrana solo nel 1802 si decidesse a lasciare definitivamente Palermo per fare ritorno nella capitale, rea di essersi convertita in repubblica democratica nel 1799, la cosiddetta prima restaurazione si dispiegò lungo l’arco di oltre sei anni e fu inaugurata da un bagno di sangue che rese subito ferocemente evidente il senso del ritorno all’antico. Quella del monarca fu una furia calcolata, che diede disposizione di disconoscere gli accordi di capitolazione stipulati tra governo repubblicano e gli assedianti. Ferdinando IV intonò decisamente al colore della tirannide – una tirannide resa evidente già dalle modalità totalmente arbitrarie dei processi che decretarono lo sterminio dei vertici e dei quadri intermedi del ceto politico della repubblica, il suo stile di governo nel regno riconquistato.
A Napoli la rivoluzione giacobina l’aveva fatta il fiore dell’intellettualità civile locale di fine ‘700, ma anche una folta schiera di gioventù aristocratica. Questo venne visto dalla corona come l’ennesimo tentativo oligarchico della nobiltà contro l’assolutismo regio. Ne ricavava così l’indicazione di attuare una politica assolutistica che intendeva colpire a fondo il potere nobiliare nella Capitale e nelle province, ordinando, lo stesso giorno in cui deliberava l’annullamento delle capitolazioni, la nomina della giunta incaricata di punire i delitti di lesa maestà e la remissione dei crimini commessi dai lazzari nei giorni di vuoto di potere, anche l’abolizione dei Sedili e dei loro antichi diritti e privilegi, ovvero la formale dissoluzione del corpo civico a preponderanza patrizia che per secoli aveva esercitato la giurisdizione cittadina in condizioni di relativa autonomia rispetto ai poteri direttamente promananti della corona.
All’attacco diretto contro la giurisdizione nobiliare cittadina, cui si accompagnò, negli anni seguenti uno sforzo costante di mortificazione e di tacitamento del mondo dell’intellettualità e della cultura, l’altro grande reo, agli occhi del monarca, del tradimento del 1799, non fece però riscontro una analoga stretta di vite nei confronti di quelle giurisdizioni feudali che, con la loro sterminata superficie, distesa in tutta la massa continentale del regno, oltre che naturalmente in Sicilia, rappresentavano in realtà il maggiore ostacolo a che fosse una l’autorità nello stato, quella che viene dal trono.
Al di fuori dello spazio della capitale, in realtà i rivoluzionari del ’99 avevano potuto fare ben poco per riorganizzare il territorio in ragione dello schema “alla francese” per il semplice motivo che una parte consistente di questo non era mai davvero caduto sotto il controllo, o se ne era presto emancipato attraverso le insorgenze. E si è visto, come il decreto che disponeva la divisione dello stato in dipartimenti e cantoni, presupposto per l’avocazione al governo centrale del monopolio della giurisdizione e per l’avvicinamento del cittadino al pubblico potere, fosse stato quasi immediatamente ritirato anche là dove si era cercato di renderlo operativo. La restaurazione comportò il ritorno al vecchio sistema di governo, basato sulla giurisdizione congiunta delle corti di giustizia feudali e della burocrazia regia, organizzata a livello di provincia nell’istituto dell’udienza e sulla vorace supervisione effettuata dai grandi tribunali della capitale, terreno privilegiato di coltura del corpo togato, titolare della suprema istanza di un potere che volentieri si auto raffigurava come arcano e inavvicinabile. Colpire la feudalità avrebbe significato attaccare contestualmente anche la chiesa (si ricordi che una porzione rilevantissima delle terre feudali del Mezzogiorno erano ecclesiastiche) nella cui cooperazione venivano dalla corte riposte le massime aspettative ai fini del ristabilimento di un atteggiamento di generale disponibilità alla sudditanza e all’obbedienza da parte della popolazione.

Ancora l’antico regime. Si tornò, dunque, alla situazione anteriore al breve esperimento repubblicano, contraddistinta, dalla condivisione della sovranità a livello periferico, tra giurisdizioni feudali e tribunali regi provinciali. Insieme ad essa si ripropose quel rapporto sbilanciato tra centro e periferie che si esplicitava nella concentrazione a Napoli delle supreme istanze giurisdizionali, prima tra tutte la Camera della sommaria, nelle quali il corpo civile dell’antico regime nel Mezzogiorno, quello dei togati, aveva tradizionalmente individuato il palcoscenico idoneo per proporsi anch’esso ad attivo compartecipe dell’ordinamento cetuale del regno. Togati e feudatari erano tasselli interdipendenti dello stesso mosaico, di un pubblico potere, cioè configurato in termini non solo di sovranità divisa in plurime sovranità parallele, ma anche e soprattutto di sistema squisitamente giudiziale, contraddistinto dalla consegna a onnipotenti e arbitrarie corti collegiali cetuali dei destini e delle fortune dei semplici sudditi, con esse obbligate a ingaggiare un impari confronto ogni qual volta si materializzava davanti ai loro occhi la pubblica autorità. La restaurazione parve così offrire nel suo insieme una sorta di caricatura estrema dell’instabile equilibrio tra cetualità e potere regio, che era inscritto nella natura fondativa dell’antico regime. Da un lato, infatti, si assistette nelle materie più squisitamente politiche (processi politici, abolizione dei Sedili di Napoli), al virtuale approdo della corona a quella modalità di esercizio del potere che a fine ‘700 veniva stigmatizzata da chi la avversava come dispotismo o tirannide e al consolidarsi di una legittimazione soprattutto sacrale religiosa attorno ad essa. Dall’altro ci si trovò davanti alla ripresa vigorosa di un potere cetuale, feudale e togato al tempo stesso, del quale, nel dubbio irrisolvibile se considerarlo nocivo o utile alla Monarchia, un consigliere del re, suggeriva di smorzare pragmaticamente l’invadenza, contenendone gli abusi, piuttosto che contestandoli radicalmente.
A farsi portatori di una simile visione, tesa a conservare in vita quel sistema obliquo di mediazioni e patteggiamenti cui lo sfortunato decreto repubblicano sull’articolazione territoriale in dipartimenti e cantoni aveva vanamente cercato di contrapporre la lineare verticalità di un rapporto diretto tra amministrazione e amministrati, fossero proprio gli esponenti di quel cero dei togati che nella sussistenza dei feudi vedeva la ragion d’essere delle sue stesse prerogative. Giustizia contro amministrazione,, era il fulcro centrale della stagione che Napoleone aprì nel 1800 con il suo ritorno in Italia e con la sua opera di graduale omologazione dell’intero territorio della penisola alla legislazione francese post-rivoluzionaria.

Capitolo secondo
L’ascesa dell’esecutivo (1802-1815)

Le pratiche dell’obbedienza. Il passaggio dalla “repubblica” alla signoria, dalle pratiche di libertà a quelle opposte della obbedienza, il 18 brumaio, quando con un colpo di stato, forte dei successi riportati in Egitto, Napoleone Bonaparte, facendo leva sull’enorme prestigio che s’era guadagnato sui campi di battaglia, s’era imposto a nuovo ago della bilancia di una Francia ormai sempre più lontana dal fervore democratico degli anni roventi della rivoluzione e, al tempo stesso, sempre più propensa ad affidare a una forte autorità governativa la salvaguardia di almeno alcune tra le innovazioni introdotte nel paese dal 1789 in poi- pochi mesi dopo aver assunto, ormai da solo, il potere in Franmcia, Bonaparte guidava nuovamente i suoi eserciti al di là delle Alpi, infliggendo agli austriaci nel giugno 1800 a Marengo la sconfitta che gli consentiva, nei mesi seguenti, di impadronirsi di vaste porzioni dell’Italia settentrionale. . la cosiddetta seconda Repubblica cisalpina, arricchita di porzioni del territorio novarese, dell’intera provincia veronese e del polesine, nacque ufficialmente nel giugno 1800 e venne provvisoriamente affidata dal generale corso a una commissione di nove membri che l’avrebbe retta fino all’inizio del 1802. nel frattempo, mentre vaste parti del territorio piemontese e l’ex ducato di Parma e Piacenza passavano direttamente alla Francia, alla repubblica di Lucca e alla Liguria, veniva riattribuita una costituzione repubblicana di stampo francese, ricalcata sul modello di quella consolare entrata in vigore a Parigi in coincidenza con la presa di potere di Napoleone. La seconda fase repubblicana del dominio napoleonico nella penisola durò fino al 1805, un po’ più a lungo dunque, che in Francia dove già il 18 maggio 1804 Bonaparte aveva imposto la rinascita dell’istituto monarchico trasformando la repubblica in impero ereditario. Già all’inizio del 1802, tuttavia, la Repubblica cisalpina, la più importante delle tre presenti nella penisola negli anni immediatamente successivi al ritorno in Italia di Bonaparte dopo la reazione del ’99, aveva conosciuto una svolta importante. In seguito ai Comizi di Lione, infatti, essa era stata ribattezzata Repubblica italiana e dotata di una costituzione nella quale si coglieva nitido il segno di quella spinta verso la formalizzazione verticistica e autoritaria del pubblico potere, di cui l’ascesa di Napoleone al consolato era stata segnale premonitore.

Le istituzioni della Repubblica italiana. Se con la definizione di repubblica si vuole indicare (come avevano inteso i giacobini italiani durante il triennio e prima di loro i rivoluzionari transalpini) un sistema istituzionale basato su una attiva partecipazione democratica dei cittadini al potere, per quella italiana istituita nel 1802 suonerebbe più calzante il nome di monarchia, pervasa dalle pratiche dell’obbedienza. Le stesse introdotte in Francia alla fine del 1799. fattele adattare alla situazione italiana e sottopostele per una forzosa approvazione ad una assemblea di notabili cisalpini scelti di propria iniziativa e convocati a Lione nel gennaio 1802, Bonaparte le aveva rese carta costituzionale della nuova repubblica, di cui si era autonominato presidente, affidando la carica di vicepresidente a Francesco Melzi, quando, all’epoca della prima Cisalpina, era impegnato a convincere almeno una parte del mondo aristocratico dal quale proveniva che l’adattamento alle novità di Francia poteva risultare per gli ex sangue blu più proficuo di un nostalgico incaponimento nella memoria dei fasti solo apparenti del tardo antico regime. Rispetto al triennio rivoluzionario la caratteristica più appariscente del nuovo regime fu la scomparsa di ogni vestigia di sovranità popolare e la progressiva atrofia del potere legislativo, ridotto a semplice appendice dell’onnipotente esecutivo. Se la costituzione della prima Cisalpina e anche quella della seconda avevano infatti almeno in teoria contemplato l’esistenza di un sistema elettorale basato sull’attribuzione del suffragio a una parte della cittadinanza e sulla conseguente designazione da parte di questa dei componenti l’organi detentore del potere legislativo, quella della Repubblica italiana di una prassi elettorale basata sul suffragio della cittadinanza non faceva più parola. Al suo posto subentrava invece un sistema di designazioni dall’alto, così organizzato. Il presidente nominava a titolo vitalizio i membri di tre collegi elettorali, quello dei possidenti, quello dei commercianti, quello dei dotti, alcune centinaia di persone a loro volta chiamate a determinare la composizione di due ulteriori organi, la Consulta di stato (8 membri vitalizi) e il Corpo legislativo (75 membri da rinnovare di un terzo ogni due anni): le sedi istituzionali del potere legislativo? Semplici luoghi di discussione dei progetti di legge elaborati dal Consiglio legislativo, una struttura operativa ristretta la cui composizione veniva deica, a norma di costituzione, dal presidente della repubblica. Consulta di stato e Corpo legislativo della Repubblica italiana, privi com’erano tanto di iniziativa legislativa quanto di autentica investitura elettorale, recitavano dunque la parodia della sovranità popolare e venivano convocati raramente, su impulso dell’esecutivo che stabiliva gli ordini del giorno delle sedute. Il potere esecutivo, sottratto a qualsiasi possibilità di controllo da parte della cittadinanza il proprio vitale baricentro.
Un presidente, Bonaparte stesso, un vicepresidente, alcuni ministeri insediati a Milano e una rete burocratica statale fortemente irradiata sul territorio e munita della facoltà di dare disposizioni imperative alle amministrazioni locali piuttosto che sollecitata, come era stato il caso nella Cisalpina, a confrontarsi con rappresentanze municipali più o meno democraticamente elette e, quindi, espressive di pratiche di libertà: erano quesri i tratti caratteristici di un sistema che agli occhi degli amministrasti si visualizzò soprattutto nella figura del prefetto.

Il prefetto: un simbolo. Si trattava del funzionario proposto alla circoscrizione del dipartimento, incaricato di rendere operative le leggi, di garantire l’ordine pubblico, di controllare l’attività degli enti territoriali minori, nominare i magistrati inferiori, compilare le liste per i consigli municipali e i collegi elettorali, emettere decreti da approvarsi dal ministro degli Interni. Strettamente dipendente dal governo e dal presidente che lo nominava a propria discrezione e che altrettanto discrezionalmente poteva revocarlo,. Era il simbolo di un sistema che non concedeva più alcuno spazio all’autonomia comunale e al principio elettivo, evidenza riscontrabile anche nell’ambito dell’esercizio del potere giudiziario, articolato verticalmente per giudicature di pace e per tribunali provinciali e centrali, i cui membri, diversamente da quanto era accaduto all’epoca del primo repubblicanesimo, quando a livello locale, per esempio, i magistrati venivano eletti dalla rispettiva comunità, erano tutti assoggettati alla designazione da parte dell’esecutivo. Consisteva in questo la signoria imposta alla repubblica, in coincidenza col passaggio dal consolato all’impero, anche in Italia si assistette alla piena restaurazione della forma monarchica. Di una signoria, dunque, a pieno titolo e tuttavia ricca di giustizia e di utilità pubblica. Ò
La spinta napoleonica alla riformulazione delle strutture istituzionali a partire dal primato dell’esecutivo e dell’amministrazione, che già s’era fatta sentire impetuosa in occasione del passaggio dalla seconda Cisalpina alla Repubblica italiana, si cristallizzò in tratti pienamente coerenti quando, tra il 1805 e il 1806, Bonaparte prima impose la trasformazione della Repubblica italiana in regno, poi sottrasse ai Borboni l’intero Mezzogiorno continentale, costringendoli a riparare in Sicilia sotto la protezione inglese e insediando sul trono di Napoli in prima battuta il fratello Giuseppe (1806-1808) e più tardi il cognato Gioacchino Murat.

Le eredità della rivoluzione. Nei due regni italiani satelliti dell’impero francese, all’interno del quale confluirono invece direttamente, in capo al 1809, tutti i restanti territori dell’Italia continentale, con la sola eccezione dell’ex repubblica di Lucca, convertita in principato e affidata da Napoleone al cognato Felice Baciocchi, marito della sorella Elisa, vennerò così a costituirsi due apparati di governo fondamentalmente paralleli, entrambi contraddistinti da una  forte tasso di analogia con quelli vigenti nell’Empire. E tuttavia, al parallelismo formale delle strutture del potere e della legislazione fecero riscontro, nel nord e nel sud dell’Italia di Bonaparte, due vicende istituzionali largamente diverse. Che cosa è rimasto vivo dell’eredità rivoluzionaria nella nuova monarchia napoleonica? La disarticolazione della società per ceti e la fissazione del principio dell’eguaglianza giuridica dei singoli, che ora, per altro, non vengono chiamati più cittadini, come era d’uso al tempo della repubblica, bensì di nuovo sudditi, come è normale nelle monarchie. Così pure è confermata la tutela dei loro diritti individuali di fronte alla legge; una legge unica, scandita dalla nitida prosa dei codici, che non conosce dunque eccezioni o condizioni di immunità corporata o territoriale e che i governi e le amministrazioni che ad essi fanno capo sono tenuti ad applicare puntualmente e senza margini d’arbitrio, pena la facoltà, data agli amministrati, di ricorrere contro le autorità attraverso magistrature speciali, cuii è conferita la disciplina del contenzioso amministrativo.
Drasticamente attenuato quel ventaglio di libertà, di pensiero, di stampa, di associazione, che ha costituito il nucleo palpitante della rivoluzione e che ora si basa sul controllo e la censura, per impedire lo sviluppo di indesiderati processi di politicizzazione all’interno della società. Lo smantellamento delle istituzioni di partecipazione al potere si presenta come la logica conseguenza di un simile presupposto. Il principio della nomina dall’alto alle cariche pubbliche risulta esautorare qualsiasi residua consuetudine elettiva.
Secondo Napoleone la libertà si poteva trovare solo in un governo forte e stabile, e non nella partecipazione dal basso.

Due capitali e le loro istituzioni. La struttura istituzionale introdotta nel Regno italico e nel regno di Napoli rispondeva a un disegno sostanzialmente analogo. Al vertice di ciascuno dei due complessi territoriali stava il re. Quello del Regno italico era Napoleone stesso, che designò per altro quale proprio rappresentante in loco, con la qualifica di viceré, il cognato Eugène Beauharnais. A Napoli regnarono invece, con piena dignità di carica, prima Giuseppe Bonaparte (1806-1808), fratello di Napoleone, poi Gioacchino Murat (1808-1815), generale dell’esercito francese e cognato dell’imperatore corso. In entrambi i regni il cuore del pubblico potere era rappresentato da un nucleo di ministeri centrali (sette a Milano, prima nove poi sei a Napoli) dotati di un cospicuo apparato burocratico interno, strutturato per direzioni e articolato sul territorio in una fitta rete di uffici (finanziari, tecnici, variamente specialistici) che conosceva il proprio punto di raccordo strategico in un istituto della prefettura (così nel Regno italico) o intendenza (così nel regno di Napoli), organo preposto alla direzione politica di ciascun dipartimento (o, nel Mezzogiorno continentale, provincia). A sua volta ogni circoscrizione provinciale era suddivisa in distretti o cantoni, alla cui guida, in dipendenza dal prefetto o dall’intendente, stavano viceprefetti e vice intendenti. In ogni distretto o cantone, infine, si dava la pulviscolare trama dei comuni, suddivisi in classi a seconda del numero di abitanti e affidati alla direzione di un sindaco (affiancato da una giunta) che si chiamava podestà nelle città maggiori.
All’affermazione del principio della unicità e verticalità del comando, speculare a quell’esigenza di rafforzamento dell’autorità di governo che Bonaparte mostrava di ritenere irrinunciabile per la sicurezza dello stato e di benessere, si accoppiava tuttavia nell’architettura franco-napoleonica impiantata in Italia la contestuale valorizzazione di una dimensione collegiale della procedura amministrativa, il cui organigramma si condensava nella formazione di un corpo corrispettivo all’altezza dei principali livelli di addensamento burocratico dell’esecutivo: la capitale, il capoluogo dipartimentale o provinciale, il comune.
Così, tanto a Milano quanto a Napoli, parallela alla nomenclatura dei funzionari ministeriali, figurava quella dei grandi notabili del regno, raccolti in un organo come il Consiglio di stato che, oltre alla funzione di supremo tribunale del contenzioso amministrativo, sulla quale ci soffermeremo tra breve, esercitava compiti che spaziavano dall’esame dei progetti legislativi presentati dall’esecutivo e dei trattati di pace e di commercio, all’interpretazione degli statuti costituzionali. La capacità di questi collegi era per altro puramente consultiva; un limite che valeva anche per gran parte delle  prerogative dei corpi notabilati che affiancavano sul territorio le strutture operative periferiche del potere esecutivo. In ogni capoluogo dipartimentale o provinciale sedevano due consigli: quello ristretto di prefettura (o di intendenza) e quello largo ma estemporaneo, dipartimentale o provinciale. Il primo, che si riuniva di frequente e i cui membri erano, seppur minimamente, stipendiati, era chiamato da un lato a svolgere un’attività di cooperazione tecnica con il prefetto o l’intendente, dall’altro a svolgere le funzioni di tribunale di giustizia amministrativa in prima istanza, ovvero a giudicare con procedura rapida del contenzioso tra privati e pubblica amministrazione. Il secondo, convocato a cadenza annuale, godeva di generica facoltà di rimostranza sul piano fiscale e di controllo sul bilancio dipartimentale. In ciascuno dei comuni, il cui numero nel regno d’Italia venne drasticamente ridotto nel 1808, in seguito all’accorpamento di più minuscole unità all’interno dei cosiddetti comuni denominativi, c’era infine un consiglio (decurionato nel regno di Napoli) la cui composizione derivava da un procedimento di estrazione a sorte tra i maggiori proprietari fondiari e tra i commercianti più ricchi della rispettiva località di residenza.

Le istituzioni per i notabili. La struttura ministro-prefetto-viceprefetto (oppure: intendente-viceintendente) inquadrava lo spazio d’azione della componente squisitamente funzionariale attiva negli apparati pubblici dei due regni (quella permeabile a tutti i ceti di persone purché dotate di onestà e capacità per aspirare al maneggio degli affari), quella collegiale assolveva piuttosto la funzione prevalente, e non esclusiva, di offrire rappresentanza e visibilità istituzionale a un ceto che si presentava in buona sostanza come il naturale erede di quelle poche famiglie che avevano in precedenza per un verso monopolizzato le cariche statali per l’altro affiancato ad esse la titolarità della fitta selva di giurisdizioni complementari a quella dello stato. Il Corpo legislativo venne soppresso già nel 1807 e sostituito da un Senato composto da notabili scelti dal sovrano sulla base di liste compilate dai collegi elettorali. Nel regno di Napoli, invece, non venne introdotto del tutto. E tuttavia è allo spettro di funzioni per esso previste nel 1805 da Bonaparte che va largamente ricondotta l’attività delle varie magistrature collegiali attivate nei due regno. Le funzioni di rappresentanza svolte da queste ultime non si ricollegavano all’espressione di un principio di partecipazione dal basso all’esercizio del potere consacrato da procedure elettive. Non diversamente dai ministri, dai prefetti (intendenti), dai viceprefetti (vice intendenti), dai sindaci, anche i membri del Consiglio di stato (e del Senato nel regno d’Italia) dei consigli di prefettura e dipartimentali (di intendenza e provinciali) venivano infatti designati dall’esecutivo, che pescava in modo discrezionale nel vasto mare di un notabilato sociale talvolta restio a prestarsi all’esercizio di una funzione che molti dei suoi esponenti tendevano a percepire come inutilmente coreografica. La medesima considerazione vale per i componenti dei consigli comunali o dei decurionati, anche se in questo caso la designazione aveva luogo per sorteggio e non per secca nomina dall’alto.

Funzionari e ufficiali: amministrazione ed esercito. Funzionari versus notabili. Questa dialettica scandì il ritmo quotidiano della vita istituzionale dei due regno napoleonici d’Italia. Da un lato si assisteva alla formazione di un corpo burocratico professionale, mescolanza di uomini nati in contesti statuali diversi (la Lombardia austriaca, il ducato di Modena e Reggio, lo Stato pontificio, la repubblica di Venezia, il principato vescovile di Trento), ora riuniti in una formazione politica unitaria, e che invece nella porzione meridionale della penisola si caratterizzava per la marcata presenza, accanto a figure originarie del regno di Napoli, di sperimentati funzionari giunti dalla Francia al seguito di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat. Si trattava di fugure che rescindono nessi relazionali con l’ambiente circostante. Una burocrazia di carriera, fortemente incentivata sotto il profilo retributivo e rigidamente dipendente dallo stato, e da questo gratificata selettivamente in modo da testimoniarne l’efficienza. Un esempio erano le onorificenze cavalleresche (Ordine della corona di ferro a Milano, Ordine delle due Sicilie a Napoli), a cui si affiancò un’aristocrazia vera e propria, proponendosi come quasi nobiltà di servizio di carattere personale  e non ereditario.
Si formarono anche le monarchie militari, nelle quali agli ufficiali dell’esercito erano schiuse opportunità di carriera talvolta rapidissime, non foss’altro per il frequente ricambio che si rendeva necessario anche ai livelli alti e intermedi, al fine di mantenere stabilmente assegnati gradi soggetti a un altissimo tasso di mortalità dei rispettivi titolari, che rischiavano frequentemente la pelle tanto nei campi di battaglia di mezza Europa quanto nella repressione di fenomeni di insubordinazione al potere in qualche caso talmente corali da assumere di fatto le sembianze di una vera e propria guerra interna. Basti pensare al brigantaggio nel regno di Napoli.

La fazione dello stato. Le monarchie militari erano una forte colonna d’appoggio della monarchia. Quella moltitudine, chiamata esercito, non era parte della società, ma fazione nello stato. La fazione dello stato reclutava nelle proprie fila non solo ufficiali in uniforme da battaglia, ma anche molti funzionari dell’amministrazione civile, che tendevano a interpretare la propria funzione quasi come militari in campagna. Ed era protagonista di primo piano anche nella Milano di Beauharnais, oltre che nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e poi di Murat.

Le fazioni della società. Ben altre le caratteristiche degli uomini attivi nell’altra metà della luna del sistema istituzionale di quei regni. I consigli comunali o i decurionati, i collegi elettorali, i consigli distrettuali e dipartimentali (o provinciali), i ristretti consigli di prefettura o di intendenza, infine il Consiglio di stato e, nel Regno Italico, anche il Senato. Qui per molti versi, e soprattutto in sede di articolazioni locali e provinciali, il personale in servizio tendeva a smarrire un profilo propriamente funzionariale; piuttosto che identificarsi anch’esso con la fazione dello stato, tendeva viceversa a esprimere la voce delle molte fazioni della società. Non ci si trovava davanti, in questo caso, con la parziale eccezione di Consiglio di stato e Senato e, in qualche misura, anche dei consigli di prefettura o di intendenza, a un corpo mobile di militanti retribuiti della pubblica amministrazione, ma piuttosto a un composito insieme stanziale di figure socialmente rilevanti, alle quali i governi chiedevano di assolvere in sede locale una funzione sostanzialmente testimoniale a titolo gratuito o semigratuito, in spirito di cooperazione tecnica, piuttosto che di controllo o ancor meno di conflitto, con la burocrazia professionale interprete del potere esecutivo. E giudicavano i conti del sottintendente e dell’intendente, distribuivano le imposte regie fra distretti e comuni. Le prerogative e le capacità dei consigli comunali o dei decurionati sorvegliati a vista dai viceprefetti o sottintendenti erano assai limitate; e così pure quelle dei consigli dipartimentali o provinciali al cui interno, in occasione della loro convocazione annuale, si tendevano essenzialmente a comporre e a mediare frizioni internotabiliari e conflitti di campanile, più che tentare una studiata e corale resistenza territoriale agli impulsi imperativi promananti dal potere esecutivo. E tuttavia, anche semplicemente dall’esercizio sistematico di questa funzione, scaturì in quegli anni qualcosa di nuovo: la formazione di un’elite sociale composita al cui interno al mondo tradizionale dell’aristocrazia e della grande proprietà fondiaria cominciò ad affiancarsi quello di recente legittimato dalla prosa egualitaria, e livellatrice dei codici, del commercio, della finanza, in parte anche della cultura e dell’industria, là dove quest’ultima in qualche misura già esisteva. Essa era obbligata dai meccanismi indotti dal confronto con la scala territoriale dell’amministrazione statale a pensarsi in una dimensione istituzionalmente compiuta quantomeno provinciale; quella, in altre parole, imprescindibile per approntare, se non l’altro, l’orditura di una politica di mediazione con lo stato, soprattutto sul nevralgico terreno della fiscalità.

Una rappresentanza sociale nuova. Tanto nel Regno italico, quanto in quello di Napoli, i collegi elettorali che costituivano la sintetica irradiazione a livello nazionale dell’élite attiva nel mondo consiliare comunale e provinciale, erano articolati in tre branche. Quella dei possidenti, quella dei commercianti, quella dei dotti. Era la codificazione napoleonica. Non più l’appartenenza a un corpo privilegiato in quanto tale (nobiltà o clero) bensì l’eccellenza dei singoli nelle gerarchie della ricchezza e della cultura delimitavano ora il corpo dei titolari di una rappresentanza istituzionale della società non più concepita nei termini di autonoma capacità giurisdizionale, bensì in quelli della collaborazione subordinata con l’apparato di stato in aderenza alle regole formali sancite da quest’ultimo. Le antiche aristocrazie di sangue della penisola figuravano numerose. Ma in quanto soggetti privati e non più come espressione di un corpo giuridicamente privilegiato. Per i commercianti e per i dotti, poi, quella offerta dalle istituzioni consigliari napoleoniche costituiva la prima occasione di consacrazione pubblica di una luminosità sociale. Nel tramonto dei moduli spiccatamente aristocratici di definizione dello spazio locale e delle sue élite tipici dell’antico regime, quello che veniva prendendo forma attraverso la frequentazione delle istituzioni rappresentative dei due regni era un moderno notabilato sociale, in parte erede delle antiche aristocrazie,. In parte formato da esponenti eminenti di attività borghesi e in qualche misura anche meccaniche.

La giustizia nell’amministrazione. All’altezza dei consigli di prefettura (o di intendenza) e in sede di Consiglio di stato, inoltre, a questo notabilato nuovo competeva una funzione tutt’altro che decorativa o coreografica: quella di erogare in prima e in seconda istanza la giustizia amministrativa. La facoltà accordata ai privati di ricorrere contro atti della pubblica amministrazione da essi ritenuti lesivi dei loro diritti e contrari alle leggi rappresentava, con ogni evidenza, un segno tangibile dell’affermazione dello stato di diritto, nella quale lo stato napoleonico testimoniava della propria continuità con i principi dell’umanesimo rivoluzionario. Nell’esistenza di collegi preposti alla giustizia amministrativa di poteva, infatti, cogliere la ricusazione di quella idea della discrezionalità e insindacabilità del pubblico potere da parte dei singoli che aveva rappresentato il tratto qualificante dei modi di governo di antico regime. Quei collegi erano cioè pensati come strumenti di garanzia per il cittadini, atti a fornirgli occasione di opposizione o almeno di ritegno al voler cieco del potere, e spesso si pronunciavano verso i deboli positivamente. L’istituzione della magistratura contenziosa come corpo interno all’amministrazione, andava dunque intesa non solo come un contributo alla protezione del privato rispetto al voler cieco del potere., ma anche come la carta vincente ai fini dell’emancipazione della funzione amministrativa rispetto alle paralizzanti procedure di controllo giudiziario che ne avevano reso precario l’andamento durante l’antico regime, quando agli occhi dell’uomo comune il pubblico potere tendeva ad essere percepito e introiettato essenzialmente come arcano e arbitrario esercizio della funzione giudiziale.

Ciò che dipoi è stato inteso col nome di amministrazione. Nel regno di Napoli si trattava di un pubblico potere articolato per corti giudicanti, per tribunali, non per uffici, le cui decisioni risultavano teoricamente permeabili a infinite opportunità di ricorso e di manipolazione e sulle quali incombeva l’alea della discrezionalità dell’intervento regio: un pubblico potere tendenzialmente paralizzante per chi si trovava costretto a interloquire con esso: un pubblico potere al cui interno non trovava spazio ciò che dipoi è stato inteso col nome di amministrazione e affidato al ministro dell’Interno.

La costruzione dell’ordine amministrativo. Mancava l’amministrazione di distretto e di provincia; un tribunale supremo di ragionieri sedenti in Napoli (la Reggia Camera) giudicava lentamente i conti municipali ignorandone le origini. L’ordine della pubblica amministrazione mancava affatto nel regno. L’istituzione napoleonica di un sistema di giustizia amministrativa organizzato in modo tale da isolare uno specifico settore del contenzioso, sottraendolo alle procedure e ai tempi lenti della giustizia ordinaria, dava così espressione non solo all’esigenza di tutelare il privato rispetto a eventuali abusi dell’amministrazione, in ottemperanza alla ratio garantista dello stato di diritto, ma anche e soprattutto a quella di liberare quest’ultima (ora vischiosa sudditanza alla giustizia, nella quale essa aveva consumato la propria preistoria d’antico regime.
Il ministero dell’Interno ebbe carico di quella parte di economia civile che racchiude l’amministrazione delle comunità e province, le arti, le scienze, le fondazioni di pietà ed utilità pubblica. Dipoi, regolate con nuove leggi, le amministrazioni, fu meglio il regno diviso in province, distretti e comunità: un capo amministratore, che chiamarono intendente, abolito il preside, attendeva alla provincia il sottointendente al distretto, il sindaco al municipio. L’amministrare è cosa di uno solo, mentre giudicare è affare di più, Bonaparte non aveva dunque inteso solo connotare le differenti modalità operative di due poteri dello stato, ma soprattutto  segnalare come nell’ordinamento che stava impiantando l’esecutivo fosse destinato a diventare per la prima volta un autentico potere tout court sostanzialmente autoreferenziale e impermeabile rispetto alle propensioni alla contrattazione e, specularmente, all’ineffettualità, caratteristiche della funzione giudicante.
Per il mestiere di giudice si apre un’epoca di eclissi, perché nei suoi tradizionali interpreti, e nella cultura di cui questi ultimi erano portatori, i nuovi governanti individuavano l’ostacolo più insidioso al perseguimento degli obiettivi di trasformazione della società derivanti dall’espansione della giurisdizione stataòe e dallo smantellamento di quelle cetuali e territoriali, una classe di arrampicatori e conservatori.

Alla ricerca degli amministrati. I cambiamenti messi in cantiere dalle amministrazioni napoleoniche consistettero in primo luogo nella classificazione, uno per uno, degli individui che componevano la popolazione dei due regni, presupposto irrinunciabile per la definizione di una unitaria cittadinanza stataòe e per la fattività dei diritti e dei doveri a questa connessi.
Prima dell’età napoleonica, in un mondo contraddistinto dalle giurisdizioni miste e, dunque, dall’inesistenza del monopolio statale del pubblico potere, il compito della registrazione degli individui spettava essenzialmente alla chiesa, che provvedeva a fissare su un foglio di carta i due o tre momenti nevralgici del ciclo di vita di ogni cattolico, la nascita, la morte, eventualmente il matrimonio, e che approntava poi di tanto in tanto delle macrorilevazioni, redigendo gli status animarum. Ma è evidente che per garantire un contatto continuativo ed efficace tra la nuova, totalizzante amministrazione e la popolazione oggetto delle sue cure, tanto al fine di ricavarne il corrispettivo sul piano delle obbligazioni individuali verso il pubblico potere, quanto allo scopo di beneficiare i singoli delle pubbliche provvidenze, era necessario qualcosa di meno rapsodico. Si trattava, in buona sostanza, di seguire puntualmente gli spostamenti degli individui nello spazio statale, il luogo di sintesi della nuova cittadinanza individualistica e post-corporata, e di ancorare la chiave della loro identità non al luogo di nascita, bensì a quello, cangiante, di residenza, in modo da trasformare la documentazione in istantanea prodotta dalle parrocchie in documentazione statale a ciclo continuo. A Milano fu nel 1802, in seguito all’emanazione della legge sulla coscrizione che prevedeva in teoria l’obbligo di prestare il servizio militare per tutti i maschi adulti, che venne avviato il grande progetto dell’anagrafe e che si dette dunque esplicitazione formare all’intenzione di sostituire integralmente la registrazione statale degli individui a quella fon lì rapsodicamente assicurata, e solo in relazione ai cattolici, dalle istituzioni ecclesiastiche. Tra l’enunciazione del progetto anagrafico e la sua realizzazione operativa passando per altro quasi dieci anni. Solo nel 1810 infatti un piccolo esercito di commissari e delegati di polizia opportunamente istruiti cominciò a battere le strade della città e a bussare ad ogni porta dei 5601 edifici censiti dal catasto urbano. Ognuno dei rilevatori era munito di una mazzetta di schede, sulle quali avrebbe registrato le informazioni necessarie a formare il cosiddetto ruolo generale di popolazione. Luogo e data di nascita, residenza, stato civile, professione. Si prevedeva di seguire passo passo lo svolgersi nel tempo, sino alla tomba, delle persone. A rilasciare le informazioni richieste, destinate a confluire in forma unitaria nel nuovo ufficio dell’anagrafe, avrebbero dovuto essere i cittadini stessi, le persone raccolte negli spazi situati al di là di ciascuna delle porte alle quali i commissari rilevatori si trovavano a bussare. Questi ultimi, a loro volta, li avrebbero informati di un nuovo obbligo, al quale la nuova condizione di cittadini statali li vincolava: quello di rendere le autorità prontamente edotte di ogni cambiamento di residenza o di stato civile. Il progetto rimase utopico. Il potere pubblico ancorò esplicitamente il processo di costruzione dell’anagrafe a quello di imposizione del servizio militare obbligatorio. Ciò si traduceva, per i cittadini, in un onere pesante più che un beneficio.  La popolazione non voleva essere soggetta a controlli.
A partire dai primi anni dell’Ottocento i cittadini della Repubblica italiana (e poi del Regno italico) e in seguito anche gli abitanti del regno napoleonico meridionale, si trovarono a norma di legge tenuti a tenere in tasca un documento che assomigliava molto, salvo la presenza, al posto della fotografia, di una sommaria descrizione somatica, all’odierna carta di identità, ogni qual volta si fossero trovati a varcare il confine del distretto in cui risiedevano e in cui li si conosceva, per tanto, a vista. In assenza di quel viatico, in caso di controllo da parte di un pubblico ufficiale si sarebbero aperte loro, in attesa delle necessarie verifiche, le porte del carcere più vicino. Molti di loro preferirono continuare a ignorare la cosa.

Il controllo del suolo e del sottosuolo. Il principio di registrazione e di riconduzione al monopolio statale del sapere sull’esistente non interessò solo le persone, ma anche i beni e il mondo fisico. Essi si espresse, da un lato attraverso il raffinamento dei catasti e il potenziamento dell’amministrazione finanziaria, dall’altro, in seguito all’allestimento di nuove branche dell’apparato burocratico, preposte alla classificazione delle risorse materiali (tanto quelle visibili esternamente, quanto quelle custodite nel sottosuolo) ai fini di una ulteriore valorizzazione economica e sociale di queste.
L’ascesa del funziona rato tecnico, un funzionariato naturalmente adesivo all’attitudine alla trasformazione inerente alla ratio amministrativa, fu un dato direttamente speculare all’inedita inattualità conosciuta dalla giustizia e dalla sua vocazione irriducibilmente conservatrice. Trovò riscontro non solo nella disseminazione sul territorio di un corpo burocratico specialistico, ma anche nella formazione, al centro dei due regni, in ciascuna delle capitali, di istituzioni culturali di stato a forte caratterizzazione tecnico-scientifica, sorte di nuove accademie a direzione statale sottratte alle logiche in effettuali e tutte speculative predominanti in corpi analoghi di antico regime, quando i dotti rappresentavano un’appendice decorativa della corte, piuttosto che un’energia da finalizzare al perseguimento del pubblico bene. Tali istituzioni, l’Istituto nazionale nel regno d’Italia, la Società reale e l’Istituto di incoraggiamento in quello di Napoli, erano composte da un certo numero di membri pensionati, cioè retribuiti ai quali era delegato il compito di fissare le linee della politica del territorio, cui i governi avrebbero dovuto attenersi. Conoscere e controllare per trasformare dall’alto, la filosofia ispiratrice delle monarchie napoleoniche.

Le metafore della luce. Le nuove amministrazioni, resero possibile l’introduzione e il rafforzamento di misure di polizia sanitaria come le vaccinazioni, o come il trasloco dei cimiteri al di fuori delle cinte murarie urbane, nonché l’irradiazione diffusa di un sistema scolastico elementare teoricamente indirizzato a tutti, così come di livelli di istruzione superiori a carico statale e a frequentazione tendenzialmente aperta.

Le resistenze all’amministrazione. Anche l’introduzione del sistema metrico decimale, per esempio, faceva parte del medesimo piano di razionalizzazione e di livellamento del quale le realizzazioni illuminate poc’anzi ricordate erano a loro volta espressione. Ma non erano ben accettate dal popolo. Il naturale pluralismo territoriale di antico regime mostrava di possedere capacità di radicalmente sociale e di resistenza che lo ponevano al riparo dalle esuberanze equalizzanti tipiche dello stato napoleonico. Una duratura modificazione della mentalità collettiva, dovevano pattuire altri decreti miranti a disciplinare sotto l’egida statale (con il corrispettivo beneficio per le casse dello stato, alcuni comportamenti ludici della popolazione: il gioco e la prostituzione, che Giuseppe Bonaparte nel 1807 cercò vanamente di regolamentare, trasformando il primo in un monopolio statale, la seconda in una pratica patentata.
L’insoddisfazione diffusa per lo smantellamento della rete ecclesiastica di assistenza e beneficenza, già naturale terreno di incontro discrezionale tra i ceti dominanti e quelli subalterni in antico regime, ora sostituita da un sistema basato sul monopolio statale e dunque sull’avocazione alla cosa pubblica delle istituzioni caritatevoli esistenti, per l’altro nell’introduzione della coscrizione obbligatoria.
La falcidia dei patrimoni della chiesa confermata dalla politica italiana dei napoleonidi portò con sé anche la disgregazione di un tessuto di assistenza al povero e al diseredato, che era tanto antico da sembrare ormai naturale. Mentre, d’altro canto, il rimpiazzo statale di quella funzione, tutto intonato ai criteri produttivistici e utilitaristici irradiati da istituzioni amministrative come le case di lavoro e i reclusori, si inseriva in una logica di lungo periodo che chi si trovò a sperimentare per primo sulla propria pelle non poté in alcun modo apprezzare.

La coscrizione obbligatoria. Introdotta già nel 1802 nella Repubblica italiana (e poi confermata nel Regno italico) la legge della coscrizione venne resa operativa da Gioacchino Murat nel 1809 anche nel regno di Napoli, dove sotto Giuseppe Bonaparte per formare i reggimenti era parso più prudente far ricorso a uomini tratti dalle carceri e dalle galere o a perdonati del brigantaggio, o a ribaldi adunati dalla Polizia. Ora invece, ogni napoletano dai 17 ai 26 anni sarebbe stato scritto nel libro della milizia, dal quale tirando a sorte due nomi per mille anime avrebbero avuto l’esercito diecimila giovani all’anno. Esentati gli ammogliati, i figli unici, i figli di madre vedova e gli estimati eccellenti a qualche arte o scienza, il teorico rapporto di due sorteggiati ogni mille registrati finiva per convertirsi in una proporzione sicuramente assai meno gradevole ai coscritti; e si capisce allora agevolmente perché quella legge spiacque al popolo. Nella penisola il servizio militare era stato fino a quel momento esperienza quasi totalmente sconosciuta e per di più nei regni napoleonici esso non ebbe duirata certa, dal momento che tanto a Milano quanto a Napoli lo stato di guerra (esterna o interna) fece stabilmente da sfondo all’attività dei governanti. Per scampare al servizio militare, tanto prima quanto dopo il sorteggio, si faceva di tutto: ci si sposava precocemente, o per finta, ci si amputava un arto, si disertava e si alimentavano le file della delinquenza organizzata nel Mezzogiorno. La truppa ordinaria, quella sottratta alle campagne e ai rioni popolari delle città, e mandata a fronteggiare le turbolenze sociali e territoriali interne ai regni, o a spargere i l proprio sangue sui campi di battaglia di qualche paese lontano, rappresentava così il rovescio della medaglia di quella fazione militare nella quale poc’anzi abbiamo riconosciuto il nucleo più entusiastico della militanza napoleonica. I faziosi in divisa appartenevano quasi tutti all’ufficialato: i soldati semplici del prestigio fruito dai primi non ricevevano che qualche raggio periferico, non sufficientemente intenso da compensare rischi e disagi di una vita tanto sopra le righe quanto scomoda e a tratti drammatica.

Le peculiarità del Mezzogiorno. Quasi del tutto peculiare del regno meridionale fu l’opera di smantellamento della feudalità che, a partire dalla legge emanata da Giuseppe Bonaparte nel 1806, rappresentò il compito forse principale scaricatosi sulle spalle dei governi che ressero Napoli fino alla caduta di Murat. In gran parte dei territori facenti parte del regno d’Italia milanese, viceversa, il problema non si pose, dal momento che i residui feudali, per altro già allora di rado cospicui, erano stati eliminati durante la fase rivoluzionario-repubblicana di fine Settecento. A quell’epoca anche a Napoli gli uomini della repubblica del 1799 avevano messo mano a un progetto di eversione della feudalità; ma la breve durata della loro avventura aveva fatto si che esso restasse lettera morta. E con il ritorno dei Borboni il feudo era tornato ad essere la cellula di base del territorio meridionale, non solo sotto il profilo, ma anche e soprattutto sotto quello giurisdizionale. Al momento dell’avvento dei napoleonidi, come già prima della repubblica del 1799, circa il 70% della popolazione del regno viveva all’interno di territori feudali laici o ecclesiastici ed era di conseguenza soggetta alla giurisdizione feudale, prima che a quella statale, la quale esercitava, come si è avuto modo di illustrare, una forma di supervisione sulla prima, quasi mai invece una diretta interlocuzione con i sudditi.
L’abolizione delle istituzioni feudali costituì perciò nel Mezzogiorno il presupposto irrinunciabile per offrire spazio di intervento giurisdizionale all’amministrazione, e per operare di conseguenza il ritaglio compartimentale del territorio alla luce del progetto radiale e uniforme guidato dai ministeri della capitale. La disseminazione dello stato sulla superficie territoriale attraverso la costruzione della rete tecnico-burocratica polifunzionale diretta dal ministero dell’Interno e coordinata all’altezza delle successive partizioni amministrative dagli intendenti, dai sottointendenti, dai sindaci, comportò in altre parole il contestuale disseccamento della variopinta flora di funzionari e di istituzioni feudali sino lì investite delle funzioni giurisdizionali. Liquidare la feudalità significativa, dunque, costruire lo stato e la sua amministrazione.
Prima della legge del 1806 i diritti feudali sulle persone si mantenevano apertamente in alcuni feudi, ed in altri  erano stati mutati a pagamento: parecchie angarie o per angarie, come  il lavoro  di contadini nelle terre baronali, l’officio di corriere, altri servigi domestici, duravano in molte comunità. I diritti sulle cose erano esorbitanti: le terre, le industrie, i boschi, i fiumi, le acque per fino le piovane, ogni prodotto, ogni entrata, gravate di taglie o prestazioni.
Questo largo residui di feudalità distruggendosi per la legge del 1806 ritornò intera la giurisdizione alla sovranità, e ne fu dichiarata inseparabile, tutte le gravezze, tutte le proibizioni feudali furono revocate; reso libero l’uso dei fiumi, disciolta la mescolanza della proprietà, le servitù abolite, la nobiltà conservata né titoli, distrutta né privilegi, surrogati i nomi al potere.
Ma naturalmente la legge eversiva della feudalità, se valeva a fissare le nuove regole dell’esercizio giurisdizionale, e a introdurre rapporti interpersonali meramente privatistici in luogo di quelli preesistenti, liberando le persone dalle servitù residue, non per questo poteva quasi con un colpo di bacchetta magica risolvere tutti i problemi derivanti dallo scioglimento del feudo come giurisdizione e dalla trasformazione delle terre ex feudali in proprietà private. Infatti esse non caddero al primo colpo.

Questione feudale e amministrazione. Di per sé la legge emanata da Giuseppe Bonaparte mirava infatti essenzialmente a privatizzare le terre (qui la sua pars destruens, tutta tesa a eliminare ogni spessore giurisdizionale inerente la proprietà fondiaria), non a incamerare i feudi o a promuoverne il passaggio di proprietà, a colpire insomma il baronaggio in quanto soggetto economico-sociale. A beneficio di quest’ultimo erano anche previste compensazioni e indennizzi in moneta per la perdita dei proventi già derivanti dall’esercizio dei diritti feudali legittimamente costituiti. I baroni furono privati innanzitutto della giurisdizione, dei diritti proibitivi, di alcune prerogative fiscali. Ottennero in libera proprietà quei terreni del feudo che avevano goduto senza contestazione e amministrato in maniera esclusiva.
Del demanio del feudi, sul quale i cittadini esercitavano gli usi civici, ricevettero da un quarto a tre quarti, mentre la patre restante era assegnata ai comuni perché la distribuissero in quote ai cittadini più poveri, come compenso degli aboliti usi civici. Inoltre gli ex feudatari continuarono a riscuotere decime e censi, quando fossero corrispettivo di concessioni reali, ma tutte le prestazioni divennero redimibili, e quando fossero giudicate arbitrarie o esorbitanti, furono ridotte o estinte. Con il riscatto dei censi, in primo luogo, e in minore misura attraverso le quotizzazioni demaniali, fu creata e consolidata una piccola e media proprietà contadina interamente libera o facilmente riscattabile.
La legge del 1806 si presentava in relazione alle modalità di ripartizione della proprietà privata derivante dall’eclissi dello spessore giurisdizionale del feudo, come un dispositivo aperto, a determinare i cui esiti avrebbero provveduto dal 1806 in avanti la risoluzione del contenzioso tra i titolari dei beni ex feudali (i baroni, la chiesa, ma in parte anche lo stato, talvolta calato nei panni abitualmente rivestiti dai due corpi privilegiati) e le comunità già infeudate e ora trasformate nella sintetica cellula elementare della nuova cittadinanza statale.
Troppo generiche e troppo facilmente impugnabili suonavano le prescrizioni della legge antifeudale, il cui punto debole era l’insufficiente delucidazione prevcentiva della distinzione tra diritti feudali personali (da ritenere aboliti) e diritti reali (da conservare in forza delle norme del diritto privato).
Contro le prevedibili lentezze originate dalla chiamata in causa della magistratura ordinaria, la soluzione escogitata dal ministro dell’interno che considerava l’efficace applicazione della legge eversiva della feudalità compito principale del suo ministero, fu quella di rafforzare le prerogative della Commissione feusdale, una magistratura straordinaria le cui procedure, in realtà, rispecchiavano la logica verticale tipica dell’esecutivo piuttosto che i modi dibattimentali del giudiziario. La sollecitò, dunque, affinché giudicasse colla maggiore celerità le controversie secolari; facesse eseguire la legge abolitiva della feudalità e mettesse i baroni tra i limiti dei proprietari.

La logica dell’esecutivo. L’attribuzione di forti poteri decisionali alla Commissione feudale, le cui sentenze erano inappellabili, comportò una svolta percepibile nell’accelerazione del programma di costruzione dello stato nuovo apertosi nel 1806. stavano dunque dall’una parte gli interessi di tutti i baroni e del re che per alcuni privati domini aveva le qualità baronali e del fisco regio e della chiesa: stavano per l’altra parte i cittadini pur vassalli e tuttavia soggetti.
L’atmosfera quasi belligerante nella quale concretamente si spese, anche a prescindere dalla pur già di per sé gigantesca questione dell’applicazione della legge feudale, l’attività quotidiana dell’amministrazione franco-napoletana, specialmente sotto il regno di Gioacchino Murat. Certo, come nel regno d’Italia milanese, anche nel Mezzogiorno continentale la rete delle istituzioni, con il suo spazio di iniziativa per i funzionari e con quello di contenimento per i notabili, chiamati a integrare i primi tanto in relazione all’esercizio della giustizia amministrativa, quanto in occasione della rituale convocazione annuale dei consigli distrettuali e provinciali, disegnava un tracciato lineare e continuo, nel quale si potevano agevolmente intravedere le modalità di un progetto di stabile controllo del territorio. Ma, e qui va colto uno scarto rilevante rispetto alla coeva esperienza del regno d’Italia, alla coerente realizzazione pratica di quel progetto parevano poi opporsi con forza tanto le strutture sedimentate della società, la questione feudale, con le sue vischiosità appena illustrate, ne costituiva forse l’esempio più palmare, quanto la natura.

Spazi e temi dell’amministrazione. Irto di montagne che ne frammentavano gli spazi in insiemi impossibilitati a porsi celermente in comunicazione l’uno con l’altro, il disgregato territorio del Mezzogiorno si offriva alla presa del progetto amministrativo in modo assai più sfuggente di quanto non facesse la vasta pianura solcata dal Po. Tra Milano, Venezia e Bologna multiple e agevoli vie di comunicazione, naturali o artificiali che fossero, rendevano svelta la circolazione di ogni impulso e prevedibili i tempi del suo arrivo a destinazione. Le leggi, ammoniva l’articolo 1 del codice civile in vigore nel regno d’Italia, sono osservate in qualunque parte del Regno, dal momento in cui può esserne conosciuta la promulgazione. Il che significava un giorno dopo quello della promulgazione nel dipartimento in cui risiederà il Governo; ed in ciascuno degli altri dipartimenti dopo lo stesso termine, coll’aggiunta di altrettanti giorni, quante decine di miriametri (circa 60 miglia comuni) sarà distante il capoluogo di ciascheduno dipartimento, dalla città dove sarà stata fatta la promulgazione.
E una tavoletta in appendice provvedeva a fornire agli abitanti gli elementi per tradurre in numeri questa indicazione di massima., l’allargamento del territorio del regno, negli anni successivi, tanto ad est quanto a sud est, fino a includere Venezia e Ancona, avrebbe certamente imposto un aggiornamento a questi valori, ritardando un poco i tempi massimi di presunzione di conoscenza, e quindi di valenza delle leggi nazionali nei territori progressivamente periferici. Ma quello dell’amministrazione italica sarebbe comunque rimasto un tempo straordinariamente celere rispetto a quello imposto dalla geografia meridionale e dal sistema di comunicazioni di terra e d’acqua ad essa allora corrispondente.

Amministrazione contro società ribelle: il brigantaggio. Il medesimo ragionamento sviluppato a proposito dei tempi di entrata in vigore delle leggi trova riscontro in relazione alle dinamiche dell’azione amministrativa. Napoli restava fatalmente una capitale lontana per gran parte del Mezzogiorno continentale e le strutture amministrative che da essa si irradiavano, così come gli snodi periferici degli apparati, altrettanto fatalmente tendevano a disperdere la propria forza propulsiva nel loro faticoso e lento addentrarsi in superfici ostili. La natura del Mezzogiorno riproponeva insomma incessantemente quei localismi strutturali che lo stato amministrativo era chiamato a smussare. È certamente anche alla luce di questo contesto che va inquadrata la spesso efficace resistenza opposta all’affermazione della legalità e all’attività amministrativa da un fenomeno come il brigantaggio, in parte alimentato dai Borboni, ma per altri versi fortemente radicato nella società e nella geografia del Mezzogiorno, anche a prescindere dalla sua contingente coloritura politica. I funzionari periferici del regno di Giuseppe Bonaparte e poi di Murat si trovarono in tal senso non di rado costretti a sviluppare un’attitudine, per così dire, paramilitare.
Nel luglio 1806, ad appena pochi mesi dall’avvio dell’esperienza francese nel regno, l’intera Calabria in pochi giorni cadde nelle mani dei briganti. In capo a settembre la rivolta calabrese venne sì circoscritta e i funzionari del governo furono in grado di re insediarsi, ma lo stato di illegalità restò una costante. Mentre si chiudeva l’insurrezione calabrese, a settembre persino nella provincia di Terra di Lavoro, quella contigua a Napoli, il potere costituito si vedeva messo in crisi dal tentativo di Fra Diavolo (catturato e giustiziato poi a novembre), che, dopo aver sorpreso la guarigione francese ad Atri, cercò di congiungersi con i ribelli abruzzesi.
Nell’estate 1809 in virtù di un’azione combinata tra anglo-borbonici e briganti, in Calabria e in Basilicata il governo venne di nuovo messo in scacco e non furono pochi i comuni, soprattutto in Calabria e in Basilicata, che issarono la bandiera borbonica, mentre per quindici giorni veniva occupata Reggio.
Il brigantaggio tese comunque a radicarsi come tratto endemico del regno meridionale, che di fatto sino alla caduta di Murat non si trovò mai nella condizione di fruire di una situazione stabilmente pacificata. Di questo perdurante stato di eccezione, tanto usuale da configurarsi come la regola, rappresentò un quasi ovvio riverbero l’attività continuativa di commissioni e tribunali militari straordinari incaricati di procedere al giudizio sommario dei briganti catturati. Si composero 4 nuovi tribunali e si dissero straordinari perché restavano cassi alla promulgazione dei codici. In ognuno, otto giudici (cinque civili, tre militari) giudicavano inappellabilmente i delitti di stato, o contro la pubblica sicurezza.
Ciò comportava, in buona sostanza, oltre alla messa in mostra del sentimento di precarietà con il quale il governo percepiva se stesso, la virtuale smentita delle regole garantiste dello stato di diritto (del complesso normativo dei codici, immaginato evidentemente a misura di una condizione di normalità) nel momento stesso in cui lo si proclamava come conquista e titolo di vanto del nuovo regno.

I diritti zoppi dello stato d’eccezione. Le corti giudicanti straordinarie fecero la loro comparsa sul territorio sostanzialmente in coincidenza con l’entrata in vigore del nuovo sistema giudiziario, articolato per giudicature di pace a livello locale, tribunali di prima istanza civili e penali in ogni provincia, quattro tribunali d’appello in altrettante localidà del regno e, al vertice della piramide, la Corte di cassazione nella capitale; una concatenazione gerarchica tra le varie istanze giudiziarie che ricalcava quella delineata per gli uffici dell’amministrazione esecutiva, e che era dunque tesa a colmare, come questa, quel vuoto tra località e capitale che s’era configurato come fatto caratteristico dell’antico regime, fornendo largo alimento agli arcani ed oscuri maneggi dei forensi.
Il nuovo sistema rappresentava la garanzia di una giustizia equilibrata e finalmente schierata dalla parte della cittadinanza, oltre che alleggerita dalle incombenze amministrative che ne avevano assorbito parte delle attività. La legge ora si mette a disposizione del popolo, porgendo alla cittadinanza i benefici dello stato di diritto, anche se spesso si profilava ancora l’autoritarismo.

Monarchia amministrativa o monarchia militare? La ricorrente tentazione a far uso di strumenti francamente imperativi e a disfarsi del tutto della mediazione offerta dalla giurisdizione ordinaria stava a evidenziare la difficoltà che il governo di Napoli conobbe in misura senza alcun dubbio assai più acuta rispetto a quello di Milano, a restare davvero aderente al disegno nel quale si dispiegava la teorica configurazione dell’equilibrio napoleonico tra i vari poteri dello stato. Non solo il giudiziario veniva relegato ad un riolo decisamente subalterno, ma lo stesso esecutivo a causa della situazione ambientale nella quale era costretto ad operare, tendeva a smarrire qualche tratto della propria specificità e a confondersi con quel potere militare col quale esso agiva spesso quasi in simbiosi e dal quale, del resto, dipendeva strettamente la sua stessa possibilità di realizzare un insediamento stabile all’interno di un territorio che latenze sociali e geografiche rendevano talvolta impermeabile al dispiegarsi di una continuativa irradiazione amministrativa.
Quella prima di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat fu non tanto o non solo una monarchia amministrativa, ma anche e forse soprattutto una monarchia militare, che non sempre poté permettersi di individuare nei propri cittadini essenzialmente degli amministrati e che in molti dei territori della propria superficie dovette invece paventare in essi i potenziali militi di un esercito nemico. La repressione del brigantaggio si svolse in un clima di atrocità diffusa, e delle stragi a rimanere vittime furono briganti e popolazione proletaria.

Capitolo 3
La sofferenza del legislativo (1802-1815)

Senato e Consiglio di stato del Regno italico. I poteri erano suddivisi in un giudiziario debole, un esecutivo forte e di sembianze militari, dotato di efficacia diseguale nei due regni, quello italico e quello di Napoli. Il legislativo era relegato ad una funzione ornamentale, tuttavia mai rinnegato in quanto tale.
Nel regno d’Italia toccò al Senato, istituito nel 1807 e composto, oltre che dai principi della famiglia reale e dai grandi ufficiali del regno, da una schiera di notabili selezionati dal sovrano sulla base di liste redatte dai collegi elettorali, assolvere una serie di funzioni consultive e di controllo potenzialmente tutt’altro che irrilevanti. Tra esse l’esame dei progetti legislativi e statutari dei trattati internazionali, la delibera sull’accrescimento delle imposte, la registrazione delle leggi, statuti costituzionali e titoli onorifici, il controllo sui rendiconti finanziari dei dicasteri, il giudizio sulla incostituzionalità degli atti dei collegi elettorali, sugli abusi della giurisdizione ecclesiastica e sulle prevaricazioni dei giudici, la rappresentazione all’imperatore dei bisogni e delle richieste della nazione. Le iniziative erano da vagliare con un voto consultivo, alla stregua di una corte giudicante, le cui sentenze valevano come mere indicazioni. Quasi sempre, tuttavia, si trattava di iniziative altrui, spesso dell’esecutivo, un corpo che manipolava, dunque, il legislativo, ma non aveva il potere di fare le leggi.
Meno generiche erano le competenze del Consiglio di Stato, che era tuttavia un organo costituito con nomine discrezionali dall’alto e che, dunque, non riproponeva neppure quella parvenza di rappresentatività sociale che il Senato derivava invece alla designazione da parte dei collegi elettorali della rosa da cui il sovrano selezionava parte dei suoi membri. Suddiviso in varie sezioni, oltre che della giustizia amministrativa in suprema istanza, sulla cui funzione quasi vicaria o compensativa, per i singoli, dell’eclissi della sovranità popolare patita in età napoleonica dalla collettività nel suo insieme abbiamo speso già qualche parola, si occupava di interpretazioni degli statuti costituzionali, di trattati di pace e di commercio, di nomine di grandi ufficiali, di esame dei progetti di legge.


Napoli: un Consiglio di stato “speciale”. Diversamente dal Senato, istituzione attivata solo nel Regno italico, il Consiglio di stato esisteva tanto a Milano quanto a Napoli, dove quest’organo riuscì, grazie alla rilevanza sociale e culturale dei suoi membri, ad assumere surrettiziamente funzioni pseudo-legislative, piuttosto che limitarsi all’esame ininfluente o quasi della legislazione prodotta dall’esecutivo o all’esercizio della suprema giurisdizione contenziosa. Era composto da 36 consiglieri, un segretario, otto relatori, un numero indefinito di auditori, un vicepresidente, un presidente, il re. Su ogni legge dava parere segreto. Il re decideva i membri, tra i più meritevoli. Il voto era segreto, teoricamente. I ministri del Consiglio lamentarono non solo l’eccessiva indipendenza, ma addirittura la vocazione a esercitare un’opposizione vera e propria alle iniziative del governo. Il Consiglio di stato di Napoli finiva per qualificarsi come un parlamento quasi ideale, sebbene non elettivo, specie agli occhi di chi a un protagonismo popolare suscettibile di tradursi nella controrivoluzione, preferiva il perseguimento dei propri ideali egualitari attraverso lo strumento di una forte azione di governo. Anche se il Consiglio non era elettivo aveva una sua rilevanza per il fermento delle discussioni di intellettuali che vi avvenivano all’interno, che non esitavano a schierarsi contro il governo.
Quando nel 1808 fu chiamato a regnare sulla Spagna, Giuseppe Bonaparte, lasciatosi alle spalle Napoli da un mese, emanò uno statuto per il regno che si accingeva a consegnare a Murat.

Parlamenti. L’ottavo capo di quella carta, intitolato “del Parlamento” delineava la struttura di un corpo di cento membri, diviso in cinque sedili: quello del clero, quello della nobiltà, quello dei possidenti, quello dei dotti, quello dei commercianti. L’80% dei parlamentari sarebbe stato insediato direttamente dal re, il 20% restante (in particolare l’intero settore della possidenza) l’avrebbero invece segnalato i colleghi elettorali componendo una rosa di nomi più lunga, che il governo avrebbe poi discrezionalmente scremato. Mentre per gli ecclesiastici, nobili e dotti il seggio parlamentare era inteso come vitalizio, possidenti e commercianti erano destinati a mutare a ogni sessione. Il re avrebbe convocato il parlamento ogni tre anni, decidendo a piacimento la durata di ciascuna sessione. Non ci si trovava di fronte ad assemblee simili a quelle che esprimevano la sovranità popolare in Francia negli anni ’90 o in Italia nel triennio repubblicano. Il parlamento disegnato a Baiona era una riproposizione dei modelli di rappresentanza territoriale di antico regime, visto che esso era chiamato a trattare delle sole materie date ad esame dagli oratori di governo e non poteva nulla da sé proporre. Era privo della facoltà di iniziativa legislativa e essendo le sue sedute segrete, voti e deliberazioni che ne fossero scaturiti non avrebbero potuto essere resi pubblici. Il testo di Baiona non faceva motto di popolo, sovranità, libertà civile, e sicurezza personale. Questa costituzione, incerta commistione tra le forme del costituzionalismo antico e qualche attuata eco dei contenuti di quello moderno, non entrò mai in vigore, e dunque all’altezza della capitale la sola parvenza di una potenzialità legislativa non direttamente succube dall’esecutivo restò confinata nell’ambito del Consiglio di stato. La prospettiva era quella di conciliare il sogno della costituzione del periodo giacobino-democratico di fine ‘700 con l’emergenza dell’amministrazione che si era imposta tra il 1806 e il 1814, quando Murat era impegnato in quella guerra per l’indipendenza d’Italia nella quale, sciolti i legami con Napoleone, si ritrovò solo contro le potenze che stavano organizzando un nuovo ordine politico sulla penisola.
Le caratteristiche fondamentali della costituzione di Murat (30 marzo) erano: due camere, consiglio dei ministri, Consiglio di stato, le leggi proposte dal re, esaminate dalle camere, le magistrature indipendenti, le amministrazioni dello stato certe per leggi, le amministrazioni provinciali e comunali rette da magistrature delle provincie e delle comunità, la stampa libera, le persone, le proprietà sicure, le tante altre libertà e guarentigie usate in quelle carte. Il 12 ottobre Murat venne giustiziato, anche se il regno lo perse già in primavera, quando i Borboni avevano ripreso la porzione continentale con l’aiuto inglese, da cui erano stati scacciati nel 1806. La costituzione murattiana, dunque, rimase su carta, anche se in essa traspariva l’accoglimento del bisogno della popolazione di partecipare al potere pubblico. Si voleva conciliare libertà e autorità, legislativo e esecutivo, all’interno di un ordine giuridico scevro di qualsiasi ipoteca vero-cetuale e tuttavia orientato nella direzione del garantismo a tutto tondo, in forza dell’attivazione di meccanismi di rappresentanza moderni. Tale tentativo, inoltre, rispondeva ad una doppia sfida: quella della Costituzione di Cadice in Spagna, controllata dagli insorgenti antifrancesi nel 1812, e quella che i Borboni erano stati costretti dagli inglesi a lanciare, sempre nel 1812, dal loro provvisorio esilio siciliano, rassegnati ad emanarla per ammansire l’insofferenza dell’autonomismo insulare nei loro confronti.

La costituzione siciliana. La costituzione borbonico-siciliana del 1812-13 scaturiva da un disegno politico che il governo inglese veniva affiancando alle operazioni militari degli ultimi anni della guerra antinapoleonica. Si trattava di garantire regimi costituzionali al posto delle monarchie amministrative imposte da Napoleone, come successore dei governi dinastici rimossi. Non era del tutto il caso della Sicilia, dove sebbene la corte di Ferdinando fosse presente e attivo un partito di funzionari suggestionati dall’amministrazione napoleonica, il costituzionalismo antico, emblematizzato dalla presenza di un parlamento tradizionale, nel quale si rispecchiava la perdurante centralità del feudo e dei suoi istituti giuridici, non era stato sostanzialmente scalfito. Qui lo scacco della monarchia amministrativa si manifestò come una sorta di mossa preventiva, tesa ad evitare che essa venisse imposta dal ministro Medici, come pareva egli fosse intenzionato a fare dopo un lungo braccio di ferro che aveva visto nel 1810 parlamento e corte contrapporsi su questioni fiscali e che aveva conosciuto un ulteriore sviluppo l’anno dopo con l’arresto e la deportazione di alcuni baroni siciliani particolarmente attivi nell’insubordinazione delle iniziative del governo.
La costituzione siciliana, nata all’ombra del ministro inglese Bentinck, nella provvisoria evanescenza di re Ferdinando, che ne fece garante il figlio Francesco, nominandolo generale del regno, riprendeva larghi tratti del modello vigente in Gran Bretagna: due camere, quella ereditaria dei pari, formata dagli ex componenti i bracci baronale ed ecclesiastico del vecchio parlamento siciliano, e quella dei comuni, la cui composizione derivava invece da elezioni censita rie, riunite in un parlamento titolare del potere legislativo, da convocarsi da parte del re almeno una volta l’anno. Un esecutivo designato dalla corona e nei confronti di questa responsabile, con la riserva che il parlamento avesse sempre il diritto di chiedere ragione di qualunque atto del potere esecutivo stesso, nonché di sottoporre a processo i ministri per azioni ritenute contrarie agli interessi della nazione. L’ulteriore facoltà accordata, però, al sovrano di respingere, quando necessario, i testi approvai dalle due camere senza potersi ingerire nella elaborazione di questi; un giudiziario, infine, separato dal legislativo e dall’esecutivo, ma sottoposto al giudizio del parlamento per eventuali abusi di potere denunciati dai cittadini. La regina Maria trovava tutto ciò un tentativo degli inglesi di diminuire il potere della monarchia.
La nuova Costituzione, però, sembrava anche schierarsi contro tutte quelle classi che avevano fruito dei privilegi del costituzionalismo antico, come baroni ed ecclesiastici, che si vedevano consegnata la Camera dei pari, ma veniva anche decretata l’abolizione del feudalesimo, come avvenne nella parte continentale del regno, ad opera di Giuseppe Bonaparte e poi di Murat, anche se in realtà i feudatari continuarono a esercitare i loro privilegi sulle terre.
Per formare la Camera dei Comuni vennero indette, per due volte, le elezioni, con vittoria dei democratici, inclini al costituzionalismo francese, che cozzavano con i meccanismi cetuali della Camera dei pari, decretando un’ambiguità tra costituzionalismo antico e moderno, visto che non c’era stato lo scioglimento dei ceti privilegiati, come avvenne nei due regni dell’Italia napoleonica, e la loro conversione in soggetti di diritto privato.

Un bilancio. Ricostruendo le vicende italiane del ventennio francese, in particolare Milano e Napoli, si è osservato prima il diffondersi, a fine ‘700, di trasformazioni dell’ordine antico, che si sostanziava nei temi della partecipazione della cittadinanza al potere e della sovranità popolare, fondendo insieme la libertà degli antichi con quella dei moderni, ossia gli spazi della democrazia diretta con quelli di impronta liberale. In età napoleonica, al tema della partecipazione subentra quello della sua organizzazione dall’alto, attraverso l’ascesa dell’amministrazione di stato dalle caratteristiche eversive, rispetto agli assetti politico-istituzionali, alle consuetudini collettive e agli umori della vecchia società, comunque contraddistinta da giurisdizioni social-corporate rispetto alla giurisdizione centrale, di natura spesso mista, contesa tra la discrezionalità sovrana e l’autoreferenziale regolarità burocratica.
I tratti salienti del nuovo stato sorto a Milano dopo l’eclissi del repubblicanesimo prima cisalpino, poi italiano, e a Napoli dopo la cacciata in Sicilia dei Borboni nel 1806 era quello di “monarchia amministrativa”. Se infatti la vecchia monarchia aveva una dignità, la nuova non doveva essere che magistratura.
Antonio Sabatto, presidente della Corte dei Conti del Regno Italico, dopo un passato giacobino, aveva definito la Milano napoleonica un governo al tempo stesso democratico e monarchico, in cui ci cittadini godono della stessa libertà ed uguaglianza di diritti in faccia alla legge. Una monarchia che era stata capace di sciogliersi dalla ritualità aristocratizzante caratteristica dell’antico regime, per livellare tutti gli uomini e aprire la stessa carriera ascendente ai più meritevoli.
È pur vero che l’espansione dell’amministrazione di stato si era svolta in base a un processo violento, quasi militare, sorreggendosi facendo della leva fiscale un uso assolutamente inedito per intensità, durata, pervicacia. Ora le tasse le pagavano tutti ma le persone su cui prima gravavano di più non ne traevano beneficio. C’era malcontento negli strati sociali subalterni, e nell’aristocrazia impoverita dei suoi privilegi. C’era la retinenza alla leva, la propensione a sottrarsi all’anagrafe, l’illegalità e il banditismo, la fiducia riposta nel clero nelle loro attività di assistenza e carità. Tutto ciò era espressione di un forte sentimento di malessere.

Amministrazione e nazione. Un manipolo consistente di italiani nei primi dell’’800 aveva creduto con determinazione nella bontà dello stato alla napoleonica, ma ne aveva tratto lo stimolo per immaginare uno scenario che tendeva a travalicare il mero dato politico-amministrativo per distendersi in una progettualità politica più ampia.
Pur divisa in tre porzioni distinte (i dipartimenti annessi all’Empire, il regno d’Italia, il regno di Napoli), la parte continentale della penisola era stata governata al momento dell’apogeo della potenza francese da leggi e istituzioni sostanzialmente comuni, quelle elaborate da Napoleone per l’impero ed esportate oltralpe. Erano due i modi di pensare: da una parte c’erano i nostalgici dell’antico regime, che nel 1814 rialzavano ovunque la testa, attendendosi dalla caduta di Bonaparte non solo il ripristino della carta geografica della penisola anteriore al 1796, ma anche, e soprattutto, lo smantellamento dello stato amministrativo e la riesumazione delle antiche giurisdizioni social-corporate. Il partito delle istituzioni napoleoniche, viceversa, nutriva il proprio immaginario di altri sogni. Per chi ne faceva parte quell’uniformità di ordinamenti costituiva tanto il condensato di un progetto politico affidato al braccio solo apparentemente tecnico dell’amministrazione, quanto il presupposto obbligante per lo sviluppo di un disegno di respiro nazionale, che si presentava inconciliabile con la riproposizione dei vecchi ordinamenti cetual-particolaristici. Si trattava di figure che, dopo aver sognato da giacobini a fine Settecento la nazione come fisiologica incarnazione della sovranità popolare, vedevano ora in essa il naturale spazio di irradiazione dell’amministrazione in cui avevano militato durante gli anni del consolidamento napoleonico nel regno d’Italia e in quello di Napoli.
Nel 1814, appena caduto il Regno italico, la forza del sistema, ossia di un’amministrazione, era la valutazione dei particolarismi territoriali che i regimi napoleonici avevano tentato di riproporre, tenendo gli italiani divisi, e gli austriaci che si apprestavano ad intervenire non avrebbero dovuto fare lo stesso errore.

I diritti dell’esecutivo. I pieni diritti dell’esecutivo: quella conquista recente, vanamente perseguita dalle politiche riformatrici del tardo ‘700 e realizzata da Napoleone, non doveva andare dispersa, e non era auspicabile che venisse disarticolato il nuovo sistema territoriale che aveva trasformato le piccole patrie dell’antico regime in uno stato unitario, di cui i governanti andavano fieri. Il popolo era una cosa sola: stesse armi, stesse abitudini, stessi codici e finanza.
Ciò che il governo austriaco non avrebbe dovuto fare, ora, sarebbe stato quello di dividere nuovamente questi territori, che condensati in quel modo esprimevano energia e consenso nei confronti di un pubblico potere dinamico e incisivo. Il Congresso di Vienna minacciava di far resuscitare, invece, i particolarismi territoriali.
La parte più dinamica della società italiana si riconosceva volentieri nell’egualitarismo dei codici, nella certezza della proprietà, nel principio della ricompensa al merito, nell’effervescenza sociale indotta dalla cancellazione della società per ordini e dei suoi confini geografici, oltre che mentali e istituzionali.
Metternich aveva scelto delle persone sentinelle per capire come funzionava lo stato italiano, nei settori più vari della società post-Napoleone. Nelle sue orecchie i suoi informatori trovavano la disposizione ad apprendere i segreti del corretto funzionamento delle moderne istituzioni amministrative napoleoniche, che viceversa i primi passi della restaurazione stavano in molte parti d’Italia mettendo radicalmente in forse.

Capitolo 4
I tempi lunghi delle monarchie amministrative (1815-1848)

L’Italia della restaurazione. Nel 1815 l’Italia semplificata territorialmente e istituzionalmente, caratteristica dell’epoca napoleonica, era tornata a sfrangiarsi. Praticamente si considerava il ventennio 1796-1815 da cancellare, ripristinando i sistemi precedenti. Quel principio, però, venne fatto valere solo in alcuni casi che andavano palesemente a vantaggio della monarchia. Vennero spazzati via i regimi oligarchico-repubblicani (come Venezia, Genova, Lucca) e la forma monarchica tornò un po’ ovunque (tranne nella repubblica di San Marino, enclave interno della Romagna pontificia), a volte di stampo settecentesco, altre rivisitate.
Erano tornati sul trono i Savoia e i Borboni, in epoca napoleonica confinati in Sardegna e in Sicilia. I Savoia avevano aggiunto ai loro domini la Liguria, mentre i secondi erano tornati in possesso di tutti i territori che avevano costituito prima del 1806 i regno di Napoli.
Così, grazie al recupero dei dipartimenti imperiali (Umbria e Lazio) quanto di quelli italici (Marche, Romagna, Emilia), lo Stato pontificio risultava ora di nuovo compatto sotto lo scettro papale.
Risorgevano i ducati padani: Parma e Piacenza, che il congresso di Vienna consegnò a Maria Luigia d’Asburgo, figlia dell’imperatore d’Austria Francesco I e moglie di Napoleone (il principio di legittimità qui si incrina, perché sarebbe stato dei Borboni).
Modena e Reggio andarono sotto il dominio di Francesco IV d’Austria e dal 1829 vennero integrate con i territori toscani di Massa e Carrara, che tra il 1814 e il 1829 erano stati di Maria Beatrice d’Este, madre di Francesco IV e vedova dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo.
Il granducato di Toscana andava a Ferdinando III d’Asburgo Lorena e nel 1847 si sarebbe arricchito del ducato di Lucca, sin lì autonomo prima sotto lo scettro di Maria Luisa di Borbone, poi sotto quello di suo figlio Carlo Ludovico.
Oltre ciò, la presenza degli Asburgo si sentiva in tutta la parte centro-orientale del nord della penisola.
L’ex Lombardia austriaca, unita ai territori a est del Mincio, che a fine ‘700 avevano dato vita alla parte continentale della repubblica di San Marco, formava il regno Lombardo-Veneto, soggetto direttamente a Vienna e affidato a un vicerè membro della famiglia reale.
Il Trentino risultava aggregato alla provincia asburgica del Tirolo, come porzione meridionale di questa. Trieste con la regione della Giulia, era parte di un’altra provincia asburgica, quella del Litorale.
L’egemonia degli Asburgo non si limitava solo al nuovo quadro politico territoriale italiano, ma in virtù degli accordi del Congresso di Vienna, l’Austria era considerata la garante dell’interno status quo della penisola e godette durante la restaurazione della prerogativa di mantenere propri contingenti militari anche in altri stati, esercitando una pesante e obbligante tutela. Fu palpabile prima del ’48 con i tentativi di rovesciamento dell’ordine, uno nel 1820 e l’aktro nel 1821, con i moti costituzionali delle Due Sicilie e del Piemonte, e nel 1831 con le insurrezioni di Modena, Reggio e delle Legazioni pontificie.
Quando Manzi, Mulazzani, Guicciardi inviavano tra il 1816 e il 1821 i loro rapporti informativi a Metternich si rivolgevano non solo al cancelliere, ma all’uomo che teneva il potere dell’intero impero austriaco.
Mancavano diversi tasselli all’ordine territoriale e al tempo stesso l’avvicinamento degli italiani, promosso dalla tripartizione napoleonica della penisola sotto leggi e istituzioni comuni, risultava vanificato e disperso nella nuova Italia delle dinastie, in omaggio al principio di legittimità monarchica.

La nozione di territorio: una parziale rinascita. Non ci si ritrovava solo di fronte ai vecchi confini territoriali, ma anche gli stessi italiani si allontanarono gli uni dagli altri, anche per la nuova differenza di ordinamenti, tra stato e stato. La distanza tra il modello statuale napoleonico e quello caratteristico degli stati restaurati, in cui riemergevano le logiche di antico regime improntate al riconoscimento di un particolarismo istituzionale territoriale. Nelle parti del regno di Sardegna che in precedenza avevano costituito la repubblica di Genova, l’assetto francese in campo civile, giudiziario e militare fu in parte mantenuto, mentre nel resto dei domiuni sabaudi veniva abolito. Ciasscuno dei distretti liguri fu inoltre dotato di un organo consiliare di rappresentanza, altrove inesistente, senza il cui beneplacido non era possibile registrare alcun decreto regio relativo a nuove tasse. Genova, infine, venne gratificata di alcuni privilegi municipali sconosciuti in qualsiasi altra città del regno.
Nell’isola di Sardegna, fino alla fine degli anni ’30, continuò a vigere il feudalesimo (sebbene in forma patrimoniale priva di risvolti giurisdizionali) di cui era stata confermata l’abolizione nelle porzioni continentali del dominio sabaudo. La legge di coscrizione militare non venne applicata e solo nel 1848 vennero introdotti gli stessi codici vigenti in Piemonte, Savoia e Liguria.
Nel regno delle Due Sicilie si assistette per la prima volta all’unificazione della componente continentale con quella isolana, quindi saldando i regno di Napoli con quello di Sicilia. Anche l’estensione alla Sicilia del sistema amministrativo vigente nelle provincie continentali, seppur con molte difficoltà che impedivano l’uniformazione del territorio. La procalamazione dell’unità del regno, avvenuta l’8 dicembre del 1816, fu seguita dalla legge 11 dicemnbre 1816 che separava la sfera di influenza di Napoli e Palermo, salvaguardava i diritti dei siciliani riservando loro la maggior parte delle cariche dell’isola e un quarto di quelle del regno, istituiva la luogotenenza di sicilia retta da un principe reale o altro eminente personaggio, coadiuvato da più direttori, posti a capo di ministeri o segreterie di stato locali, rimetteva l’amministrazione della giustizia alla magistratura siciliana e subordinava l’imposizione fiscale eccedente una determinata quota all’approvazione di organismi di rappresentanza.
Tra il 1818 e il 1819 avvenne l’istituzione della gran Corte dei conti di Palermo, l’abrogazione dell’ordinamento giudiziario locale e la sua sostituzione con quello napoletano, l’istituzione di una suddivisione circoscrizionale del territorio articolato per provincie con a capo un intendente, chiamate ancora, come da tradizione locale, valli. Abolizione del feudalesimo, uniformazione tra le due parti del regn, seppur con difficoltà. Se da un lato il nuovo disegno dell’articolazione amministrativa rimase monco per la tenace resistenza dei siciliani, la giustizia patrimoniale dei baroni rimase in vigore nell’isola fino al 1838, quando a Napoli ci fu un forte impulso teso a punire la Sicilia per i vari tentativi insurrezionali sviluppatisi in alcune sue città nell’anno precedente.
Come in Sardegna anche in Sicilia la coscrizione militare non venne introdotta e per formare i contingenti isolani dell’esercito borbonico si fece ricorso a volontari e carcerati. M
Nello Stato pontificio, invece, l’abolizione del servizio militare fu una delle prime misure prese dal papa a beneficio di tutti i suoi sudditi, tanto quelli ex imperiali quanto quelli ex italici. Ed era difficile immaginare un segnale di discontinuità più netto rispetto al passato recente. Nel segnale venne rafforzato dalla vigenza di ordinamenti giuridici e amministrativi diversi, nelle province rispettivamente dette di prima (Lazio e Umbria, già dipartimenti dell’Empire) o di seconda recupera (Marche, Romagna, Emilia, già appartenute al regno d’Italia). Anche in questo caso la differenza consisteva essenzialmente nelle modalità di rapporto con l’eredità napoleonica. Essa venne mantenuta nei territori di seconda recupera e contraddetta in quelli di prima, dove tornarono frammenti di giurisdizione feudale fino al 1848.
Se in età napoleonica, nel sistema tripartito, lo stato aveva giuridicamente e istituzionalmente reso omogenei gli spazi e le popolazioni che vi abitavano, nell’isola policentrica dei primi anni della restaurazione la nozione di territorio in linea di principio cessò di costituire un corollario di quella di stato e tornò a imporsi con tratti almeno formalmente autoreferenziali che riproponevano la tradizione storico-particolaristica di antico regime.
Sono pochi gli stati dell’Italia post-napoleonica che si sottraggono a questa constatazione preliminare. Il fatto che il Lombardo Veneto austriaco sia uno di questi costituisce un motivo in più per spiegare quell’ansia di conoscere i segreti dell’amministrazione alla francese di cui Metternich dette prova quando, tra il 1816 e il 1821 organizzò la sua personale rete informativa in Italia.

Lo sguardo su Vienna. Della volontà di conservare quanto possibile dell’eredità amministrativa napoleonica, come la pienezza dei diritti dell’esecutivo, alle alte sfere viennesi era stato parlato con calore. A esprimere le loro valutazioni non erano più gli informatori italiani, ma gli alti funzionari austriaci inviati a gestire la transizione dal regime cessato a quello nuovo, che a Vienna non si immaginava all’insegna di un mero ricalco del precario equilibrio tra governo e giurisdizioni cetuali cristallizzati dalla congiuntura tardo-settecentesca, ma in continuità con la linea di Giuseppe OO, prima che il fratello Leopoldo nei primi anni ’90 avviasse una precipitosa marcia indietro. Gli ammiratori austriaci dell’esecutivo alla francese non tardò a schierarsi in campo e ad esprimere l’auspicio, da un lato, che la forza degli apparati di governo nelle province italiane destinate a formare il regno Lombardo Veneto venisse intaccata il meno possibile, dall’altro che al mondo dei nostalgici dell’antico regime, soprattutto aristocratici che volevano ripristinati i loro privilegi, non si offrissero che soddisfazioni formali buone a illuderli ma non ad assecondarli.

Bonapartisti insospettati. Ma l’ammirazione per il modello franco napoleonico, per quel che riguardava l’efficienza amministrativa e l’uniformazione del territorio, si rivelò nel biennio 1814.15, durante il quale in ciascuno degli stati della penisola si procedette alla rifondazione dei pubblici apparati nella nuova cornisce monarchico legittimista, un sentimento molto diffuso al di là dei precedenti interpreti.
In Sicilia, tra il 1806 e il 1815, che aveva riparato i Borboni scappati da Napli, si era formato un partito formato da Luigi de’ Medici e Donato Tommasi, che osservavano l’operato di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, leggendo in esso l’inveramento dei vani sforzi tardo settecenteschi del governo regio di sottrarsi alle vischiosità della giurisdizione cetuale e togata. Entrambi erano illuministi, e premevano perché il ritorno dei Borboni non si traducesse in un ritorno all’antico regime. In breve, difendevano le conquiste del decennio: codice, sistema giudiziario e legislazione amministrativa.
Nello Stato pontificio erano riemersi particolarismi territoriali e cetuali dopo il ritorno a Roma del pontefice, evidenziandosi nelle provincie di prima e seconda recupera. Pio VIII però scriveva che l’unità e l’uniformità erano le basi di ogni politica istituzione, lasciando da parte differenze e difformità anteriori all’esperienza napoleonica.

Un desiderio di uniformità. L’aspirazione a un ordine uniforme, anche se legittimato da principi diversi da quelli napoleonici, mostrava solide radici agli esordi della restaurazione. Ovviamente molti sovrani non vedevano di buon occhio, ad esempio, l’accentramento del potere esecutivo, perché tendevano a difendere il potere monarchico. Dichiarato in tal senso il preventivo disconoscimento degli istituti della sovranità popolare e della cittadinanza politica dalla cui riconferma verbale la costruzione statuale napoleonica non aveva ritenuto di poter comunque prescindere, salvo vanificarne nei fatti l’effettualità, si trattava di incorporare all’interno della tradizionale raffigurazione dell’istituto monarchico la strumentazione istituzionale che i governi filofrancesi avevano messo a punto mutandone contestualmente il soggetto di titolarità, non più la nazione ma la corona, braccio terreno di investitura celeste. I sovrani ora erano muniti delle strutture operative idonee a imporre il loro potere a un popolo oramai composto non più da cittadini, ma da sudditi.
Si trattava, dunque, di reinnestare il nuovo corso monarchico sul filone dell’assolutismo prerivoluzionario e di contenere la riemersione delle giurisdizioni cetuali e territoriali che ne avevano allora inceppato il passo, adoperando a tal fine a beneficio strumentale del potere regio le armi che l’eversione rivoluzionario-napoleonica del vecchio ordine metteva a disposizione. Da un lato il monopolio statale del pubblico potere e l’irradiazione dell’amministrazione come amministrazione dello stato, dall’altro la codificazione, inconciliabile con un progetto che perseguiva l’obiettivo di un’alleanza tra trono e altare.
Se nel regno di Sardegna il periodo napoleonico venne spazzati via senza ripensamenti, in molti altri ci furono situazioni più contraddittorie e meno drastiche.

Gli esiti di un compromesso. Bisognava comunque mantenere l’abolizione del feudalesimo. C’erano dei territori come la Sardegna, per quel che riguardava i Savoia e la Sicilia per i Borboni, che ne erano rimasti immuni. Inoltre alcuni particolarismi territoriali avevano ripreso il regime, tornando all’antico. In Sardegna erano resuscitate le corporazioni d’arti e mestieri, organo tipico prerivoluzionario. Chi aveva sperato nelle autonomie cittadine regolate da statuti rimase deluso. Le vecchie immunità cittadine, come Venezia, Genova, Lucca, San Marino, piccole repubbliche aristocratiche più che stati monarchici, non ripresero forma. Tuttavia né il contenimento del feudalesimo, né il dissolvimento delle città patrizie furono artefici di una politica antinobiliare, che si scatenò sotto napoleone eliminando i titoli nobiliari, portati a cittadini. Nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e Murat i nobili avevano conservato il loro titolo e i nuovi nobili erano stati creati privilegiando gli alti funzionari dell’amministrazione e gli alti gradi dell’esercito. Anche nella Milano di Beauharnais, come nella Parigi di Napoleone e nei dipartimenti italiani annessi all’Empire, si era formata una nuova nobiltà, aperta anche alle antiche cariche nobiliari che ne avessero fatto richiesta, anche se riluttanti all’inquadramento nella “monarchia amministrativa”. La nobiltà dell’Italia napoleonica era contraddistinta da un inedito timbro sociale e da un’esiguità rispetto a quella degli antichi stati. Inoltre il titolo nobiliare non comportava più alcun privilegio di carattere giurisdizionale. Davanti alla legge si era tutti uguali.
Le case regnanti della restaurazione di orientarono verso una soluzione anfibia, ripristinando nel godimento dei titoli le famiglie della nobiltà prerivoluzionaria, consentendogli di scegliere tra la conferma dell’investitura antica o nuova, ma al tempo stesso confermarono nella condizione nobiliare gran parte dei neo nobilitati da Napoleone che non avessero titoli antichi da vantare. Si comportarono variamente nei confronti dei nobili ad personam, cavalieri e commendadori, che l’invenzione napoleonica dei nuovi ordini cavallereschi aveva generato.
Nel regno delle Due Sicilie i Borboni avevano istituito l’ordine cavalleresco di San Giorgio della Riunione nel 1818, assorbendo all’interno dei suoi ranghi coloro che avevano ricevuto negli anni precedenti l’onorificenza napoleonica delle Due Sicilie, optarono per il consolidamento della quasi nobiltà di cavalieri e commendadori. Nel Lombardo Veneto, invece, gli Asburgo trasformarono l’ordine italico della corona di ferro, che era stato ricco di membri a migliaia, nell’omonimo ordine austriaco, dotato di poco più di cento piazze, pochissime delle quali spettarono a ex cavalieri o ex commendadori napoleonici.

Nobile, che vuol dire? In capo al 1816, data che segnò la transizione tra sistema napoleonico e restaurazione, la vecchia nobiltà poteva esercitare nuovamente i propri titoli. Ma a che servivano? Nobile non significa più soggetto detentore di una giurisdizione feudale, né depositario di un’immunità, né persona legittimata a godere di un foro speciale diverso da quello del suddito comune. La nobiltà si risolveva in una mera dimensione onorifica e non si identificava più con l’esercizio di una capacità giurisdizionale alternativa o complementare a quella statale. Pur riesumando la nobiltà, rimaneva una continuità con l’ordine napoleonico. Le monarchie dell’antico regime erano nobiliari, mentre quelle post-napoleoniche erano amministrative, dove la nobiltà non aveva più lo stesso rilievo costituzionale di un tempo. In controtendenza, nel Lombardo Veneto e nello Stato pontificio, dove ai nobili gli venne riservato uno spazio a parte all’interno di alcuni organismi di rappresentanza. Nel complesso, nello specchio delle istituzioni, il ruolo vicario un tempo assolto dall’aristocrazia nell’esercizio del pubblico potere venne disconosciuto, nel senso che la giurisdizione centrale dello stato risultò ovunque egemone rispetto alle giurisdizioni territoriali.

Profili istituzionali della restaurazione italiana: regno di Sardegna e Lombardo-Veneto. Nel regno di Sardegna Vittorio Emanuele I già nel maggio del 1814 aveva esternato la propria intenzione di riportare tutto allo status quo anteriore all’esperienza francese. Nel 1816, nonostante il governo fosse sempre stato di tipo assolutista, si articolò in un sistema di ministeri centrali (Interni, Esteri, Guerra, di Sardegna, Finanze, Polizia), affiancati per la parte finanziaria da una tesoreria generale, i cui titolari si riunivano due volte a settimana nel consiglio di conferenza presieduto dal re. Dall’amministrazione centrale dello stato, così delineata, dipendevano i governatori (militari) e gli intendenti generali (civili) preposti alle cosiddette divisioni militari, sorta di macroprovincie a loro volta suddivise in provincie affidate a comandanti e intendenti. Al di sotto della provincia si davano due ulteriori micro ritagli amministrativi: i mandamenti, ambito di esercizio delle funzioni dei giudici di prima istanza, e i comuni, i componenti del cui consiglio venivano nominati dall’intendente e il cui sindaco, oltre che da quest’ultimo, era nominato anche dal re in persona, nel caso dei comuni maggiori.
Nel regno Lombardo-Veneto, i cui due governi (Milano e Venezia) erano coordinati da un viceré, esistevano due strutture esecutive parallele e uguali, rispettivamente per le provincie della Lombardia e del Veneto, su una e l’altra sponda del fiume Mincio. In ciascuna delle due capitali del regno si riuniva un consiglio di governo presieduto dal governatore. Dal 1829 ciascun governo si divise in Senato politico e un magistrato camerale, ma durante i primi tre lustri esso formò un consesso unico a Milano e a Venezia. Consiglio di governo e, dal 1829, le sue due sezioni distinte erano affiancate da una serie di direzioni centrali incaricate di vari compiti particolari (polizia, gestione delle acque, delle strade…) e si irradiavano sul territorio, nelle 17 provincie in cui il regno era diviso (9 in Lombardia, 8 in Veneto) per mezzo di uffici denominati delegazioni provinciali, affidati a un delegato provinciale, e intendenze provinciali, dirette da un intendente di finanza. All’interno delle provincie si ritagliava la trama dei distretti, retti da un funzionario denominato fino al 1819 cancelliere del censo e da quella data in avanti commissario distrettuale, dipendente per le materie politiche dal delegato provinciale e per quelle di polizia dalla direzione centrale di polizia. Ogni distretto comprendeva più comuni, ciascuno munito di organismi collegiali che assumevano denominazione diversa a seconda del rispettivo rilievo demografico, e la cui composizione rifletteva, in ragione di modalità variabili, i rapporti di forza all’interno della società locale, che in un’ampia fascia di comuni li designava direttamente.

I ducati padani e il granducato di Toscana. A Parma ci sono alcuni ministeri il cui numero da 2 aumentò a 4 nel 1851 (Interno, Finanze, Grazia, Giustizia e Buongoverno, Esteri), riuniti periodicamente dal sovrano nel consiglio intimo delle conferenze, affiancato da un Consiglio di stato di 11 membri le cui funzioni ricalcavano quelle dell’omonimo organo di età napoleonica. In dipendenza dagli organi centrali si collocavano poi due governi, uno a Parma e uno a Piacenza, retti da governatori che avevano a loro volta alle proprie dipendenze gerarchiche dei funzionari titolari delle macrounità amministrative che racchiudevano i comuni: ne furono introdotte 13 nel 1821, con il nome di distretti, poi ridotte ad appena tre nel 1831, con il nome di commesse rie. I comuni, a loro volta, erano dotati di un organo rappresentativo, il consiglio degli anziani, la cui composizione derivava dalla nomina governativa, effettuata a partire dalla lista dei maggiori contribuenti, compilata dal consiglio stesso all’atto del suo primo insediamento d’ufficio dall’alto, e di un organo esecutivo nominato dal sovrano sulla base di proposte formulate dal consiglio.
Nel contiguo ducato di Modena e Reggio ci si presenta un’amministrazione centrale affidata a 3 ministeri (4 dal 1831) e a un’intendenza generale dei beni camerali, cui si riconnettono, nel territorio, i governatori, i cui titolari (governatori) ricevono però in parte ordini direttamente dal granduca, quasi configurandosi come funzionari di una monarchia in cui la dimensione patrimonial-familiare fa aggio su quella statale in senso proprio, e in cui, dunque, la figura giuridica dello stato stenta a smarcarsi dalla struttura della dinastia sovrana e dalla propensione di questa a percepire il governo del territorio come governo della casa. All’interno di ciascun governatorato è compreso un certo numero di comuni, i cui organi istituzionali (consiglio e giunta) sono designati entrambi dal sovrano sulla base di liste di proprietari terrieri compilate dal primo consiglio insediato e poi dai consigli che ne raccolgono l’eredità, mutando parzialmente di volta in volta composizione.
Nella Firenze degli Asburgo Lorena quello che ci si schiude davanti è un panorama abbastanza eccentrico rispetto agli altri. Infatti, accanto alla figura del granduca, le istituzioni burocratiche centrali veramente nevralgiche sono due: quella della presidenza di buon governo (polizia) e quella della segreteria di stato, il cui titolare, il ministro segretario di stato, sovrintende alle segreterie degli Interni, delle Finanze, della Guerra e degli Esteri. I titolari delle segreterie degli Interni e delle Finanze, denominati direttori, formano insieme al ministro segretario di stato il consiglio del principe, supremo organo di raccordo di un governo che, a causa della modestia del proprio tasso di autonomia rispetto al sovrano e alla corte, è stato non a torto definito un “governo di famiglia”. E qui riemerge, dunque, una caratteristica che abbiamo osservato anche a Modena. Questo esecutivo toscano risulta tutt’altro che napoleonico, in quanto la commistione con il regime giudiziario è tipica dell’antico regime. Accanto ai ministri e ai direttori raccolti nel consiglio del principe incontriamo nei giudici che compongono la reale consulta civile e criminale, un organo che non ha funzioni giudiziarie, ma che interferisce nell’attività operativa delle segreterie, e che dispone inoltre della prerogativa di proporre leggi in relazione a materie riguardanti la pubblica amministrazione.
Governatori e commissari non sono gli omologhi di quei funzionari periferici, figli come i prefetti e i viceprefetti napoleonici del principio della divisione dei poteri, che abbiamo censito nei diversi stati. Sono bracci operativi locali tanto della struttura propriamente ministeriale e segretariale, quanto di quella giudiziaria che ha per vertice la reale consulta: sovrintendono all’amministrazione e alla giustizia al tempo stesso. Tuttavia essi si trovano davanti come interlocutori locali dei municipi depotenziati delle loro competenze, il cui organo esecutivo viene designato dal granduca (il gonfaloniere, il sindaco) e dagli uffici centrali (i priori, ossia i membri della giunta comunale).

Lo Stato pontificio e il regno delle Due Sicilie. Centralistico con provincie di prima e seconda recupera. Alla direzione del segretario di stato è sottoposta a Roma una serie di congregazioni, incaricate di provvedere salla capitale tanto all’amministrazione civile quanto a quella religiosa.
Le provincie in cui è diviso lo stato sono 17, chiamate delegazioni o legazioni, e a capo di ognuna c’è un delegato (o legato), che insieme ai due assessori e alla congregazione governativa, i cui membri sono a nomina pontificia, coordina e dirige i governatori, muniti di competenze miste amministrative e giudiziarie (commistione di funzioni, come in Toscana, che l’era napoleonica aveva cancellato) e posti a capo di uno dei governi in cui ogni delegazione (o legazione) è ripartita.
All’interno di ogni governo si materializza un numero variabile di comuni, retti da un consiglio nominato dal delegato (o dal legato) e poi soggetto a parziale rinnovo annuale attraverso un sistema di cooptazione da un gonfaloniere e da un corpo di anziani designati dalle autorità governative sulla base di terne presentate dal consiglio stesso.
Nella parte meridionale dello stato l’eredità napoleonica è più intensa. Donato Tommasi, primo ministro dell’Interno nel regno restaurato, insieme a Medici impose un disegno articolato in ministeri e segreterie (nel 1817 sono 7: Interni, Esteri, Grazia e Giustizia, Affari ecclesiastici, Finanze, Guerra e Marina, Polizia) che hanno inizialmente competenze solo sulla parte continentale del Mezzogiorno, mentre la Sicilia risulta diretta da un luogotenente generale, dal quale dipende un ottavo ministero, diviso in tanti ripartimenti quanti sono i dicasteri napoletani a cui corrisponde. Con l’aggiunta di altri elementi scelti dal re i ministri formano il Consiglio di stato ordinario, che non ha nulla a che fare con quello napoleonico. Mentre i membri di quest’ultimo erano notabili vecchi e nuovi estranei all’esercizio di cariche ministeriali, e dunque capaci di configurare il Consiglio come contrappeso all’esecutivo, quello che si raduna dopo il 1815 è un consiglio dei ministri allargato, in cui il sovrano dirige i lavori. L’eredità napoleonica è presa in parte dal supremo consiglio di cancelleria, che però ha funzioni consultive, e le contenziose sono attribuite alla Corte dei conti. I pareri sono subordinati al re e non sono deliberanti.
A Napoli i mutamenti istituzionali della restaurazione si sentono, mentre nell’amministrazione si ha un’impalcatura precedente. Le provincie sono rette da funzionari che continuano a chiamarsi intendenti, dipendenti dal ministero dell’interno, e i distretti da sottintendenti, di nomina regia entrambi. Al fianco dell’intendente, proprio come in era napoleonica, c’è un consiglio di intendenti, formato da notabili locali e incaricato dell’erogazione della giustizia amministrativa in prima istanza.
All’interno di ciascun distretto, controllato da intendenti e sottintendenti, si trovano i comuni suddivisi in classi (come in era napoleonica) in ragione demografica e patrimoniale. Essi sono amministrati da un consiglio (decurionato) nominato dal re o dagli intendenti sulla base di liste di eleggibili, soggetti dotati di requisiti di censo e capacità, la cui composizione è del consiglio stesso, sotto la supervisione dell’intendente e del sottintendente. Il consiglio propone la terna da cui il re o l’intendente selezioneranno sindaco e la giunta di due eletti, con competenze amministrative locali.
In Sicilia, formalmente unita a Napoli, c’è un raddoppio del sistema continentale. Esiste l’ottavo ministero a Palermo a cui fanno capo i ministeri e le segreterie di stato isolani. Per un’amministrazione analoga a quella del regno continentale bisognerà attendere il 1819, quando un decreto regio abroga parte degli ordinamenti local-feudali ancora esistenti e istituirà circoscrizioni rette da intendenti chiamate valli e non provincie. L’effetto delle intendenze non riuscirò a insediarsi compiutamente.

Il nuovo volto della giustizia. Un profilo di massima. L’amministrazione giudiziaria era stata separata dall’esecutivo dallo stato napoleonico, impedendo di interferire ulteriormente nei processi decisionali di quest’ultima e immaginando un’amministrazione contenziosa per l’esercito della giustizia nell’amministrazione, modellata in base al criterio gerarchico-verticale che caratterizzava la struttura dell’esecutivo. Oltre all’ambiguità e sovrapposizione tra giudiziario ed esecutivo riscontrate in Toscana e nello Stato pontificio, essa si avverte anche altrove, erodendo il modello francese e basandosi sul fatto che i magistrati si configurino come funzionari di stato titolari di una giurisdizione unica e sulla loro distribuzione sul territorio in forma di giudice monocratico (giudici di pace e giudici distrettuali) o collegiale (tribunali civili e penali a livello di provincia, tribunale d’appello a livello macroprovinciale, Corte di cassazione nella capitale).
Nel regno di Sardegna tornano a fiorire le giurisdizioni speciali e fino al 1822 i magistrati, privati di stipendio fisso, vengono retribuiti con le spotule corrisposte dalle parti. Nel 1847 si tornerà a un sistema di giustizia unica e gerarchizzata come il modello francese di qualche decennio prima.
Nel Lombardo-Veneto la giustizia è una sola, ma con l’attribuzione alla magistratura ordinaria delle funzioni di giustizia amministrativa, in epoca napoleonica affidate ai consigli di prefettura e al Consiglio di stato, tende a riproporsi quel sistema basato sull’interferenza tra funzioni distinte di cui immediatamente verranno denunziati dai funzionari dell’esecutivo gli esiti in termini di flessione nell’efficacia dell’operato dell’amministrazione.
In Toscana, benché ci sia lo schema napoleonico delle funzioni separate di esecutivo e giudiziario, bisognerà attendere gli anni ’40.
Nello Stato pontificio fino al cuore degli anni ’30, ma alcune giurisdizioni particolari resteranno attive fino al ’48.

Gli uomini dell’amministrazione. Il problema degli “esteri”. Per un verso, dunque, le ripartizioni amministrative che ritagliano i territori degli stati preunitari, per l’altro i lineamenti delle istituzioni affidate a funzionari designati e in linea di massima stipendiato dallo stato (con temporanea eccezione dei giudici sabaudi), cui è delegato il compito di esercitare la funzione amministrativa e giudiziaria. Nell’Italia napoleonica sussisteva invece un modello unico.
In base a quali criteri venne reclutato il corpo burocratico che operò durante i decenni della restaurazione?le storie furono diverse. La piena stabilizzazione del sistema napoleonico nelle varie parti d’Italia si era tradotta nella promozione di un corpo burocratico professionale dai marcati tratti borghesi, anche se non privo di vistose presenze nobiliari. Un ruolo significativo l’aveva giocato, specie nei dipartimenti dell’impero e del regno di Napoli, una componente straniera formata da cittadini francesi inviati da Parigi a governare territori italiani, quasi a consolidare la presenza di un secondo esercito transalpino accanto a quello militare. Con il 1814 questa componente scomparve ovunque. Nel Lombardo-Veneto (nelle provincie venete nella quasi totalità degli apparati burocratici, in Lombardia limitatamente ai settori della polizia e dell’amministrazione giudiziaria) negli anni immediatamente seguenti all’avvio del nuovo sistema (e in misura poi decrescente nei decenni successivi) accadde che accanto a funzionari di estrazione locale se ne trovassero anche di originari delle province tedesche dell’impero asburgico. E il fatto fu rimarchevole anche perché qui, durante gli anni napoleonici, il sistema amministrativo non aveva al suo interno una componente francese, dunque quello insediatosi dal 1816 con funzionari , giudici e commissari di polizia tedeschi venne visto come un governo straniero, molto più del precedente.
Nel resto della penisola l’esercizio di una carica statale retribuita e appartenenza sotto il profilo di nascita o naturalizzazione allo stato in cui essa veniva espletata, si propose come un dato di fatto. Ma la scomparsa dei francesi dalle amministrazioni dei territori del regno di Napoli o dell’Empire non fu il solo fenomeno caratteristico dei primi anni della restaurazione.

Una rivincita aristocratica? Nel regno di Sardegna, alla ripresa del governo sabaudo corrispose anche l’intenzione di emarginare il ceto burocratico locale che sotto Napoleone aveva fatto da scorta ai francesi nel governo del territorio. E successivamente al 1814 i regnanti si illusero di poter restituire agli appartamenti pubblici lo stesso profilo umano del prima della parentesi napoleonica, cercando di ripristinare codici e cariche nobiliari. Quella che ne derivò fu una massiccia aristocratizzazione dei ruoli di comando e il virtuale proporsi dell’amministrazione (e dell’esercito) come una specie di riserva nobiliare. Era il 1847.
La revanche nobiliare si presentò come un fenomeno di immediata presa visiva nel Lombardo-Veneto, dove tra il 1816 e il 1821 furono numerosi coloro che, notabili in era napoleonica e dunque impegnati nell’esercizio di cariche di respiro locale, più che di vero e proprio servizio di stato, affiancarono i funzionari austriaci nella gestione degli apparati dipendenti dai governi o all’interno dei governi stessi, emarginando molte delle intelligenze di maggior spicco dell’alta burocrazia in servizio nel Regno italico fino all’aprile del 1814.
In Lombardia tra i consiglieri di governo, i delegati e i vicedelegati provinciali, le cariche più alte dell’amministrazione esecutiva, i nobili si aggiudicarono in quegli anni un buon 80% delle presenze. Ma qui, a differenza del regno sabaudo, l’aristocratizzazione dell’amministrazione si configurò come un fenomeno transitorio, molto legato all’ambigua congiuntura iniziale della restaurazione, formalmente protesa a riproporre le parvenze di quella condivisione della sfera pubblica tra sovrano e nobiltà che era stata tipica dell’epoca prerivoluzionaria.
Dopo il 1821 le stesse cariche per cui ci fu un grosso insediamento nobiliare durante il primo quinquennio, vennero mutando sociologicamente. 67% nel 1822, 24% nel 1848, un dato che dimostra la consistenza della nobiltà ma anche le differenze con il primo periodo della restaurazione.
A Firenze c’era l’affermazione di un ceto burocratico professional-borghese, tratto nevralgico dell’epoca francese.
Lo Stato pontificio aveva un’impronta particolare dal momento che qui il forzato accantonamento del locale partito dell’amministrazione franco-imperiale significò non solo massiccia riemersione dell’aristocrazia ai vertici degli apparati pubblici, ma anche ritorno in piena regola di un governo clericale al posto di un governo secolarizzato. Tanto a Roma, nelle congregazioni che facevano le veci dei ministeri, quanto nelle provincie di cui lo stato si componeva (cariche di delegato o di legato) i più alti funzionari pontifici erano infatti persone in abito talare, scelte all’interno di un’elite ecclesiastico-amministrativa formata da una trentina di cardinali e da poco più di 160 prelati. Almeno fino agli anni ’40 l’accesso alla prelatura e al cardinalato si rivelò problematico per chi non provenisse da famiglie blasonate. Accadde che malgrado sporadiche eccezioni per decenni il governo clericale dei territori del papa fu anche governo nobiliare. Tra il 1815 e il 1848 il 90% dei delegati e dei legati vantava ascendenze nobiliari. Poco più bassa si presentava la percentuale corrispettiva all’interno delle congregazioni e dei tribunali romani.
Tutt’altra aria si respirava nel regno delle due Sicilie, nella parte continentale soprattutto, negli anni successivi al ritorno a Napoli dei Borboni, Qui nel 1816 era stata scelta una linea di sostanziale continuità con il regime cessato. Se ne erano andati, ovviamente,m i francesi ed erano tornati nel continente i funzionari che tra il 1806 e il 1815 avevano seguito i sovrano nel parziale esilio siciliano. Ma il nucleo di basse del funzionar iato formatosi nel regno murattiano era rimasto, sostanzialmente, al suo posto, tanto nelle strutture dell’amministrazione quanto nei ranghi dell’esercito, in omaggio a una politica di amalgama che sarebbe stata contraddetta solo dopo la breve stagione costituzionale del 1820-21. dopo quella data si dispiegò una politica di massiccia epurazione dalle strutture istituzionali della componente murattiana felicemente sopravvissuta al giro di boa del 1815. non ci è però dato di sapere, se non sporadicamente, che cosa essa comportasse sotto il profilo del ricambio funzionariale, né come il corpo burocratico statuale si venisse modellando nei decenni successivi.

Continuità o rottura? La qualità delle istituzioni. Durante la restaurazione il rapporto intrattenuto dai governi con le strutture e con gli uomini della stagione napoleonica si presenta fortemente cangiante a seconda dei contesti. In ogni capitale si incontra un sistema di ministeri o simili, ma l’emancipazione dell’esecutivo dal giudiziario varia a seconda del luogo. Delegati, legati, intendenti, governatori; sotto questo ventaglio di deominazioni si presentano ovunque operativi, al vertice dei micro ritagli amministrativi delle provincie, nei quali ogni stato è suddiviso, funzionari che in genere (fatte salve le commistioni tra giustizia e amministrazione nei casi in cui esse si danno, ereditano competenze già di spettanza dei prefetti o intendenti napoleonici, e che hanno ai propri comandi una rete capillare di figure burocratiche di rango inferiore, per le quali si può parlare di una sostanziale parentela con i viceprefetti o vice intendenti d’epoca francese. Il disegno dello stato-amministrazione risulta nelle sue grandi linee ovunque preservato e durante il prosieguo della restaurazione verrà introdotto anche nelle isole maggiori, rimaste impermeabili alla grande trasformazione napoleonica. Ma gli elementi in controtendenza, rispetto a quel disegno, sono numerosi e significativi. Oltre a quella degli incagli derivanti dalle rinnovate commistioni tra esecutivo e giudiziario, essi assumono la forma delle giurisdizioni particolari o dei residui di feudalesimo o della personalità giuridica territoriale che in qualche caso fa aggio sulle coerenze unitarie dello stato e configura situazioni di semi immunità. Manomesso o eliminato appare poi, in molte situazioni, quel delicato ingranaggio della speciale magistratura contenziosa che il legislatore napoleonico ha formalizzato al duplice scopo di liberare l’amministrazione dalla giustizia (l’innovazione della conservazione) e di tutelare il cittadino nei confronti degli abusi dell’amministrazione, imponendo ad esso una tempistica e una modalità di intervento del tutto estranee all’habitus mentale e alle consuetudini della magistratura ordinaria. Quello della restaurazione è certamente di nuovo tempo di giudici, o meglio di una certa ritualità che in antico regime all’esercizio della giustizia era connessa, e che presenta tratti inconciliabili con l’emergenza dell’amministrazione, di cui l’età appena trascorsa è stata testimone.
Le gerarchie di qualità suggerite dalle relazioni dei nostalgici dello stato napoleonico in quegli anni, elaborate tenendo conto del maggiore o minore tasso di analogia delle istituzioni restaurate rispetto a quelle napoleoniche, perderanno di consistenza dei decenni seguenti. Con la sua apparente vicinanza al modello murattiano lo stato borbonico del Mezzogiorno rivelerà la sua incapacità di governare efficacemente un territorio che anche durante la restaurazione continua a presentarsi ostico a una regolarità amministrativa.
Saranno le istituzioni del regno Lombardo-Veneto a dare miglior prova di garantire un rapporto mediamente accettabile tra sudditi e amministrazione. Già negli anni prima del ’48 il regno di Sardegna, grazie alle riforme tra il ’30 e il 40, mostrerà di aver colmano la distanza che agli esordi della restaurazione lo allontanava dalla modernità.

Continuità o rottura? Gli uomini. Nel post periodo napoleonico ci fu un ricambio del ceto politico-amministrativo. Ora la classe amministrativa era fatta di aristocratici, che fungervano da consiglieri. I veri funzionari che avevano fatto il mestiere per anni, ora risultavano sfruttati, licenziati o pensionati. Successde nel Lombardo-Veneto, nel regno di Sardegna, nei ducati Padano e in Toscana, nello Stato pontificio, dove la sottana clericale di legati e delegati rimpiazzò i prefetti. Nel regno delle Due Sicilie le cose si modularono diversamente, grazie alla politica dei Medici e Tommasi, ma dopo la parentesi costituzionale del 1820-21 anche il Mezzogiorno continentale si adeguò alla tendenza degli altri stati nel 1814-16.
Oltre alla legislazione francese si dispersero molte personalità che era stata interprete di un mutamento sociale tra pubblico potere e società. L’aristocrazia non poteva fare le loro veci, perché inadeguata (anche ideologicamente).

Un soggetto nuovo: i dottori dell’amministrazione. Le tendenze iniziali della restaurazione conobbero varie correzioni di rotta. A partire dagli anni ’30, mentre per un verso in tutti gli stati della penisola i residui particolaristici di antoco regime variamente riemersi tra il 1814 e il 1816 venivano uno ad uno smantellati, anche l’iniziale fisionomia aristocratizzante dei corpi amministrativi perse coerenza, in seguito a un graduale ricambio generazionale, che proiettò ai vertici degli apparati non più figure legate a una particolare congiuntura politica (come erano stati gli esponenti del partito della gioventù rivoluzionario-napoleonico, o quelli della rivincita aristocratica) ma piuttosto neutri dottori dell’amministrazione, in genere formatisi nelle aule delle facoltà giuridiche delle università e corroboratisi in seguito attraverso una lunga esperienza di praticantato, spesso gratuito, consumata presso uffici statali ai quali essi erano stati ammessi per concorso, e non per designazione ispirata da ragioni di ordine politico o di considerazione sociale. Il principio dell’assegnazione delle cariche burocratiche per concorso, in base al possesso di prerequisiti da individuare in una formazione scolastica superiore, generalmente giuridica, ma talvolta anche tecnica o scientifica (nelle branche dell’amministrazione come la gestione del sistema pubblico di comunicazione, gli uffici finanziari, gli apparati incaricati del monitoraggio e della valorizzazione delle risorse naturali) non si affermò ovunque la medesima chiarezza riscontrabile nel Loimbardo Veneto, dove già negli anni ’20 l’ascesa degli accademici nella funzione pubblica cominciò a imporsi come fenomeno generalizzato, derivante da una normativa introdotta già all’inizio del nuovo regime.
E se nello Stato pontificio, che rappresentava forse sotto questo punto di vista il caso limite, il concorso di ammissione e ogni altra garanzia di carriera e di promozione rimasero sconosciuti (e ciononostante nei decenni della restaurazione si venne formando sul campo, specie negli impieghi di competenza tecnica, una borghesia degli uffici che si preparava a succedere al regime di prelati e cortigiani ristabilito nel 1815), in quasi tutti gli altri stati la “legge del calendario”, consistente nell’attribuzione delle cariche in considerazione al curriculum di servizio pregresso, sostituì quella discrezionalità tutta politica che aveva privilegiato gli aristocratici nelle prime battute della restaurazione e, prima di loro, i militanti del partito della gioventù negli anni francesi.

L’amministrazione: dalla politica alla routine burocratica. Nella legge del calendario, ossia la conversione della funzione amministrativa in mestiere, era un fenomeno che i nobili toscani, negli anni ’40, mostravano di considerare di per sé deleterio dal momento che secondo molti di loro solo chi godeva di solidi patrimoni personali poteva offrire la piena garanzia di servire lo stato spassionatamente, senza incorrere nella tentazione di lasciarsi corrompere. Nel 1838 venne decretata una legge che attribuiva agli isolani la prerogativa di occupare la maggior parte della promiscuità degli impieghi tra la parte continentale e quella insulare del regno delle Due Sicilie. Quando l’amministrazione non fece più partecipare i cittadini, si riempì di persone incapaci. All’inizio l’equazione tra appartenenza alla nobiltà, il corpo che più aveva patito, durante il ventennio rivoluzionario e napoleonico, dell’emergenza dell’amministrazione come stella polare del rapporto tra stato e società, ed esercizio delle principali cariche pubbliche era stata ovunque prevalente. E ciò aveva comportato, se non quel sostanziale ridimensionamento della giurisdizione statale che aveva affollato i sogni e le aspirazioni dei settori più conservatori della società, se non altro la praticabilità dell’illusione di poterne guidare dall’interno le traiettorie, rendendole meno acuminate. La generazione di militanti non c’era più e le monarchie più determinate a rimanere all’interno del solco tracciato da Napoleone (in primis quella austriaca, in relazione al regno Lombardo-Veneto), quella di assegnare il timone della giurisdizione statale agli eredi di coloro che prima del 1796 erano stati titolari delle giurisdizioni exrtrastatali, si era configurata come una scelta obbligata, in assenza della quale si sarebbe perso il senso di quella rottura con lo spirito della rivoluzione che si voleva comunque perseguire.
Ulteriormente accentuata anche nel regno delle Due Sicilie, dopo i tentativi costituzionali del 1820-21, l’epurazione della generazione dei napoleonici alla metà degli anni ’20 poteva dirsi ormai ovunque fatto compiuto e decantato. A essa però non corrispondeva un ridimensionamento del dirigismo statale nella società che dagli esiti della caduta di Bonaparte molti si erano attesi, immaginando nella restaurazione il rilancio della complementarità tra governo (statale) e giurisdizione (social-territoriale), che aveva costituito il palinsesto fondamentale dell’epoca prerivoluzionaria. Al contrario l’amministrazione mostrava la tendenza a dilatarsi ulteriormente anche se in vari stati c’erano ancora degli strascichi napoleonici.
Quelli che erano parsi come i vincitori della stagione post-napoleonica svilupparono gradualmente sentimenti di spregio nei confronti dell’idea di servire lo stato, e dismisero silenziosamente molte delle cariche sulle quali avevano fatto di tutto per mettere le mani tra il 1814 e il 1816, una volta realizzato che la logica che le collegava in un sistema compatto ne inibiva al tempo stesso un esercizio strumentale e personalizzato, ovvero filocetuale. Il governo si fece una casta ed ebbe il suo particolare inteesse. Iniziò dunque ad affluire un soggetto sociale nuovo, un ceto professionale maturo cresciuto facendo gavetta e temprandosi nella ruotina degli uffici.

Dall’insofferenza antinapoleonica a quella antiburocratica. Non esisteva un vero e proprio partito di governo come quelli brucianti che si profilavano negli anni napoleonici. Negli apparati pubblici della restaurazione, oltre a non esservi più ammessi come nel momento della rifondazione dinastica degli stati, semplicemente in omaggio al blasone familiare, si avanzava molto a rilento., e l’amministrazione, fattasi routine dopo la propria sfolgorante epifania durante l’infanzia napoleonica, quando s’era offerta come uno scenario talmente seducente e gratificante da indurre i giovani militanti a vedere in essa quasi una compensazione alle disillusioni rivoluzionarie, appariva ora come il luogo neutro di una delle possibili carriere perseguibili dagli scolarizzati di livello accademico. Non sarà un caso che alla prima occasione corale del 1848 i funzionari pubblici formatisi nella nuova congiuntura, lungi dal rivelarsi come un pilastro dei regimi che li stipendiavano, come lo erano stati invece gli antenati trent’anni prima, mostrarono la tendenza a identificarsi con le insofferenze della società civile e a contestare anch’essi senza remore l’ordine costituito, sposando la causa del mutamento, piuttosto che contribuire ad arginare l’impeto e configurandosi quindi assai più come fazione della società che come fazione dello stato.
Ricarsoli era un aristocratico toscano ma anche una figura di primo piano nel movimento liberal moderato che durante gli anni ’40, in una sorta di rivolta del patriziato, si affermò come guida dell’opinione pubblica antiassolutista, e non solo in Toscana, lamentando l’invadenza delloo stato e della sua amministrazione, lamentando la mortificazione del concorso dei cittadini nell’amministrazione dei pubblici interessi. Con questa denuncia alludeva al tacitamento nella gestione del pubblico potere di quella fascia elevata della società che nell’età napoleonica si era tenuta in disparte rispetto alle macrotendenze statali degli apparati pubblici, però allo stesso tempo propensi ad essere una naturale guida di quella società civile di cui gli ultimi decenni avevano testimoniato dell’irradiazione diffusa, contestualmente all’emergenza dell’amministrazione e al tramonto del mondo vecchio corporato-cetuale.

Capitolo 5
Un costituzionalismo municipale

L’evanescenza della cetualità: regno di Sardegna, Due Sicilie, Toscana, ducati. Nel regno di Sardegna, in quello delle Due Sicilie, nel Granducato di Toscana e nei due ducati padani lo spazio istituzionale destinato al notabilato e all’esercizio della rappresentanza territoriale venne concepito sin dalle prime battute della restaurazione come un terreno privo di quelle differenziazioni di carattere cetuale che avevano costruito la regola nei sistemi di antico regime.
In questi casi l’accesso ai consigli comunali e alle istituzioni rappresentative di livello provinciale, nei casi in cui queste esistevano (cioè nel regno delle Due Sicilie sin dal 1815 e poi rispettivamente a partire dal 1843 e dal 1848, anche nel regno di Sardegna e nel granducato di Toscana), derivava infatti da una selezione basata esclusivamente sul principio del censo e sull’individuazione, da parte dei pubblici apparati, di liste di notabili dalle quali attingere per riempire i ranghi delle cariche civiche e provinciali non retribuite.
Il sistema funzionava così: dopo una iniziale cernita da parte del governo nella rosa delle notabilità locali, ovvero i maggiori proprietari fondiari o i titolari dei più alti redditi derivanti dall’esercizio di attività commerciali manifatturiere o professionali, i consigli venivano rinnovati parzialmente di tanto in tanto attraverso un sistema di co-optazione esercitata dai loro componenti sotto il controllo del governo, il cui suggello sull’intero meccanismo risultava ulteriormente evidenziato dalla esclusiva competenza sovrana in relazione alla nomina dei sindaci preposti alle giunte che costituivano l’esecutivo comunale. Diversi da questo erano i sistemi di selezione delle rappresentanze locali praticati nel regno Lombardo Veneto e nello Stato pontificio. Qui, infatti, il principio della differenziazione tra nobili e non nobili conosceva ancora un esplicito riconoscimento, anche se esso risultava diversamente modulato nell’uno e nell’altro stato.

I ceti ricompaiono: Stato pontificio e Lombardo-Veneto. Nello Stato pontificio i membri dei consigli comunali designati in base alla medesima procedura vigente negli stati trattati, erano divisi in due ceti con lo stesso numero di membri: il primo era formato da aristocratici, il secondo da possidenti, uomini di lettere, negozianti, esercenti arti non vili. Dopo il 1831 dopo la struttura bipartita ne venne una tripartita, articolata in base allo schema: possidenti nobili, possidenti non nobili, esercenti commerci o professioni liberali. Non venne in quell’anno modificata la norma che attribuiva l’esercizio esclusivo della carica di gonfaloniere (sindaco) a persone di condizione aristocratica, né quella che consentiva l’accesso all’anzianato (cioè alla giunta) praticamente ai soli possidenti, nobili o non nobili che essi fossero. Del tutto assenti fino al 1831 su fronte pressione austriaca,  vennero introdotti nell’ordinamento pontificio anche dei consigli provinciali, i cui membri venivano designati dal governo sulla base di liste suggerite dai consigli comunali di ciascuna provincia. Anche nei consigli provinciali venne stabilita una tripartizione delle appartenenze che non ricalcava tuttavia esattamente quella vigente per i consigli comunali. Le tre classi dei consiglieri provinciali erano quella dei nobili o proprietari di terra, considerati come unico insieme, quella degli industriali e commercianti, quella dei professori e degli appartenenti alle professioni liberali. Ciascuna delle tre classi, a sua volta, veniva preventivamente scremata in base a un criterio di tipo censita rio.
Anche nel Lombardo-Veneto, custode fedele della visione istituzionale napoleonica, la divisione tra nobili e non nobili manteneva pregnanza. Ciò avveniva solo nell’ambito delle congregazioni, gli organi di rappresentanza provinciale e centrale. Ogni provincia aveva una congregazione composta da un numero eguale di possidenti nobili e possidenti non nobili e da tanti deputati quante erano le città regie presenti sulla sua superficie (in tutti i casi il capoluogo di provincia, talvolta anche una o due ulteriori città per provincia.
A Milano e Venezia si riuniva una congregazione centrale, formata da un deputato nobile e uno non nobile, in rappresentanza di ciascuna provincia, e da tanti deputati quante erano le città regie risultanti nell’appello in ciascuna delle due porzioni del regno. I deputati delle congregazioni provinciali e centrali venivano designati dal governo ma la scelta operata da quest’ultimo si configurava come l’anello terminale di una procedura basata su un sistema di consultazioni elettorali che si svolgevano in prima battuta in ambito comunale. Sulle modalità di amministrazione dei comuni lombardo-veneti una parte consistente si configurava come una singolare oasi di democrazia partecipativa nel  quadro sostanzialmente assolutistico della penisola.

Il sistema comunale Lombardo-Veneto. Ogni comune, nel Lombardo-Veneto ce n’erano 3.091 una volta eliminata la condensazione di vari comuni napoleonica, era fornito di un organo consiliare delegato all’amministrazione locale. Era il consiglio comunale nei centri maggiori (città capoluogo di delegazione, città regie e dal 1819 i comuni le cui tavole catastali fossero censiti più di 300 proprietari)) e la sua composizione era: la prima nomina era effettuata dal governo scegliendo tra le persone più in vista in ambito locale, mentre il rinnovo avveniva a tempo determinato in base a un sistema di cooptazione sorvegliata dal sindaco governativo. Dal consiglio venivano formalizzate in una rosa di candidati le indicazioni relative alla possibile composizione della giunta, chiamata congregazione municipale nei capoluoghi di provincia e nelle città regie a deputazione comunale negli altri comuni retti a consiglio) che il governo in genere confermava, riservandosi la facoltà di prescindere dall’ordine di precedenza suggerito dal consiglio. Un sistema che riguardava 44 comuni in Lombardia, 69 in Veneto. Alla vigilia dell’unità, 700 comuni in Lombardia, 583 in Veneto, a dimostrazione di una crescita del regime consiliare, ma non al punto di mettere in discussione la prevalenza di un diverso modello di rappresentanza comunale, quello detto a “convocato”, che è quella data continuava a interessare poco meno dei due terzi di circa 3.000 comuni lombardo-veneti.
Più ancora che nella designazione di una rappresentanza elettiva dal basso, il sistema a convocato si esplicitava in una forma di gestione assembleare dell’ente locale, della quale venivano resi partecipi i proprietari fondiari censiti nelle tavole catastali di ciascun comune, riuniti due volte l’anno, presente il commissario distrettuale, per l’approvazione del bilancio consuntivo e di quello preventivo. Ogni tre anni il convocato nominava al proprio interno una deputazione che avrebbe svolto la funzione di giunta comunale nel triennio a venire. Era agli organi esecutivi comiunali (congregazioni municipali e deputazioni comunali) che era demandato il compito di segnalare a loro volta ogni tre anni i nominativi di quanti, previo successivo vaglio delle congregazioni provinciali, di quelle centrali, infine del governo, avrebbero sostituito i deputati uscenti per scadenza del mandato dalle congregazioni provinciali e da quelle centrali stesse. In ultima analisi, dunque, le rappresentanze provinciali e centrali delle due parti del regno erano per un verso elettive, per l’altro si configuravano come l’espressione di una federazione di corpi municipali.

Il soggetto sociale della rappresentanza locale. Il notabilato aveva una componente aristocratica e una borghese, commerciale e fondiaria. Essi erano anche costruiti come soggetti istituzionali dall’alto, sulla base di indicazioni fornite dagli agenti periferici allo stato, raggruppati all’interno di liste potenziali eleggibili alle cariche di rappresentanza municipale e talvolta provinciale, ma anche proiettati in primo piano direttamente dalla società civile e dalle sue libere, per quanto farraginose e indirette, pratiche di consultazione elettorale. Il contributo dei cittadini si traduceva solo in un soggetto di riferimento che andava in carica. Ci potevano anche essere dei casi limite in cui, visto che la condizione proprietaria rappresentava un presupposto indispensabile e nelle grandi pianure c’era un solo proprietario, quindi non si raggiungeva il limite legale, mentre in montagna c’erano tantissimi proprietari e quindi si generava il caos. Il ceto politico, dunque, era rappresentato da nobili, borghesi, commercianti, possidenti medi e piccoli, scolarizzati con professioni liberali.

Tra corpo e individui: la fazione. La rappresentanza comunale, dal livello del villaggio a quello della città medio-grande, costituì durante la restaurazione un palcoscenico insostituibile per l’esternazione di logiche di supremazia politica per un verso alternative rispetto a quelle irradiate dallo stato, per l’altro intensamente espressive della trama di rapporti di forza e di legami informali nella quale si sfrangiava una società civile che la dottrina avrebbe voluto tutta individualistica, ma che la prassi mostrava ampiamente corporata, seppur non secondo i canonici dettami cetuali. Ci si trovava dinanzi situazioni nelle quali le legislazioni vigenti non offrivano i presupposti di diritto (libertà di stampa, di pensiero, di associazione necessari alla formazione di partiti politici (fenomeno che invece andava in Europa liberale)) e nei quali anche le opportunità di per sé innocue di socializzazione formale o informale (dal circolo al caffè, i luoghi classici di formazione dell’opinione pubblica dell’Europa primo-ottocentesca) risultavano assai inegualmente dislocate a seconda non solo degli stati, ma anche dei singoli contesti territoriali al loro interno. Erano queste, infatti, fruibili essenzialmente nei centri urbani, assai meno nelle campagne; e le campagne costituivano la trama di fondo di una società che in ciascuno degli stati preunitari era ancora contraddistinta da una larga prevalenza della dimensione rurale. Per contro l’amministrazione locale (con le sue proiezioni provinciali o persino centrali, nei casi in cui ne disponeva) si presentava come un’opportunità generalizzata di affermazione della propria identità per le élite sociali tutte intere, in ragione delle proprie elementari logiche di espressione; che queste fossero inclini a manifestarsi nell’istituto informale della fazione e, dietro di essa, della famiglia, è fenomeno che ci riconduce a un carattere arcaico, anche se non più giuridicamente cetuale, di gran parte del mondo di quegli anni.
Non tutte le famiglie comunali si distinguevano per la facile prevalenza, al loro interno, di quelle logiche unilateralmente paternalistiche e deferenziali, in ragione delle quali gli strati più alti dell’élite potevano attendersi di ereditare la stessa naturale funzione di preminenza di cui, prima dell’età rivoluzionaria, le aristocrazie di sangue avevano fruito attraverso la loro titolarità delle forme di giurisdizione non statali. Il terreno dell’amministrazione comunale poteva rivelarsi ostico per lo stato e i funzionari che dovevano supervisionarlo, ma anche per i notabili che volevano farne parte. Tuttavia lo spazio delle istituzioni locali, dove le élite avevano interessi concreti da tutelare, restituiva senza difficoltà il riconoscimento formale della preminenza sociale che esse esercitavano in ragione dei propri blasoni, patrimoni e capacità professionali e culturali.
I giochi di fazione trovano terreno anche nei consigli comunali delle città maggiori. Nemmeno lì si risparmiano i raggiri per ottenere un posto da consigliere o da sindaco. Gli organigrammi dei consigli e delle giunte cittadine, in ogni caso, premiavano ununa o l’altra fazione nelle quali i ceti dirigenti si distribuivano. La stessa cosa avveniva spesso anche nella maggior parte delle città e dei comuni poco cospicui se solo i rapporti di forza patrimoniali locali rendevano congrua una simile eventualità.

Governo locale: quali potenzialità? Quali erano le concrete potenzialità offerte dalle leve del governo comunale a chi riusciva a impadronirsene?i consiglieri comunali, così come i membri delle giunte e il sindaco non erano retributi. I comuni disponevano però di un bilancio, ricavato dalle imposte locali o da una frazione di quelle statali, oltre che dal patrimonio comunale. Esso era in parte vincolato all’erogazione di alcune spese obbligatorie stabilite dall’alto (come nell’istruzione e nella sanità), in parte rientrava nella discrezionalità degli amministratori comunali. Gli utilizzi che potevano scaturirne erano molto diversi. Così se un delegato provinciale lombardo, volgendo lo sguardo ai comuni di campagna, individuava in una fabbrica, una stradanell’elezione di una persona piuttosto che un’altra alle funzioni di amministrazione sia del comune che della chiesa locale, la rosa degli oggetti di comunale interesse, nei capoluoghi di provincia quest’ultima trovava ovviamente degli oggetti di identificazione più vistosi, tanto da potersi definire monumentali. Di quale volto architettonico dare alla città le amministrazioni della restaurazione se ne occuparono molto, lavorando all’unisono, soprattutto per la costruzione dei teatri, specialmente al centro-nord. I governi comunali e locali erano arrivati al punto da entrare in concorrenza con i governi statali.

La piccola patria dei nostalgici. L’insieme di insofferenti all’eredità napoleonica, reduci dall’abolizione dei privilegi cetuali, celebravano una sorta di “poetica dei municipi” in uno stato, come quello pontificio, nel quale una legge del 1827 aveva abolito ogni traccia di autoreferenzialità statutaria. Ci fu l’esempio del conte Monaldo Leopardi, a Recanati, che andava alla ricerca di una gerarchica costituzione buona a fornire ai sudditi il viatico necessario per affrontare le traversie della vita e il conforto per lenire la propria fragilità di individui. E la trovava nelle istituzioni vicine all’ordine domestico-famigliare, ossia i municipi, nel quale riconosceva la comunità religiosa prima ancora che comunale, civile. L’obiettivo era la fervenza antiassolutistica degli anni ’30 europea dopo la rivoluzione parigina del 1830 che si era tradotta in una nuova costituzione, imposta dalla nazione al sovrano e non concessa spontaneamente. Ma Monaldo coglieva anche l’occasione per lanciare parole di fuoco contro quel modello politico centralista che rappresentava, per lui, la versione burocratica della stessa ideologia universalista della rivoluzione.
Nello Stato pontificio si era sentito più che altrove il ritorno al passato dopo l’era napoleonica, come in tema di tasse e servizio militare. La restaurazione si era rivelata, anche nello Stato pontificio, insufficiente. Alla riaffermazione del principio del diritto divino del re, essa aveva coniugato la contestuale irradiazione di una macchina burocratica la quale, malgrado sostituzione delle sottane clericale alle uniformi, secondo lui  somigliava a quella di matrice rivoluzionaria, ai tempi del Regno Italico. Troppi impiegati statali, troppe tasse e poco potere ai municipi, conservatori delle virtù familiari dell’obbedienza e della sudditanza. L’autonomia comunale, o addirittura nazionale, era un gesto blasfemo e sovversivo. Inoltre Monaldo non vedeva la necessità di uno stato nazionale, vista la diversità di popoli, di usi e costumi che divideva le varie aree italiane. La patria era solo la terra di prossimità di nascita, il municipio, la piccola comunità.

La famiglia comunale. Anche in Toscana l’istituto comunale e il suo potenziamento rappresentavano il presidio più saldo al quale un’élite sociale, ormai tanto disamorata dagli apparati di stato da aver deciso di consumate il proprio divorzio rispetto ad essi e alla loro castalità, era incline negli anni appena prima del ’48 ad ancorare la propria identità. Nell’elaborazione toscana, però, c’era l’idea che il livello dell’autogoverno locale fosse non solo un buon correttivo rispetto all’invadenza statale, ma anche al tempo stesso la cellula fondamentale di una originale, futuribile costituzione all’italiana che non si desiderava come mero ricalco di quelle affermatisi nell’Europa liberale. I liberal cetuali toscani muovevano dalla constatazione della pochezza del sistema comunale vigente nel granducato, con un consiglio generale ridotto a zero, divenuto strumento di cancellieri e gonfalonieri, pieno di corruzione. Dal 1846 il loro programma costituzionale, ovvero la proposta che rivolgevano all’opinione pubblica, prese forma enfatizzando l’opportunità di una decentralizzazione dell’amministrazione, dalla quale sarebbe scaturita in primo luogo una rinnovata soggettività politica dell’istituto comunale e poi, nel medio-lungo termine, la formalizzazione di un organo rappresentativo regionale a Firenze, nel quale la voce dei notabili locali avrebbe trovato occasione di efficace esternazione, in forma consultiva. Nel dicembre 1847, in un clima di avvio di riforme liberaleggianti che in molti stati della penisola rappresentarono l’anticamera del ’48. l’ordinamento consisteva nell’attribuzione alla rappresentanza comunale (nonché a quelle erigende, circondariali e compartimentali) di maggiori margini di autonomia rispetto all’intrusività di polizia, fisco, provveditori, soprintendenti, corpo degli ingegneri, degli esponenti, insomma, della mal sopportata macchina della burocrazia centrale. Per l’altro, la consegna a un corpo elettorale costituito da tutti i contribuenti padri di famiglia della responsabilità di formare gli organi di rappresentanza, che sin lì venivano invece designati dall’alto, oppure per cooptazione controllata dal sindaco governativo. Quella cui ci si trovava davanti era una proposta di rivoluzione nella concezione di amministrazione locale. Per la composizione dei consigli essa si ispirava al modello di amministrazione locale vigente nella maggior parte dei comuni del Lombardo-Veneto, ma ciò a cui si mirava era la dilatazione del paradigma municipale a spese del paradigma statale. Ne derivava un secco ridimensionamento del ruolo dello stato nella vita pubblica, a beneficio di un’entità che, più ancora che in un’astratta società civile, era da riconoscere nell’istituto famigliare, e nei suoi naturali valori di timbro paternalistico-deferenziale. Anche i toscani, insomma, concepivano il comune come un ente territoriale autonomo, e non come l’estremità periferica del ritaglio amministrativo-statuale. Il comune è l’unica forma di potere dei padri sulle famiglie, e i loro interessi locali.

Tante voci, tanti comuni. Simonde de Sismondi e Carlo Cattaneo furono i più ambiziosi fautori del mito comunale nell’Italia di metà ‘800. Questa idea trovò riverbero nei cahiers des doléances pre-48 pubblicati dagli esponenti liberali moderati, e dai tardivi esperimenti riformistici dei sovrani prima dello scoppio della tempesta rivoluzionaria. Tra l’ottobre 1847 e il febbraio 1848, prima nello Stato pontificio, poi nel Regno di Sardegna, poi nel granducato di Toscana, lo schema costituzionale accennato inizia a divenire realtà grazie a leggi che sancirono l’elettività dei consigli comunali e l’istituzione di organi provinciali e centrali di rappresentanza consultiva.
Ripensare i rapporti tra stato e società a partire dai comuni metteva d’accordo tutti gli insoddisfatti dell’ordine burocratico-statuale della restaurazione: i nostalgici tout court dell’antico regime, come Monaldo Leopardi, che vedevano nell’espressione municipale l’affermazione dell’egemonia aristocratica; i liberal-cetuali che a loro volta trovavano conforto nell’abitudine all’ossequio e alla deferenza nei confronti dei potenti, che rappresentava il tratto quotidiano delle relazioni tra grandi e piccoli nella famiglia comunale, e perfino i democratici, i quali nell’esercizio dell’autogoverno comunale potevano leggere per un verso una pratica molto prossima a quella democrazia larga di cui alcuni di essi auspicavano l’inveramento, per l’altro il terreno propizio per lo sviluppo delle libere attività di mercato nelle quali, un uomo come Cattaneo riconosceva la forma primaria di espressione di una società civile compiutamente borghese, da apprezzare in ragione della libertà di manovra accordata al suo interno all’iniziativa dei privati.
Nel costituzionalismo municipale, specie come lo intendevano i toscani, pareva di trovare la sintesi tra libertà degli antichi e dei moderni. Della prima esso riproponeva il vasto spettro partecipativo, convogliando le atmosfere famigliaristiche tipiche delle piccole comunità. Di quella dei moderni faceva proprio il principio della minor ingerenza possibile dello stato (o meglio, della collettività in quest’ultimo cristallizzata) negli affari dei privati, visto come garanzia di una libertà individuale intesa in primo luogo come una libertà civile, di cui si auspicava la minima contaminazione con i conformismi promananti dal corpo sociale e dalle sue proiezioni istituzionali: lo stato, la burocrazia, ma per certi versi le stesse assemblee elettive di tipo macrolocale dotate delle con titolarità del potere legislativo, di cui la stagione apertasi con il luglio parigino del 1830 aveva prodotto una discreta disseminazione in Europa.

Prima della tempesta: le monarchie consultive. Negli anni ’20 le aristocrazie cercarono un contatto con la società civile, diversa dalle soffocanti limitazioni di censura e polizia applicate nell’immediata stagione post-napoleonica. Questa fu la stagione della monarchia consultiva, che avrebbe dovuto essere qualcosa di diverso rispetto a quella amministrativa della prima restaurazione. Le prime iniziative del 20-21 avevano lo scopo di contrapporre un’iniziativa costituzionale regia a quella dispiegatasi dal basso nelle Due Sicilie e in Piemonte, dove i rivoltosi, come in Spagna, avevano preteso l’introduzione della costituzione gaditana nel 1812, singolare contaminazione tra l’antico regime e il democratismo moderno, basata sull’esaltazione del territorio e della famiglia cattolica, piuttosto che sul riconoscimento della centralità dell’individuo e dei suoi diritti.
Il principe di Metternich, a ridosso del congresso di Lubiana, aveva sollecitato alcuni regnanti perché dessero più capacità di manovra alle amministrazioni locali nonché a costituirne una di rappresentanza centrale dotandola di funzioni analoghe a quelle esercitate nel Lombardo-Veneto dalle congregazioni contrali di Milano e Venezia, che costituivano una cuspide gerarchica della trama di autogoverno che aveva la propria base nei convocati e nei consigli comunali, e che conosceva il proprio snodo intermedio nelle congregazioni provinciali. La composizione delle due congregazioni centrali, articolate in base a uno schema vetero-cetuale (deputati della possidenza nobile, deputati della possidenza non nobile, deputati delle città regie) era soggetta al sindacato governativo e imperiale. Però quest’ultimo si esercitava su una rosa di designazioni dal basso che, malgrado una certa farraginosità e discrezionalità nei passaggi intermedi, non poteva che essere considerata come l’espressione della volontà degli elettori, intesi non come insieme di soggetti individuali, ma come cellule delle collettività comunali. Le congregazioni potevano essere intese come un parlamento territoriale, fatta salva la loro funzione consultiva e non legislativa.
Se le congregazioni del Lombardo-Veneto derivavano la loro composizione da meccanismi elettivi, altro fu il caso della consulta che venne istituita nel 1824 nel regno delle Due Sicilie e fu composta da 24 membri (16 in rappresentanza della parte continentale del regno, 8 della Sicilia) tutti di designazione regia, con la funzione di offrire consulenze all’amministrazione.
Durante gli anni ’30 nuovi organi rappresentativi centrali non vennero istituiti in alcuno stato della penisola, anche se ce n’era l’urgenza, e si cercò di dare altri tipi di risposte. Nello Stato pontificio venne attivato nel ’31, dopo le insorgenze che avevano scosso le provincie del papa, un livello rappresentativo provinciale che lì mancava (mentre esisteva già nel Lombardo-Veneto e nelle Due Sicilie). Nello stesso anno nel Regno di Sardegna venne istituito un Consiglio di stato, formato da 14 consiglieri di designazione regia, ai quali si pensava si potessero aggiungersene altri in determinate occasioni, in rappresentanza delle macrodivisioni amministrative del paese, ma nella sua versione larga il Consiglio non venne mai convocato.
Nel 1847 la monarchia consultiva conobbe un periodo di successo, appena prima dell’entrata in vigore delle carte costituzionali del ’48. Il movimento dei moderati, più che un parlamento legislativo, condensavano le proprie ambizioni in un consiglio centrale nominato dal sovrano su terne presentate dai consigli provinciali, a loro volta nominati in rose di candidati proposte dai consigli comunali, e munito di poteri in materia finanziaria e amministrativa, fino a reclamare il voto deliberativo sui bilanci dello stato. Prima nello Stato pontificio e poi in Toscana quell’organo prese forma, all’inizio del ’47, affidando al sovrano le nomine dei membri, piuttosto che, come volevano i moderati, un reclutamento attraverso elezioni dal basso a più gradi.

Liberalismo all’italiana. Il costituzionalismo municipale e la monarchia consultiva rappresentavano due facce della stessa medaglia. Erano infatti espressione di un liberalismo tutto italiano che si mostrava nel complesso restio a sposare con convinzione i principi individualistici del grande liberalismo europeo e trovava invece più consona alle caratteristiche e alle abitudini della propria base sociale l’adozione di un modello costituzionale di matrice corporato-territoriale. Il soggetto di quel modello era riconoscibile in un insieme di autonome famiglie municipali, in base al fatto che lo stato era concepito come un contenitore di una pluralità di soggetti politici minori, r non come una sintesi politica unitaria, come l’avevano pensato i napoleonidi. Gran parte delle élite sociali, così, prendevano le distanze dall’emergenza dell’amministrazione statale e dall’idea della rappresentanza politica individualistica, due principi di matrice rivoluzionaria, il primo con maggiore fortuna, il secondo in stand bye. La libertà politica era quella privata e locale.

Capitolo 6
Dal ’48 all’unificazione nazionale

Il ’48 e le sue costituzioni. A Napoli e Firenze a febbraio, a Torino e Roma a marzo, le costituzioni del ’48 italiano le emanarono i monarchi, che già durante i mesi precedenti erano stati costretti ad accordare le riforme liberaleggianti, come la libertà di stampa e associazione, che avevano consentito l’uscita allo scoperto e il provvisorio protagonismo di un’opinione pubblica ormai del tutto insofferente del neoassolutismo nei decenni precedenti e delle sue derive poliziesche. Li chiamarono per lo più statuti, in omaggio alla tradizione municipalistica. Le carte costituzionali del ’48 derivavano in larga parte dalla contaminazione tra la carta francese del 1814 (elargita dal monarca), quella francese del 1830 (contro cui si scagliò Monaldo Leopardi) e quella belga del 1831, anche se venne recepita meno delle prime due, visto che nessuna delle costituzioni del ’48 prevedeva il principio di elettività di entrambe le Camere. Erano costituzioni pensate non a misura di quella polifonia organicista di territori distinti, di cui i liberal-cetuali e i municipalisti di altra ispirazione avrebbero voluto che lo stato costituzionale fungesse da semplice contenitore, ma piuttosto, in funzione dello spazio statale unitario, ossia il ritaglio territoriale sul quale si esercitava l’autorità dei sovrani e dei loro apparati burocratico-istituzionali. Esse non erano, però, frutto della rivoluzione, ma carte di iniziativa sovrana che voleva conservare il suo potere. A redigerle furono uomini di fiducia del principe, non i tribuni d’opposizione. Il sistema bicamerale venne declinato in modo che la Camera alta fosse composta da membri a discrezione del re, con l’ampio ricorso all’evocazione retorica dei precedenti e delle consuetudini locali, ovvero di una risalente tradizione pattizia che si identificava con lo scenario della società per ceti e con l’epoca pre-rivoluzionaria, piuttosto che con le moderne forme contrattualistiche di forma individualistica nelle quali si esprimeva il rivoluzionario principio di sovranità popolare. I sovrani evitarono così l’insurrezione, che nel 1848 a Palermo inaugurarono la grande tempesta politica europea che si sarebbe protratta fino al ’49. Sono delle costituzioni, dunque, controrivoluzionarie.
A Roma il Senato consisteva nel collegio di cardinali, dichiarato Camera alta dello statuto. A Napoli, Firenze, Torino a comporlo sarebbero state figure di nomina regia o granducale, e doveva essere un prolungamento in sede parlamentare di un potere esecutivo che rimaneva alla corona. Un corpo burocratico suppletivo, sentinella della Camera bassa. Il legislativo spettava unicamente alle Camere, ma risultava compartecipato dai sovrani, i quali, risultando al tempo stesso i titolari esclusivi dell’esecutivo (i ministri erano responsabili davanti ai reali, non alle Camere) rimanevano formalmente gli arbitri della situazione. La prerogativa regia soverchiava quella parlamentare.
Diverso fu il caso della Sicilia, quello che aveva inaugurato la lunga stagione del ’48 su scala europea. Qui la costituzione era frutto di elite sociali e non del sovrano che stava altrove, a Napoli. L’autonomismo siciliano era emerso e convogliato in una secessione di fatto nel regno delle Due Sicilie.
Diverso fu il caso del Lombardo-Veneto, regioni nelle quali non ebbe luogo la concessione regia dell  costituzione, bensì prima per la rivoluzione e poi la resistenza contro il ritorno di quello che veniva ormai tout court definito l’occupante straniero. Le due capitali del Lombardo Veneto non ebbero costituzioni, ma governi insurrezionali provvisori. E ci ne assunse la guida si trovò a operare come un’autorità di fatto più che di diritto, alla quale era demandato il compito di difendere militarmente i concittadini dalla minaccia militare austriaca. Venezia si proclamò repubblica ma non per questo si diede una costituzione, anche se a più riprese,m durante i 18 mesi della sua indipendenza vi si tennero elezioni. Tanto meno se la dette Milano, la cui stagione di libertà si consumò nel breve giro di quattro mesi. Ad agosto, insieme al resto della Lombardia e a gran parte del Veneto, il capoluogo ambrosiano era già tornato sotto lo scettro austriaco.
Nel resto d’Italia intanto il ’48 proseguiva il suo corpo. Sullo sfondo dello scenario della guerra contro l’Austria e per la difesa dell’indipendenza italiana, alla quale per qualche mese acconsentirono a partecipare Carlo Alberto di Savoia e i sovrani di altri stati costituzionalizzati, le costituzioni stavano infatti passando dalla fase dell’enunciato di principio a quella dei dispositivi di attuazione. E la loro stringatezza veniva controbilanciata da leggi ordinarie e disposizioni applicative che regolarono in quei mesi l’istituto elettorale.
Tra il 15 marzo 1848, quando ebbero luogo le prime elezioni generali per il parlamento di Sicilia, e la fine del 1849 si tennero nella penisola ben 15 elezioni ordinarie, convocate con lo scopo di designare i deputati delle Camere elettive previste nelle costituzioni. Ma si votò anche a Reggio, Modena, Parma, Piacenza, Lombardia, Padova, Vicenza, Rovigo, Treviso, in consultazioni plebiscitarie nelle quali gli elettori furono chiamati ad esprimere la loro volontà di acconsentire o meno alla fusione dei rispettivi territori del regno di Sardegna. Il sistema era a suffragio ristretto e censita rio, con affluenza di rado superiore al 50%. Se da un lato il bicameralismo offriva infatti il destro di superare le concezioni istituzionali repubblicane e democratiche sorte dalla rivoluzione francese (visto lo spazio che il Senato di regia nomina aveva), configurando un diverso immaginario di sovranità di quello delle costituzioni giacobine di fine ‘700, dall’altro le leggi elettorali censita rie che regolavano al composizione della Camera dei deputati consentivano di aggiornare il chiave liberale partecipativa il modello astratto dello stato misto settecentesco, sostituendo i notabili ai corpi e ai ceti. Il suffragio secondo censimento era del 2% della popolazione. In  Sicilia il suffragio era per tutti, con esclusione degli analfabeti. , ossia di quasi tutti gli abitanti dell’isola. Se nelle grandi città il suffragio fu quasi universale, nei piccoli comuni votavano solo i possidenti. Ne scaturì una camera dei comuni elettiva in primo grado, che rappresentava più gli interessi municipali che lo spirito di uno stato unitario.  Sebbene in quei mesi ci fosse differenza tra libertà comunali e parlamentari.
Il municipalismo si mostrava a due distinti livelli: il primo risultava tutto interno a ciascuno degli stati costituzionalizzati, dal momento che la prevalenza dell’istituto del collegio uninominale (fecero eccezione il regno di Napoli e la Sicilia, dove si votò con il maggioritario plurinominale usato occasionalmente a Venezia e in Toscana) non poté che tradursi nell’affermazione parlamentare dei notabili, ossia i padri che il moderatismo pre 48 aveva contrapposto ai funzionari della burocrazia statale, offrendogli i margini di adattamento per proporsi in sede politica nell’interpretazione di un ruolo neocampanilista.
Il secondo, viceversa, si espresse a livello di relazioni interstatali, inibendo la durevole cristallizzazione di un fronte politico-militare unitario, capace di contrapporsi in modo efficace alla reazione austriaca, una volta che questa cominciò a dispiegarsi a partire dalla tarda primavera del 48. dopo la riconquista asburgica di Milano la guerra nazionale contro l’Austria restò all’idealismo dei volontari, e sono nel 49 nuovamente con l’appoggio della corona sabauda. Tutti i tentativi di dar vita a una Costituente italiana attuati nei primi mesi del 49 in Toscana e a Roma naufragarono. Il problema fondamentale è che si doveva avere una visione nazionale unitaria comune, invece c’erano ancora troppi interessi locali. Tra il 48 e il 49 la Toscana (marzo 49) con i suoi democratici ottenne l’introduzione del suffragio universale, aumentando il sogno della Costituente nazionale, e a Roma venne proclamata la repubblica da un’assemblea eletta a gennaio 49 a suffragio universale, ma solo nella teoria (solo il 10% della popolazione dello Stato pontificio aveva votato, gli altri no per il monito papale di scomunica). Questi furono scenari estremi contraddistinti dalla provvisoria eclissi di monarchi che erano stati attivi con il costituzionalismo del 48, come il granduca Leopoldo di Toscana e Pio IX nello Stato pontificio. Essi erano fuggiti dalle capitali. Nel Mezzogiorno Ferdinando di Borbone aveva da tempo avviato lo smantellamento della costituzione. Lo avrebbe completato con lo scioglimento delle Camere, coronando la sua reazione con la riconquista della Sicilia ribelle e con il tacitamento del parlamento isolano. Con la primavera del 1849, se si prescinde da Venezia, il cui assedio durò fino ad agosto, gli stati italiani erano tutti tornati sotto lo scettro delle case regnanti o dei sovrani in carica prima della tempesta. E mentre Leopoldo II e Pio IX avviandosi anch’essi a rioccupare i troni lasciati qualche mese prima, abolivano o sospendevano anch’essi, come Ferdinando OO, la costituzione e congedavano i parlamenti, rimaneva un solo stato della penisola in cui restasse ancora accesa la fiammella della libertà moderna, che tanto aveva attratto l’opinione pubblica progressista italiana nell’anno precedente, e ancora nei primi mesi di quello corrente. Mentre svanivano in ogni altro luogo, nel regno di Sardegna, dove Vittorio Emanuele II era succeduto all’abdicante Carlo Alberto statuto e parlamento tennero saldamente la scena per tutto il corso degli anni ’50.

Gli anni ’50 a Torino un parlamento, altrove no. La tennero non senza contrasti, perché come quello di Carlo Alberto anche l’immaginario costituzionale del suo successore propendeva a individuare nella corona e nel Senato, e non nella Camera elettiva, il perno di un sistema di cui si voleva rimarcare il carattere ottriato, senza riconoscere il principio di sovranità dei cittadini. Fino a qualche anno fa si dava per scontato, nel decennio preunitario, sotto la stella cavouriana, il compimento della metamorfosi del regime costituzionale introdotto nel 48 in vero e proprio regime  parlamentare, pur riconoscendo l’esistenza di una non limpida prassi costituzionale negli anni immediatamente seguenti la concessione dello Statuto. E individuava le tappe salienti di questa trasformazione prima nella ferma determinazione mostrata nel luglio 1849 dall’allora primo ministro Massimo d’Azeglio a respingere ogni suggestione autoritaria per l’abrogazione dello Statuto e l’eliminazione del regime costituzionale, poi, e soprattutto nella crisi Calabiana del 1854, culminata nella mobilitazione dell’opinione pubblica in difesa di Cavour, della maggioranza parlamentare e della politica di secolarizzazione, di fronte alla minaccia che correvano le istituzioni rappresentative e all’involuzione politica che si veniva profilando con l’incarico al Durando di comporre un Ministero legato alla corona. Ma al tempo stesso, privo di maggioranza parlamentare di sostegno. Così che negli anni seguenti non si sarebbe più data l’eventualità di un esecutivo i cui ministri gravitassero prevalentemente nel campo d’attrazione della corona, e risultassero legittimati a sottrarsi all’appoggio e alla convalida del loro operato da parte del Parlamento. Altri più di recente hanno persuasivamente invitato a una maggiore cautela evidenziando il peso perdurante esercitato dalla legittimazione sovrana sui governi e sui loro presidenti, tanto durante alcune fasi del decennio preunitario, quanto nei lunghi decenni successivi all’unificazione nazionale, e così pure l’ampiezza della discrezionalità monarchica in ordine delle modalità e alla tempistica del funzionamento della Camera, nonché la sostanziale intangibilità della prerogativa regia in ambito militare e diplomatico nel medesimo torno di tempo. La Camera dei deputati del Regno di Sardegna si qualificò agli occhi dell’opinione pubblica nel decennio che precedette l’unificazione come un punto di mediazione apprezzabile tra le residue rifrangenze della mentalità tardo assolutista di un sovrano umorale e a tratti capriccioso, il quale era stato sempre educato secondo gli schemi di una concezione tradizionale del potere e le aspirazioni politiche dei liberali a parlamentizzare compiutamente il sistema costituzionale. Emblema di questo stato di cose fu la legge 23 marzo 1853, n. 1485, che riformando l’ordinamento dell’amministrazione centrale, della contabilità e del bilancio dello stato, stabilì anche le modalità di controllo della Corte dei conti, attribuendo definitivamente al parlamento la funzione ispettiva finanziaria fondandola sul riscontro di ogni singola spesa e determinando la conseguente responsabilità ministeriale.
Secondo la storiografia, il Parlamento nell’età del risorgimento era come una centrale operativa delle tendenze patriottiche pre unitarie. Ma gran parte della sua attività era di rappresentazione dei territori, e i protagonisti della sua prassi ordinaria non erano le figure più militanti ma la massa dei notabili, cioè gli elementi che in ragione della legge elettorale a suffragio ristretto per capacità e prestigio emergevano tra gli abitanti di ogni singolo collegio, ponendosi quasi naturalmente in una posizione di rappresentatività dell’ambiente locale. Il passaggio dal principio del ceto a quello del censo, che caratterizzò in modo così significativo la transizione dell’epoca della restaurazione e quella immediatamente preunitaria, fece sì che l’esercizio della rappresentanza attraverso le nuove forme parlamentarie venisse interpretato in proporzioni molto più significative che in passato da fiugure estranee all’aristocrazia dominante nel vecchio orizzonte cetuale; borghesi essenzialmente e tra questi uomini di legge e cultura. Rappresentanti delle tradizionali libertà comunali nel tempio delle nuove libertà parlamentari. Il regno di Sardegna era il più vivo da questo punto di vista, dove si era passati da una cetualità aristocratica a una nuova, più patrimoniale e professionale, non più identificata con la proprietà fondiaria. Anche dove le istituzioni della libertà moderna vennero messe a tacere il post-48 fu comunque contrassegnato dall’avvio, se non dal compimento, di un processo di legittimazione costituzionale delle componenti non aristocratiche dell’èlite che prima della rivoluzione sarebbe risultato impensabile.
Dappertutto si immaginava una riforma sulla ripartizione dei seggi. Al posto del sistema pre-48 che ne prevedeva una tripartizione a impronta cetual-fondiaria tra possidenti nobili, possidenti non nobili e civili rispettabili anche se non possidenti, si avanzò l’ipotesi di istituire una semplice bipartizione delle categorie sociali abilitate ad esprimere la propria rappresentanza nei consigli: da un lato i censiti, ossia i proprietari terrieri tutti, i commercianti, gli industriali, gli agricoltori, dall’altro i professori di scienze e arti liberali cioè i professionisti.
Un paio di anni più tardi anche nel Lombardo-Veneto, al momento del ripristino delle congregazioni centrali, che non erano state più convocate dopo il 48, il governo, dopo aver introdotto un rafforzamento del profilo istituzionale e un’estensione degli ambiti di competenza delle Camere di commercio, considerò la possibilità di promuoverne una riforma che prevedeva la modificazione del vecchio schema tripartito (rappresentanti della possidenza nobile, rappresentanti della possidenza non nobile, rappresentanti della città regie) in un’articolazione nuova, intesa a sancire l’accesso al mondo della rappresentanza regionale anche a componenti esplicitamente espresse dal mondo del commercio, dell’industria, delle professioni liberali, della chiesa, dell’università. Si pensò anche a un rigonfiamento del numero dei deputati passando da 29 a 81. la congregazione di Milano, così, avrebbe assunto le fattezze di un quasi parlamento, tanto più in ragione della differenziazione del ventaglio sociale della sua composizione. Se ne discusse nel 1852 e nel 1855 ma non se ne fece nulla.
Anche se l’Austria tentava di dare segni di apertura e modernità, il parlamento di Torino aveva superato ogni buon proposito regio.

Il parlamento municipale dell’Italia unita. Quando tra il 1859 e il 1860 il castello di carte del sistema degli antichi stati crollò, tessera dopo tessera, fu non a caso, di nuovo la carta della costituzione (congelata, sospesa o cancellata dopo il 48) quella che alcuni dei monarchi, di nuovo traballanti di fronte all’imprevista accelerazione degli eventi, provarono a giocare in extremis per salvare il proprio trono e il proprio stato. Leopoldo II in Toscana la propose non appena (27 aprile 1859) si rese conto che la situazione, in una Firenze politicamente calda dall’imminenza della seconda guerra d’indipendenza, si stava facendo insostenibile. Ma non bastò e la sera stessa si vide costretto ad abbandonare la capitale e il granducato nelle mani dei notabili liberali della regione. Francesco OO di Borbone, a sua volta nel giugno 1860, mentre la Sicilia era ormai in mano a Garibaldi, si risolse a sua volta a ripristinare la costituzione e a manifestare simultaneamente l’impegno a emanarne una speciale per l’isola. E in questo caso il tentativo fu confortato da una parvenza di successo dal momento che consentì l’avvio di un’interlocuzione tra corte e liberali, che per qualche mese rese immaginabile lo scenario di una sopravvivenza del regno delle Due Sicilie con una monarchia costituzionale.
Tra i liberali del Mezzogiorno c’era chi spingeva per la cessazione dell’indipendenza del regno e per l’annessione dei suoi territori a quelli vecchi e nuovi sotto la corona sarda. Ma la liberalità dei Savoia, con la loro costituzione il regime liberale, era controbilanciata negativamente di essere sotto a dei regnanti. Poi il Mezzogiorno era lontano da Torino, anche culturalmente e Napoli avrebbe perso il ruolo di capitale e forse non ci sarebbe stata una possibilità di efficace rappresentazione nel parlamento.
A partire dall’aprile 1859, prima in Toscana e poi nei ducati padani e a Bologna e nelle legazioni pontificie, di fronte all’evanescenza dei pubblici poteri, dappertutto il municipio si era fatto stato. E prima che i governi provvisori confluissero nello stato sabaudo si dibatté molto se questa era la cosa giusta. Le elite lombarde e toscane, ad esempio, erano convinte che le istituzioni municipali fossero più adatte del parlamento sabaudo, soprattutto per mantenere un virtuoso paternalismo nobiliare. Al momento della proclamazione del regno, nel marzo del 1861, le opzioni intorno al modello di relazione centro-periferia erano largamente aperte, e se ne continuò a discutere anche negli anni successivi, fino all’emanazione delle leggi di unificazione amministrativa dal 1865.
Insieme alla nazione prendeva forma lo stato unitario, il cui centralismo amministrativo venne ben presto criticato dalle elite politiche. Si andava contro, attraverso la statalizzazione, alla concezione territoriale che era radicata nel paese. L’ordine istituzionale preunitario era stato soppiantato dal regno risorgimentale, un elemento nuovo, un parlamento nel quale molte famiglie locali davano vita al mondo notabilare dell’Italia unita e potevano trovare un contrappeso che consentiva loro di convivere con quello stato al quale nessun regime moderno poteva rinunciare. Grazie alla presenza del parlamento che non tardò a proporsi come sede privilegiata di una quotidiana prassi di negoziazione tra periferie e centro, si poteva immaginare di guardare allo stato non più solo come una minaccia, ma come una risorsa. Il partito municipale lasciava il suo ruolo di oppositore e trovava posto nella responsabilità di governo solo in parte intaccata dalla non pienamente compiuta parlamentarizzazione del sistema costituzionale.,
La nazione sorta nel 1961 si sforzava di coniugare la possibilità di un rilancio della soggettività dei territori, in ragione di quel sistema a centralismo debole che a lungo continuò a contraddistinguere la storia costituzionale dell’Italia liberale, in tempi ormai post-cetuali, e al tempo stesso inevitabilmente statuali. Gli intenti erano diversi da quelli giacobini del 700 o dai napoleonici, che si volevano liberare dell’antico regime a favore di una cittadinanza individualistica unitaria. Le tendenze che crearono l’Italia furono estremamente contraddittorie, ma si puntò soprattutto alla convivenza.






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