Gli stati italiani prima dell’Unità
Prefazione
Negli anni successivi al
Congresso di Vienna il principe Metternich, ministro degli esteri austriaco,
inviò sul territorio italiano degli agenti che monitorassero i rapporti tra il
potere pubblico e la società. L’opinione pubblica, nel quale si sperava di
suscitare del consenso, rimpiangeva i governi napoleonici crollati tra il 1814
e il 1815. Inoltre gli agenti dovevano monitorare le carenze strutturali delle
amministrazioni insediate dai governi restaurati, visto che un loro buon
operato poteva garantire la quiete politica tra governati e governanti, non
basata esclusivamente nella repressione. Tra questi agenti figuravano Diego
Guicciardi e Antonio Mulazzani, esponenti di primo piano della classe di
governo attiva nel regno d’Italia di Eugène Beauharnais, ora investiti di
importanti funzioni amministrative rispettivamente a Milano e a Venezia, e il
toscano Tito Manzi, sotto Gioacchino Murat, influente esponente del Consiglio
di stato del regno di Napoli, al momento privo di qualsiasi impiego ufficiale.
Il coordinatore in Italia di questa missione informativa era Diego Guicciardi,
che tenne un diario delle attività segrete di quegli anni, e alla sua morte nel
1836 il figlio Enrico lo rinvenne e lo fece recapitare a Metternich. L’ex
funzionario italico, dopo aver segretamente incontrato il cancelliere
austriaco, riattivò la sua rete di contatti individuando Antonio Mulazzani,
residente in Veneto per motivi di ufficio, si sarebbe chiesto di fornire lumi
sulle condizioni dello spirito pubblico tanto nella sua regione quanto nelle
contigue porzioni settentrionali dello Stato pontificio. Guicciardi avrebbe
provveduto alla Lombardia e al regno di Sardegna. Al resto dell’Italia (ducati
padani, granducato di Toscana, principato di Lucca, parti restanti dello Stato
pontificio, il regno delle due Sicilie) avrebbe pensato Manzi che era libero di
viaggiare non ricoprendo cariche governative.
Si potrebbero considerare
Guicciardi, Mulazzani e Manzi dei voltagabbana verso uno stato che gli aveva
dato lavoro un paio di anni prima. In realtà, nei loro resoconti, erano molto
critici nei confronti dei governi austriaci, mentre la precedente
amministrazione era vista come “illuminata, ferma e rigorosa”. Manzi, in
particolare rifiutò di ricoprire il titolo di consigliere aulico nell’impero
asburgico, e si fece fare consigliere di reggenza ma in segreto, in modo da non
contraddire il suo amore per l’Italia. Infatti l’incarico venne accettato solo
per la speranza che, attraverso l’apprezzamento del suo lavoro, ci fosse un
ripensamento sul regime istituzionale che si stava profilando. Nei rapporti a
Metternich si leggeva che si dovevano conservare le istituzioni dell’età appena
trascorsa e non si doveva prestare ascolto ai tanto nostalgici dell’antico
regime, che alla caduta di Napoleone avevano rialzato la testa dopo anni di
silenzio. Manzi, in realtà nei suoi giudizi, salvava quasi solo il nuovo
governo borbonico di Napoli, perché era il più coerente erede delle innovazioni
introdotte nel regno meridionale in età napoleonica, rispetto agli altri stati
che erano affondati nell’immobilismo delle amministrazioni restaurate nel regno
di Sardegna, nel granducato di Toscana, nei ducati padani e nello Stato
pontificio, anche se il primato negativo spettava a Lucca. I Borboni, invece,
erano più efficienti, avevano mantenuto l’ordinamento murattiano nel
Mezzogiorno continentale, e nel 1818 l’avevano esteso anche in Sicilia. Concentrare
saldamente il potere nelle mani sovrane e organizzare amministrazioni
efficienti e funzionali, dare forza allo stato, sottrarne ai vecchi corpi
privilegiati, in primis alla nobiltà e al clero.
A questo punto, perché
Metternich aveva scelto Manzi, e Manzi aveva accettato? Metternich sapeva che
Manzi amava la rivoluzione, ma non credeva nella repubblica, ma nella
monarchia. Credeva inoltre che avrebbe abbracciato e seguito la causa
austriaca. Nel 1820, però, ci fu il moto di Napoli, che vide ben troppo
evidente la sua eccitazione. Nel 1922 i rapporti con gli agenti segreti
italiani di Metternich si interruppero. Ciò poté avvenire perché, come
ammetteva lo stesso Metternich, tra governo alla napoleonica e governo
austriaco poteva ben prodursi, al di sotto delle differenze superficiali,
qualche non marginale punto di contatto.
Centralità, luminosità,
efficienza dell’amministrazione: obiettivi apparentemente neutri e tutti
identici, di per sé poco idonei a suscitare passioni, slanci ideali,
ancoramenti ideologici. Eppure è nella costellazione da questi delineata che
gli informatori italiani di Metternich parevano riconoscere, agli esordi della
restaurazione, il riverbero più intenso e durevole delle aspirazioni
rivoluzionarie che avevano coltivato, in giovane età, tra la fine del ‘700 e
l’inizio dell’800, quando gli slogan che infuocavano le colonne della stampa
giacobina suonavano, piuttosto: democrazia, rigenerazione, patriottismo,
abbattimento del potere dei re e della chiesa, abolizione della nobiltà e delle
diseguaglianze, in qualche caso addirittura rivoluzione sociale.
Capitolo 1
L’ora delle repubbliche (1796-1802)
Nel 1796, quando l’esercito
franco-rivoluzionario invase l’Italia, la penisola risultava politicamente
divisa in un variegato mosaico di stati, retti certo in base a formule diverse,
ma accumunati dalla vigenza al loro interno di istituzioni e leggi rispondenti
ai valori chiave di quello che dopo la rivoluzione francese si cominciò a
chiamare “antico regime”: privilegio giuridico nobiliare ed ecclesiastico, con
godimento da parte dei componenti i due principali corpi privilegiati di
parziale o totale immunità fiscale e di foro riservato, larga autonomia dei
poteri locali rispetto a quello centrale e ai suoi rappresentanti nelle
periferie, esposizione dei semplici sudditi all’arbitrio dei pubblici poteri, tanto
quelli riconducibili direttamente all’apparato principesco, quanto quelli
espressivi di giurisdizionali alternative o complementari a quest’ultimo.
Assenza, infine, dei diritti di rappresentanza politica individuale, nella
forma che questi cominciarono abitualmente ad assumere nell’accezione diffusa a
partire dall’emanazione delle costituzioni francesi degli anni ’90 del ‘700.
I vari stati non erano privi
di costituzione, ed anzi, in essi sussistevano dei patti legislativi (o, al massimo, statuti). Al contrario del senso
di costituzione sancito dalla rivoluzione francese, cristallizzato nelle
costituzioni del 1791, 1793 e 1795, che prevedevano la sovranità popolare, le
costituzioni di antico regime non prevedevano organi parlamentari espressioni
della cittadinanza capaci di contendere il potere sovrano, rappresentato come
unitario e assoluto soprattutto in quello che diverrà il potere legislativo. Piuttosto
esse si sostanziavano della condivisione di una comune nozione di diritto,
inteso essenzialmente come tesoro di regole ricevute dalla tradizione e per
questo in linea di principio da non modificare, da parte dell’autorità sovrana
e dei corpi collettivi (aristocrazia, clero, città, in qualche caso anche
comunità rurali) cui era demandata la funzione di rappresentare il territorio,
nella misura in cui non avesse leso antiche consuetudini e tradizioni, che era
incaricato di custodire insieme ai corpi sociali, il potere sovrano era
assoluto e insindacabile. Ma al contempo era costituzione del territorio tutto
ciò che faceva parte del tradizionale ordinamento giuridico-istituzionale
locale che contribuiva a dislocare porzioni rilevanti di pubblico potere al di
fuori della sfera giurisdizionale sovrana, o nel caso delle repubbliche del
governo centrale.
Gli statuti c’erano in moltissime città del centro-nord ma anche nel
mezzogiorno. Le carte di regola
governavano le transazioni quotidiane interne di molte comunità montane.
C’erano inoltre gli statuti delle arti
(corporazioni) per cui si esercitavano discipline di lavoro artigianale e
manifatturiero, così come quelli che regolavano l’attività dei collegi
professionali e delle università. Erano costituzioni anche (nel mezzogiorno e
nei domini sabaudi, Friuli veneziano e stato della chiesa) le giurisdizioni feudali laiche ed
ecclesiastiche, al cui interno ogni individuo risultava suddito di un
signore locale, ancor prima del proprio sovrano. Poi c’erano le istituzioni collegiali che con vario
nome (parlamenti, congregazioni, consigli, senati) rappresentavano in forma
gerarchica e corporata il territorio, contribuendo al ricco pluralismo
istituzionale dell’antico regime. Un pluralismo che rendeva difficile la secca
equazione tra potere pubblico e stato sovrano. In baso a tutti questi poteri lo
stato andava pensato in molti rami distinti, e non come unico tronco con delle
derivazioni.
Il riformismo settecentesco e i suoi
limiti. Prima
dell’invasione franco-rivoluzionaria gli equilibri tra governo e giurisdizione
si erano incrinati. A partire dagli anni ’40 il dibattito si concentra sulla
riformulazione delle istituzioni, anche se un cambiamento si era dato solo in
Lombardia e in Toscana negli anni 70-80, due regioni governate dagli Asburgo,
una come periferia meridionale dell’impero, l’altra come granducato indipendente,
confluito nel patrimonio della casata grazie al matrimonio tra gli Asburgo e i
Lorena. Altrove (Venezia, Genova, Lucca, Stato pontificio) ci si era arenati
alle intenzioni, mentre in altri casi, come in quello sabaudo per quanto
riguarda la porzione continentale dei domini dei Savoia, esclusa la Sardegna,
si era operato senza clamore, con efficacia dagli anni ’30. nel regno di Napoli
e Sicilia ci fu un esito deludente di molti dibattiti sulla questione.
Negli anni ’80, mentre
Giuseppe II d’Asburgo lanciava in Lombardia uno degli attacchi più virulenti
mai concepiti nell’Europa dell’antico regime al mondo delle autonomie
corporate, e mentre suo fratello Pietro Leopoldo, granduca di Toscana,
delineava a sua volta un progetto di costituzione nel quale si potevano
osservare riverberi evidenti di una visione della società ormai disancorata dai
vecchi ceppi cetuali, per poi promulgare, qualche annoi più tardi, una riforma
del diritto penale finalizzata a fornire agli individui garanzie di fronte alla
legge completamente sconosciute alla cultura e alla prassi giudiziaria sin lì
corrente,m nel resto degli stati italiani lo slancio riformatore, nella misura
in cui se ne era dato uno, ovvero, essenzialmente, nell’ambito delle relazioni
tra stato e chiesa, al fine di contenere le prerogative di quest’ultima,
mostrava di segnare ormai il passo. La giurisdizione cetual-territoriale stava,
cioè, riprendendo il sopravvento sul governo, una tendenza che sui sarebbe
rafforzata nei primi anni ’90, estendendosi alla Lombardia e alla Toscana,
dove, negli anni precedenti all’arrivo dei francesi, si sarebbe assistito alla
revoca di molte delle innovazioni imposte dai due figli di Maria Teresa, e al
ritorno allo status quo ante.
In Francia, negli anni ’90,
gli eventi avevano preso una svolta quando le prime fasi rivoluzionarie si
erano diradate per cedere il passo alle nuove carte costituzionali, la seconda
delle quali, insieme al tradizionale ruolo di con titolarità del pubblico,
potere prima dei corpi privilegiati, cancellò tout court l’istituto stesso
della monarchia, individuando nella cittadinanza nazionale, inedito soggetto
composto da una miriade di individui giuridicamente uguali, la fonte unica di
una giurisdizione unica, quella statale, la costituzione dell’anno III scalzava
i re dal prono, consacrando la trasformazione del paese in una repubblica.
Nascita e morte delle repubbliche
sorelle. Quando tra
il 1796 e il 1799 le armate franco-rivoluzionarie dilagarono nella penisola
spodestando i sovrani e instaurando le repubbliche “sorelle” di quella
francese, confluirono ad appoggio del nuovo ordine anche le élite tradizionali,
l’aristocrazia, che si riconosceva nell’ala moderata pur con il rischio di
perdere i suoi privilegi, ma cercando di trarre vantaggio da questo innovativo
assetto.
La repubblicanizzazione della
penisola iniziò nel dicembre del 1796 quando l’esercito di Bonaparte da qualche
mese si era impadronito dell’Italia settentrionale. I filo francesi di Modena,
Reggio Emilia, Bologna e Ferrara proclamarono la Repubblica Cispadana.
Ø
Nel 1797 Bergamo,
Brescia e Crema recisero il legame con Venezia, che nella pace di Campoformio
aveva consegnato i suoi territori fino al Mincio all’Austria fino al 1805, e
divennero repubbliche indipendenti.
Ø
A maggio venne
istituita, con i territori dell’ex Lombardia austriaca e con quelli cispadani
di Reggio, Modena, Massa e Garfagnana, la Repubblica Cisalpina, mentre la
Romagna entrava nella Cispadana.
Ø
Il 6 giugno
prendeva forma la Repubblica ligure democratica, sovrana sugli stessi territori
sui quali, pure in forma repubblicana, aveva governato sino all’arrivo dei
francesi il patriziato di Genova.
Ø
Negli ultimi
giorni di luglio la Cispadana confluì intera nella Cisalpina e divenne un vasto
stato esteso dalle Alpi al mare, comprensivo dei territori dell’ex Veneto
occidentale (Bergamo, Brescia, Crema) scampati alla soggezione all’Austria
sancita dal trattato di Campoformio per il resto delle città già suddite della
Serenissima.
Ø
Dopo qualche mese
una nuova ondata repubblicana si riversò al centro-sud.
Ø
A novembre fu
Ancona a costituirsi in repubblica indipendente e a staccarsui da ciò che
restava dello Stato della chiesa.
Ø
Tre mesi più
tardi, il 15 febbraio 1798, con il pontefice in fuga venne proclamata la
Repubblica romana, assalita qualche mese più tardi dal re di Napoli Ferdinando
IV di Borbone, che dopo aver espugnato Roma a fine novembre nne venne
ricacciato dall’esercito francese.
Ø
L’esercità
francese non si arrestò e il generale Championnet fece marciare i suoi uomini
verso sud travolgendo la resistenza borbonica. Nel gennaio 1799 i francesi
entrarono a Napoli abbandonata da un mese dal sovrano e proclamata dai patrioti
napoletani repubblica contestualmente all’iungresso delle truppe transalpine.
Ø
Nel mentre anche
Lucca, occupata a sua volta dai francesi, da repubblica aristocratica venne
trasformata in repubblica democratica.
Nel giro di due anni e mezzo,
sotto la spinta francese, gli stati italiani sperimentarono la
repubblicanizzazione rivoluzionaria e la riscrittura dei confini.
Il triennio antidispotico. Il triennio rivoluzionario introdusse alcune
innovazioni di base nel sistema politico. Davanti alla provvisoria caduta dei
sovrani si assistette anche all’affluenza dei nobili nella corrente
repubblicana, nonostante l’abolizione del mondo del privilegio corporato, per
una cittadinanza unitaria e nuova. Questo perché le repubbliche sorelle avevano
abolito il potere assoluto dei sovrani contro cui i nobili si erano scagliati
per tutto oil secondo ‘700. ora brillava una giurisdizione intesa come
partecipazione della cittadinanza egualitaria alla titolarità del pubblico
potere, che si esprimeva in forme diverse da quelle tradizionali ma si chiamava
Costituzione, come nell’antico regime.
L’avversione al dispotismo
unì l’aristocrazia più aperta e disinibita (partito moderato) e i patrioti
(professionisti e intellettuali) che si erano schierati dalla parte della
rivoluzione. I nobili credevano di realizzare delle repubbliche aristocratiche,
come a Venezia, Genova e Lucca, cosa che non potevano fare con i sovrani. Erano
pronti ad accantonare i loro privilegi di status in cambio della partecipazione
attiva e determinante al pubblico potere ad essa offerta da una costituzione
che selezionava rigidamente in base al censo il corpo elettorale.
All’interno del partito
democratico che fronteggiava nelle repubbliche sorelle quello moderato e nel
quale, accanto a esponenti della borghesia professionistica militavano come
singoli anche aristocratici, la nuova costituzione introdotta dai francesi
veniva vista come partenzaa per sviluppi partecipativi o per più vaste aperture
sociali che avrebbero arricchito la cittadinanza civile sancita dalle carte con
una cittadinanza politica più larga di quella tutta vestita di panni
proprietari, nei quali i nobili più lungimiranti non facevano fatica a
identificare i propri.
Le costituzioni rivoluzionarie. La prima costituzione rivoluzionaria italiana fu
quella bolognese nell’ottobre del 1796. nell’aprile del 1977 ci fu la
presentazione di quella napoletana. Il travaso tra costituzionalismo antico e
quello moderno si esplicitava nell’adesione alle linee generali della costituzione
francese dell’anno III.
La libertà, l’uguaglianza, la
sovranità popolare, la sicurezza, la proprietà, le garanzie relative all’arresto
e alla detenzione, il principio di stretta legalità, la proporzione delle pene.
Questo era il preambolo delle carte costituzionali, che rispecchiava la
rivoluzione. Nelle costituzioni ligure e cispadana il principio di piena
equiparazione dei culti veniva sostituito dalla preminenza cattolica. Era
l’enunciazione dei diritti del cittadino, un nuovo soggetto giuridico
fuoriuscito dalla disgregazione dell’antico regime.
Un altro punto delle carte
costituzionali era la separazione tra la funzione legislativa, esecutiva e
giudiziaria, con la teorica prevalenza gerarchica della prima,
cristallizzazione istituzionale figurata della sovranità popolare – sulla
seconda, i cui componenti venivano da questa nominati, e con la piena
indipendenza della terza, affidata a magistrati in parte eletti direttamente
dalla popolazione, in parte ai livelli superiori, designati dal corpo
legislativo.
Il corpo legislativo era
diviso in due Camere elettive, ad una delle quali (Camera bassa) era affidato
il compito di proporre leggi, all’altra (quella alta) di approvarle o
respingerle. Ma, e qui si vede la distanza tanto dalle costituzioni italiane
del triennio quanto dal loro arcitesto, la costituzione francese dell’anno III,
rispetto alla costituzione popolare del 1793 si rivelava evidente, - il diritto
elettorale vi risultava delineato a vantaggio dei ceti proprietari.
Laddove la cittadinanza
civile delle repubbliche sorelle era larga, quindi con diritti e doveri uguali
di fronte alla legge, quella politica era stretta e selettiva. Al voto primario
erano ammessi tutti i contribuenti maschi adulti, che non era l’insieme della
popolazione adulta, visto che c’erano moltissimi nullatenenti, e questi si
delimitavano a designare un altro corpo elettorale investito del secondo grado
delle elezioni, quello da cui scaturiva la nomina di deputati. Per entrare in
questo corpo venivano richiesti requisiti di ceto, età e capacità, per
escludere gli strati inferiori della popolazione, assicurando la preminenza dei
ceti medi e alti.
Il soggetto politico delle
costituzioni repubblicane di fine Settecento era, in altre parole,
rappresentato, dai proprietari e lo scopo principale del patto sociale era la
difesa di una qualità, la proprietà privata, socialmente poco distribuita, e
anzi tutta concentrata all’interno di un ristretto strato di borghesi e di ex
nobili.
L’illusione elettorale. Tanto a Milano, quanto a Roma e a Napoli, l’onda
d’urto impressa dall’esercito francese, con l’appoggio di qualche settore della
società locale, tra il 1796 e il 1799 aveva messo in fuga le teste coronate e
consegnato teoricamente attraverso le carte costituzionali il potere alla
cittadinanza; una cittadinanza stretta e socialmente selezionata, al punto da
offrirsi come sponda d’approdo accettabile anche per le antiche élite cetuali.
Sui troni abbandonati dai re il potere non era tenuto dai rappresentanti della
sovranità popolare, bensì dei capi dell’esercito occupante, la cui principale
preoccupazione era quella di istituire esecutivi disinceppati dal sindacato del
legislativo e viceversa saldamente assoggettati al loro personale controllo. Le
elezioni, per il cui espletamento ogni carta costituzionale prevedeva la
convocazione di una serie successiva di assemblee ai vari livelli della
ripartizione politico-amministrativa del territorio, ciascuna chiamata a
designare i partecipanti a quella corrispettiva all’altezza dell’unità
amministrativa superiore, così da giungere, in capo a un complesso e
farraginoso meccanismo indiretto a due o anche a tre gradi, alla selezione dei
membri delle due Camere, in alcune delle repubbliche del triennio almeno una
volta in effetti si tennero (Repubblica cispadana e ligure). In altre, invece,
rimasero puramente allo stadio di progetto, vuoi per la durata effimera del
contesto politico per il quale erano state concepite (la repubblica democratica
di Lucca e la napoletana durarono appena pochi mesi, quella romana poco più di
un anno), vuoi per l’indisponibilità delle forze militari d’occupazione a
tollerare il consolidamento istituzionale di un potere legislativo in grado di
sindacarne le disposizioni, non di rado duramente vessatorie nei confronti
delle finanze delle repubbliche ospitanti. Il vero soggetto
politico-istituzionale delle repubbliche sorelle fu, semmai, l’organo collegiale
(in Francia chiamato direttorio) titolare del potere esecutivo, insediato nelle
capitali e dotato di una rete di agenti periferici che nella Cisalpina erano
denominati commissari del potere esecutivo e che reggevano un ufficio insediato
nei capoluoghi di dipartimento (cioè di provincia): ma il fatto è che
l’istituto direttoriale risultò quasi completamente impermeabile al controllo e
alla pressione del corpo legislativo, anche là dove se ne formò uno.
Il caso della Repubblica
cisalpina, che ebbe una durata lunga (maggio 1797 – aprile 1799) e la sua
estensione territoriale, dimostra un legame privilegiato e obbligante, per cui
l’esecutivo venisse intrattenuto dai generali che si alternavano al comando
delle truppe francesi di occupazione e con gli ambasciatori francesi di turno a
Milano, che in più di una occasione ne modificarono di imperio composizione e
orientamenti, attuando frequenti colpi di stato, finalizzati alla formazione di
governi docili alle loro sollecitazioni.
Cittadinanza politica e cittadinanza
civile. Il tema
della cittadinanza politica venne dibattuto, ma il suo contenuto stentò a
trovare concreta applicazione. La virulenza del dibattito, dello scontro tra i
democratici, fautori di una cittadinanza politica larga, e i moderati, i quali,
in linea di continuità con l’esclusivismo di antico regime, tendevano piuttosto
a leggerla nel senso di una giurisdizione adattata al mondo nuovo e al tempo
stesso potenziata nella sua efficacia pratica, fu inversamente proporzionale
alla virtuale attualità del problema, in repubbliche nelle quali il governo, longa manus dei militari, mostrò di
godere nei confronti della popolazione di una insindacabilità e di una libertà
di manovra mai conosciuta in precedenza.
Gli abitanti delle
repubbliche sorelle in gran parte non ebbero modo di conoscere i riti
democratici della partecipazione al potere, ovvero di godere di una piena
cittadinanza politica. Non di meno, lo smantellamento dell’antico ordine
cetuale comportò l’addensarsi di un tessuto di relazioni totalmente inedito tra
l’individui e il potere politico: quello definito dall’istituto della
cittadinanza civile, di cui quella politica cominciò allora ad essere
considerata come un corollario possibile e auspicabile, ma non indispensabile.
La pervasiva centralità del potere esecutivo, i cui sviluppo nell’esperienza
politica delle repubbliche rivoluzionarie offrivano quotidiana testimonianza,
riposava sul presupposto congiunto dell’eguaglianza politica delle repubbliche
rivoluzionarie offrivano quotidiana testimonianza, riposava sul presupposto
congiunto dell’eguaglianza giuridica degli abitanti, elevati al rango di
cittadini, e dell’esercizio monopolistico del pubblico potere da parte dello
stato in virtù di una formazione generale resa simultaneamente vigente senza
eccezioni, sull’intera superficie territoriale.
Contestualmente
all’abolizione dei privilegi del clero e della nobiltà, quest’ultima
nell’abolizione tout court dell’istituto, si era arrivati alla cancellazione di
qualsiasi giurisdizione (feudale, ecclesiastica, corporata, cittadina)
alternativa (o complementare) a quella statale. Liberando la nuova cittadinanza
dai vecchi reticolati gerarchico-cetuali e trasformando la popolazione in un
insieme di privati giuridicamente tutti eguali (e tutti egualmente impermeabili
a qualsiasi giurisdizione particolare), lo stato aveva così in primo luogo
liberato se stesso, assumendosi l’esclusiva dell’esercizio del pubblico potere.
Poi ha provveduto a riorganizzare il territorio a misura delle proprie
esigenze, sovrapponendovi le maglie di un’amministrazione unitaria e centripeta
nella quale ciascun cittadino riconosceva ora necessariamente il proprio
esclusivo interlocutore istituzionale.
Da sudditi ad amministrati. Più che nell’esercizio tutto virtuale di diritti politici,
la nuova condizione di cittadino si misurava dunque in realtà già in quegli
anni, durante i quali, pure, l’affermazione di principi come la libertà di
culto, di pensiero, di stampa, di associazione suonava come un’epifania di
straordinaria valenza simbolica, nella fruizione uniforme e paritaria della
condizione di amministrato. Si trattava di una condizione il cui inveramento
aveva reso necessario il preventivo e tutt’altro che pacifico azzeramento della
varia geografia giurisdizionale preesistente. Come si tentò di fare a Napoli
per poi tornare subito indietro, trasferendo di colpo lo schem,a
dell’amministrazione centralistica franco rivoluzionaria, costruito in base ai
colpi di compasso che di segnava la trama geometrica dei dipartimenti e dei cantoni,
a un territorio tradizionalmente frastagliato in una pluralità di giurisdizioni
in parte parallele e in parte sovrapposte, a ciascuna delle quali corrispondeva
un ambito spaziale sotto molti aspetti autonomo rispetto all’insieme dei nessi
circostanti. I molti nomi della tradizione corrispondevano a un pluralismo di
poteri, a una varietà giurisdizionale, a una frammentazione dello spazio
giuridico-istituzuonale, a una frammentazione dello spazio
giuridico-istituzionale , oltre che territoriale, che lo stato della
cittadinanza egualitaria, lo stato cioè degli amministratori e degli
amministrati, non poteva lasciar sopravvivere, pena l’ineffettualità delle
proprie funzioni.
Uomini nuovi per strutture nuove. Alla nuova società degli individui privati, uscita
dall’abolizione dei poteri corporati e insediata in un territorio non più
suscettibile di dotarsi di una pellicola giurisdizionale autonoma rispetto a
quella statale, corrispondeva ora uno stato munito del monopolio istituzionale
e animato dal proposito di porsi in diretta relazione con tutti i cittadini
indistintamente. Per farlo, e per rendere a questi ultimi possibile di
ripercorrere a loro volta allo stato in forma diretta, la struttura del governo
doveva necessariamente distendersi sul territorio attraverso una trama
uniforme, facendo corrispondere al gioco di scatole cinesi del ritaglio
amministrativo (il dipartimento, il cantone, il comune) una rete di uffici
agevolmente riannodabile al centro e idonea tanto a controllare la galassia dei
privati quanto a proporsi ad essa come il naturale referente per le loro
esigenze. Mentre i tradizionali poteri locali flettevano (tanto le
giurisdizioni feudali ed ecclesiastiche, prevalenti nel Mezzogiorno, quanto gli
autogoverni patrizio-cittadini più diffusi nell’Italia centro-settentrionale) e
mentre gli istituti di partecipazione democratica al potere formalmente
previsti dalle carte costituzionali stentavano a diventare realtà, a imporsi
dunque era l’amministrazione dello stato, con la sua trama di dipartimenti e di
cantoni, riverbero istituzionale della nuova geometria dell’eguaglianza civile.
Ma la crescita dell’amministrazione non era, a sua volta, fenomeno che non
incidesse a fondo nella struttura della società, modificandone bruscamente le
gerarchie di deferenza e di status. Al
contrario,m già negli anni rivoluzionari essa si tradusse nell’approdo ai
vertici del potere civile di un’onda di uomini nuovi in genere tanto
appassionatamente schierati a favore del nuovo ordine quanto irrimediabilmente
eccentrici e marginali all’interno della stratificazione sociale di antico
regime. Amministrazione ed esercito: furono questi, molto più che balbettanti
corpi legislativi, i luoghi nei quali parole come eguaglianza e libertà
cominciarono ad assumere, tra il 1796 e il 1799 un significato concreto e al
tempo stesso a dispiegare un effetto sovversivo nei confronti delle
tradizionali gerarchie sociali.
Bonaparte aveva parlato di
“carriera aperta ai talenti”, ovvero cariche non più solo per un certo ceto, ma
che si costituivano sulla base dell’uguaglianza. Ma questo pensiero era
destinato a conoscere fortuna, al punto da compensare agli occhi di tutta una
generazione di militanti filo francesi di fine ‘700 la delusione patita del
piano della mancata attuazione della democrazia partecipativa siamo all’interno
delle repubbliche sorelle, sia nell’ambito delle successive esperienze
istituzionali franco napoleoniche.
La reazione del 1799. A partire dal ’99 l’effimero sistema delle repubbliche
sorelle cominciò a crollare in ogni parte d’Italia, non solo a causa delle
vittorie militari austro russe, ma anche sull’onda di una serie di insurrezioni
popolari che investirono quasi ogni lembo della penisola, offrendo palmare
dimostrazione del fatto che il repubblicanesimo nuovo caratteristico del
triennio di fine ‘700 non era riuscito a mettere radici presso la stragrande
maggioranza della popolazione, sia aristocrazia che masse popolari-rurali. I
popolani mostrarono una netta, anche se non esclusiva, propensione per l’ordine
antico e per la tradizione, e in nome di questa non esistarono a massacrare chi
s’era schierato dalla parte dei francesi, inseguendo un sogno di partecipazione
paritaria al potere, che le varie vicissitudini del trienniuo s’erano via via
incaricate di convertire nella quasi costante umiliazione del giogo militare,
prima di sfociare nell’epilogo tragico della reazione.
Serpeggianti per tutto il
triennio, dalla primavera del 1799 in avanti, le insorgenze antigiacobine si
fecero generalizzate e ad esse si accompagnò l’avanzata degli eserciti della
coalizione francese. Alla fine di aprile le truppe transalpine furono costrette
ad abbandonare la Lombardia e il governo cisalpino le seguì in Francia. Pochi
giorni più tardi aveva inizio l’insorgenza antifrancese in Toscana; ancora
qualche settimana e i russi, scortati a loro volta da bande di insorgenti,
entravano a Torino. A metà giugno cadde Napoli, alla fine di settembre Roma. La
presenza francese nella penisola si limitava, dunque, alla sola città di
Genova, dove a dicembre venne comunque sciolto il governo repubblicano
costituzionale sostituito con una commissione esecutiva d’emergenza. La
reazione avrebbe poi avuto durata e modalità assai diverse a seconda delle
aree.
La Milano capitale della
prima Repubblica cisalpina, per esempio, era destinata ad essere ripresa dai
francesi già nel giugno del 1800 e a divenire capitale di una seconda
Repubblica cisalpina. Di lì in avanti sarebbe rimasta sotto la diretta
influenza napoleonica fino al 1814, come capitale di un vasto stato che dal
1802 al 1805 si chiamò Repubblica italiana e dal 1805 al 1814, mutata forma
istituzionale, Regno italico, e che venne via via ingrandendosi, inglobando il
Veneto, l’Istria, la Dalmazia (dicembre 1805), le Marche (1808) e il Trentino
(1810).
Il Mezzogiorno continentale,
viceversa, rientrò nell’orbita francese solo nel 1806, quando Giuseppe
Bonaparte, fratello di Napoleone, assunse la corona delle Due Sicilie. Il resto
d’Italia, infine, fu riacquisito in ordine sparso all’egemonia napoleonica. Già
nel 1801 Piemonte e Liguria, l’anno dopo Lucca, Parma e Piacenza, la Toscana,
solo nel 1809 ciò che ancora restava dello Stato pontificio, cioè l’Umbria e il
Lazio. Tutti questi territori in capo al 1809 furono poi annessi, anche se in
date diverse, direttamente all’impero francese.
La reazione del 1799: il caso di Milano. Dato per assodato che alla fine del 1809, con
l’eccezione della Sardegna e della Sicilia (rispettivamente con le corti
sabauda e borbonica), la penisola italiana risultava di nuovo tutta, in forma
diretta o indiretta, soggetta all’egemonia franco napoleonica. A Milano il
ritorno all’antico regime durò solo qualche mese e delinearne le
caratteristiche significa in realtà puntare il dito più su ciò che l’esperienza
del triennio precedente venne rimosso e abolito che su quanto del vecchio
disegno politico-istituzionale tornò a mettere solide radici. L’amministrazione
provvisoria che resse tra il 1799 e il 1800 la Lombardia, diretta dal conte
mantovano Luigi Cocastelli, commissario imperiale, si preoccupò in primo luogo
di abolire le principali innovazioni giuridiche introdotte nella prima
Cisalpina. In quei mesi di interregno tra la caduta di questa e la
formalizzazione della sua seconda fase rientrarono dunque in vigore le
distinzioni e i privilegi connessi alla nascita (nobiliare) o al rango
(clericale) così come essi si configuravano alla data del 1796. la moderna
nozione di cittadinanza, con i suoi corollari in termini di libertà di
pensiero, di culto, di stampa, di associazione, fu rimpiazzata da quella
tradizionale di sudditanza e dalla contestuale riconsegna al pubblico potere
dell’assoluta discrezionalità intorno a tali materie. La costituzione fu
abolita e vennero smantellati tutti gli organi nei quali essa s’era venuta
cristallizzando nel triennio precedente (Corpo legislativo, Direttorio). Questa
fu la reazione del ’99 in Lombardia. A ciò si accompagnò la persecuzione
personale di quanti, tra coloro che maggiormente s’erano esposti negli anni
precedenti in senso filo francese, non avevano scelto di seguire l’esercito
della repubblica madre nella ritirata in Francia.
Nel ’99 il peso
dell’aristocrazia negli uffici civici [tornò] preponderante ovunque. Ci fu
inoltre una ripresa di visibilità dell’aristocrazia tradizionalista, fosse di per
sé la ricostruzione di forme di governo locale dotate di robusta autonomia
rispetto al centro, oltre che riammantate di un’impronta cetuale.
Il ritorno all’antico, se per
un verso finì per confondersi essenzialmente anch’esso con la stessa vessatoria
prepotenza dei militari (questa volta gli austro-russi) che aveva tormentato la
storia del triennio precedente, per l’altro esaurì la propria spinta nel
volgere di pochi mesi; distrusse sistematicamente l’esistente senza avere il
tempo di convertirsi da dimensione provvisoria a progetto istituzionale dai
tratti davvero riconoscibili; come potesse concretamente articolarsi la
rinascita dell’antico regime che molti si erano da esso attesi restò allora
questione sostanzialmente impregiudicata.
La reazione del 1799: il caso di Napoli. Tutt’altro lo scenario a Napoli. Qui, infatti, sebbene
la coppia sovrana solo nel 1802 si decidesse a lasciare definitivamente Palermo
per fare ritorno nella capitale, rea di essersi convertita in repubblica
democratica nel 1799, la cosiddetta prima restaurazione si dispiegò lungo
l’arco di oltre sei anni e fu inaugurata da un bagno di sangue che rese subito
ferocemente evidente il senso del ritorno all’antico. Quella del monarca fu una
furia calcolata, che diede disposizione di disconoscere gli accordi di
capitolazione stipulati tra governo repubblicano e gli assedianti. Ferdinando
IV intonò decisamente al colore della tirannide – una tirannide resa evidente
già dalle modalità totalmente arbitrarie dei processi che decretarono lo sterminio
dei vertici e dei quadri intermedi del ceto politico della repubblica, il suo
stile di governo nel regno riconquistato.
A Napoli la rivoluzione
giacobina l’aveva fatta il fiore dell’intellettualità civile locale di fine
‘700, ma anche una folta schiera di gioventù aristocratica. Questo venne visto
dalla corona come l’ennesimo tentativo oligarchico della nobiltà contro
l’assolutismo regio. Ne ricavava così l’indicazione di attuare una politica
assolutistica che intendeva colpire a fondo il potere nobiliare nella Capitale
e nelle province, ordinando, lo stesso giorno in cui deliberava l’annullamento
delle capitolazioni, la nomina della giunta incaricata di punire i delitti di
lesa maestà e la remissione dei crimini commessi dai lazzari nei giorni di vuoto
di potere, anche l’abolizione dei Sedili e dei loro antichi diritti e
privilegi, ovvero la formale dissoluzione del corpo civico a preponderanza
patrizia che per secoli aveva esercitato la giurisdizione cittadina in
condizioni di relativa autonomia rispetto ai poteri direttamente promananti
della corona.
All’attacco diretto contro la
giurisdizione nobiliare cittadina, cui si accompagnò, negli anni seguenti uno
sforzo costante di mortificazione e di tacitamento del mondo
dell’intellettualità e della cultura, l’altro grande reo, agli occhi del
monarca, del tradimento del 1799, non fece però riscontro una analoga stretta
di vite nei confronti di quelle giurisdizioni feudali che, con la loro
sterminata superficie, distesa in tutta la massa continentale del regno, oltre
che naturalmente in Sicilia, rappresentavano in realtà il maggiore ostacolo a
che fosse una l’autorità nello stato, quella che viene dal trono.
Al di fuori dello spazio
della capitale, in realtà i rivoluzionari del ’99 avevano potuto fare ben poco
per riorganizzare il territorio in ragione dello schema “alla francese” per il
semplice motivo che una parte consistente di questo non era mai davvero caduto
sotto il controllo, o se ne era presto emancipato attraverso le insorgenze. E
si è visto, come il decreto che disponeva la divisione dello stato in
dipartimenti e cantoni, presupposto per l’avocazione al governo centrale del
monopolio della giurisdizione e per l’avvicinamento del cittadino al pubblico
potere, fosse stato quasi immediatamente ritirato anche là dove si era cercato
di renderlo operativo. La restaurazione comportò il ritorno al vecchio sistema
di governo, basato sulla giurisdizione congiunta delle corti di giustizia
feudali e della burocrazia regia, organizzata a livello di provincia
nell’istituto dell’udienza e sulla vorace supervisione effettuata dai grandi
tribunali della capitale, terreno privilegiato di coltura del corpo togato,
titolare della suprema istanza di un potere che volentieri si auto raffigurava
come arcano e inavvicinabile. Colpire la feudalità avrebbe significato
attaccare contestualmente anche la chiesa (si ricordi che una porzione
rilevantissima delle terre feudali del Mezzogiorno erano ecclesiastiche) nella
cui cooperazione venivano dalla corte riposte le massime aspettative ai fini
del ristabilimento di un atteggiamento di generale disponibilità alla sudditanza
e all’obbedienza da parte della popolazione.
Ancora l’antico regime. Si tornò, dunque, alla situazione anteriore al breve
esperimento repubblicano, contraddistinta, dalla condivisione della sovranità a
livello periferico, tra giurisdizioni feudali e tribunali regi provinciali.
Insieme ad essa si ripropose quel rapporto sbilanciato tra centro e periferie
che si esplicitava nella concentrazione a Napoli delle supreme istanze
giurisdizionali, prima tra tutte la Camera della sommaria, nelle quali il corpo
civile dell’antico regime nel Mezzogiorno, quello dei togati, aveva
tradizionalmente individuato il palcoscenico idoneo per proporsi anch’esso ad
attivo compartecipe dell’ordinamento cetuale del regno. Togati e feudatari
erano tasselli interdipendenti dello stesso mosaico, di un pubblico potere,
cioè configurato in termini non solo di sovranità divisa in plurime sovranità
parallele, ma anche e soprattutto di sistema squisitamente giudiziale,
contraddistinto dalla consegna a onnipotenti e arbitrarie corti collegiali
cetuali dei destini e delle fortune dei semplici sudditi, con esse obbligate a
ingaggiare un impari confronto ogni qual volta si materializzava davanti ai
loro occhi la pubblica autorità. La restaurazione parve così offrire nel suo
insieme una sorta di caricatura estrema dell’instabile equilibrio tra cetualità
e potere regio, che era inscritto nella natura fondativa dell’antico regime. Da
un lato, infatti, si assistette nelle materie più squisitamente politiche
(processi politici, abolizione dei Sedili di Napoli), al virtuale approdo della
corona a quella modalità di esercizio del potere che a fine ‘700 veniva
stigmatizzata da chi la avversava come dispotismo o tirannide e al consolidarsi
di una legittimazione soprattutto sacrale religiosa attorno ad essa. Dall’altro
ci si trovò davanti alla ripresa vigorosa di un potere cetuale, feudale e
togato al tempo stesso, del quale, nel dubbio irrisolvibile se considerarlo
nocivo o utile alla Monarchia, un consigliere del re, suggeriva di smorzare
pragmaticamente l’invadenza, contenendone gli abusi, piuttosto che
contestandoli radicalmente.
A farsi portatori di una
simile visione, tesa a conservare in vita quel sistema obliquo di mediazioni e
patteggiamenti cui lo sfortunato decreto repubblicano sull’articolazione
territoriale in dipartimenti e cantoni aveva vanamente cercato di contrapporre
la lineare verticalità di un rapporto diretto tra amministrazione e amministrati,
fossero proprio gli esponenti di quel cero dei togati che nella sussistenza dei
feudi vedeva la ragion d’essere delle sue stesse prerogative. Giustizia contro
amministrazione,, era il fulcro centrale della stagione che Napoleone aprì nel
1800 con il suo ritorno in Italia e con la sua opera di graduale omologazione
dell’intero territorio della penisola alla legislazione francese
post-rivoluzionaria.
Capitolo secondo
L’ascesa dell’esecutivo (1802-1815)
Le pratiche dell’obbedienza. Il passaggio dalla “repubblica” alla signoria, dalle
pratiche di libertà a quelle opposte della obbedienza, il 18 brumaio, quando
con un colpo di stato, forte dei successi riportati in Egitto, Napoleone
Bonaparte, facendo leva sull’enorme prestigio che s’era guadagnato sui campi di
battaglia, s’era imposto a nuovo ago della bilancia di una Francia ormai sempre
più lontana dal fervore democratico degli anni roventi della rivoluzione e, al
tempo stesso, sempre più propensa ad affidare a una forte autorità governativa
la salvaguardia di almeno alcune tra le innovazioni introdotte nel paese dal
1789 in poi- pochi mesi dopo aver assunto, ormai da solo, il potere in
Franmcia, Bonaparte guidava nuovamente i suoi eserciti al di là delle Alpi,
infliggendo agli austriaci nel giugno 1800 a Marengo la sconfitta che gli
consentiva, nei mesi seguenti, di impadronirsi di vaste porzioni dell’Italia
settentrionale. . la cosiddetta seconda Repubblica cisalpina, arricchita di
porzioni del territorio novarese, dell’intera provincia veronese e del
polesine, nacque ufficialmente nel giugno 1800 e venne provvisoriamente
affidata dal generale corso a una commissione di nove membri che l’avrebbe
retta fino all’inizio del 1802. nel frattempo, mentre vaste parti del
territorio piemontese e l’ex ducato di Parma e Piacenza passavano direttamente
alla Francia, alla repubblica di Lucca e alla Liguria, veniva riattribuita una
costituzione repubblicana di stampo francese, ricalcata sul modello di quella
consolare entrata in vigore a Parigi in coincidenza con la presa di potere di
Napoleone. La seconda fase repubblicana del dominio napoleonico nella penisola
durò fino al 1805, un po’ più a lungo dunque, che in Francia dove già il 18
maggio 1804 Bonaparte aveva imposto la rinascita dell’istituto monarchico trasformando
la repubblica in impero ereditario. Già all’inizio del 1802, tuttavia, la
Repubblica cisalpina, la più importante delle tre presenti nella penisola negli
anni immediatamente successivi al ritorno in Italia di Bonaparte dopo la
reazione del ’99, aveva conosciuto una svolta importante. In seguito ai Comizi
di Lione, infatti, essa era stata ribattezzata Repubblica italiana e dotata di
una costituzione nella quale si coglieva nitido il segno di quella spinta verso
la formalizzazione verticistica e autoritaria del pubblico potere, di cui
l’ascesa di Napoleone al consolato era stata segnale premonitore.
Le istituzioni della Repubblica italiana. Se con la definizione di repubblica si vuole indicare
(come avevano inteso i giacobini italiani durante il triennio e prima di loro i
rivoluzionari transalpini) un sistema istituzionale basato su una attiva
partecipazione democratica dei cittadini al potere, per quella italiana
istituita nel 1802 suonerebbe più calzante il nome di monarchia, pervasa dalle
pratiche dell’obbedienza. Le stesse introdotte in Francia alla fine del 1799.
fattele adattare alla situazione italiana e sottopostele per una forzosa
approvazione ad una assemblea di notabili cisalpini scelti di propria
iniziativa e convocati a Lione nel gennaio 1802, Bonaparte le aveva rese carta
costituzionale della nuova repubblica, di cui si era autonominato presidente,
affidando la carica di vicepresidente a Francesco Melzi, quando, all’epoca
della prima Cisalpina, era impegnato a convincere almeno una parte del mondo
aristocratico dal quale proveniva che l’adattamento alle novità di Francia
poteva risultare per gli ex sangue blu più proficuo di un nostalgico
incaponimento nella memoria dei fasti solo apparenti del tardo antico regime.
Rispetto al triennio rivoluzionario la caratteristica più appariscente del
nuovo regime fu la scomparsa di ogni vestigia di sovranità popolare e la
progressiva atrofia del potere legislativo, ridotto a semplice appendice
dell’onnipotente esecutivo. Se la costituzione della prima Cisalpina e anche
quella della seconda avevano infatti almeno in teoria contemplato l’esistenza
di un sistema elettorale basato sull’attribuzione del suffragio a una parte
della cittadinanza e sulla conseguente designazione da parte di questa dei
componenti l’organi detentore del potere legislativo, quella della Repubblica
italiana di una prassi elettorale basata sul suffragio della cittadinanza non
faceva più parola. Al suo posto subentrava invece un sistema di designazioni
dall’alto, così organizzato. Il presidente nominava a titolo vitalizio i membri
di tre collegi elettorali, quello dei possidenti, quello dei commercianti,
quello dei dotti, alcune centinaia di persone a loro volta chiamate a
determinare la composizione di due ulteriori organi, la Consulta di stato (8
membri vitalizi) e il Corpo legislativo (75 membri da rinnovare di un terzo
ogni due anni): le sedi istituzionali del potere legislativo? Semplici luoghi
di discussione dei progetti di legge elaborati dal Consiglio legislativo, una
struttura operativa ristretta la cui composizione veniva deica, a norma di
costituzione, dal presidente della repubblica. Consulta di stato e Corpo
legislativo della Repubblica italiana, privi com’erano tanto di iniziativa
legislativa quanto di autentica investitura elettorale, recitavano dunque la
parodia della sovranità popolare e venivano convocati raramente, su impulso
dell’esecutivo che stabiliva gli ordini del giorno delle sedute. Il potere
esecutivo, sottratto a qualsiasi possibilità di controllo da parte della cittadinanza
il proprio vitale baricentro.
Un presidente, Bonaparte
stesso, un vicepresidente, alcuni ministeri insediati a Milano e una rete
burocratica statale fortemente irradiata sul territorio e munita della facoltà
di dare disposizioni imperative alle amministrazioni locali piuttosto che
sollecitata, come era stato il caso nella Cisalpina, a confrontarsi con
rappresentanze municipali più o meno democraticamente elette e, quindi,
espressive di pratiche di libertà: erano quesri i tratti caratteristici di un
sistema che agli occhi degli amministrasti si visualizzò soprattutto nella
figura del prefetto.
Il prefetto: un simbolo. Si trattava del funzionario proposto alla
circoscrizione del dipartimento, incaricato di rendere operative le leggi, di
garantire l’ordine pubblico, di controllare l’attività degli enti territoriali
minori, nominare i magistrati inferiori, compilare le liste per i consigli
municipali e i collegi elettorali, emettere decreti da approvarsi dal ministro
degli Interni. Strettamente dipendente dal governo e dal presidente che lo
nominava a propria discrezione e che altrettanto discrezionalmente poteva
revocarlo,. Era il simbolo di un sistema che non concedeva più alcuno spazio
all’autonomia comunale e al principio elettivo, evidenza riscontrabile anche
nell’ambito dell’esercizio del potere giudiziario, articolato verticalmente per
giudicature di pace e per tribunali provinciali e centrali, i cui membri,
diversamente da quanto era accaduto all’epoca del primo repubblicanesimo,
quando a livello locale, per esempio, i magistrati venivano eletti dalla
rispettiva comunità, erano tutti assoggettati alla designazione da parte
dell’esecutivo. Consisteva in questo la signoria imposta alla repubblica, in
coincidenza col passaggio dal consolato all’impero, anche in Italia si
assistette alla piena restaurazione della forma monarchica. Di una signoria,
dunque, a pieno titolo e tuttavia ricca di giustizia e di utilità pubblica. Ò
La spinta napoleonica alla
riformulazione delle strutture istituzionali a partire dal primato
dell’esecutivo e dell’amministrazione, che già s’era fatta sentire impetuosa in
occasione del passaggio dalla seconda Cisalpina alla Repubblica italiana, si
cristallizzò in tratti pienamente coerenti quando, tra il 1805 e il 1806, Bonaparte
prima impose la trasformazione della Repubblica italiana in regno, poi
sottrasse ai Borboni l’intero Mezzogiorno continentale, costringendoli a
riparare in Sicilia sotto la protezione inglese e insediando sul trono di
Napoli in prima battuta il fratello Giuseppe (1806-1808) e più tardi il cognato
Gioacchino Murat.
Le eredità della rivoluzione. Nei due regni italiani satelliti dell’impero francese,
all’interno del quale confluirono invece direttamente, in capo al 1809, tutti i
restanti territori dell’Italia continentale, con la sola eccezione dell’ex
repubblica di Lucca, convertita in principato e affidata da Napoleone al
cognato Felice Baciocchi, marito della sorella Elisa, vennerò così a
costituirsi due apparati di governo fondamentalmente paralleli, entrambi
contraddistinti da una forte tasso di
analogia con quelli vigenti nell’Empire. E tuttavia, al parallelismo formale
delle strutture del potere e della legislazione fecero riscontro, nel nord e
nel sud dell’Italia di Bonaparte, due vicende istituzionali largamente diverse.
Che cosa è rimasto vivo dell’eredità rivoluzionaria nella nuova monarchia
napoleonica? La disarticolazione della società per ceti e la fissazione del
principio dell’eguaglianza giuridica dei singoli, che ora, per altro, non vengono
chiamati più cittadini, come era d’uso al tempo della repubblica, bensì di
nuovo sudditi, come è normale nelle monarchie. Così pure è confermata la tutela
dei loro diritti individuali di fronte alla legge; una legge unica, scandita
dalla nitida prosa dei codici, che non conosce dunque eccezioni o condizioni di
immunità corporata o territoriale e che i governi e le amministrazioni che ad
essi fanno capo sono tenuti ad applicare puntualmente e senza margini
d’arbitrio, pena la facoltà, data agli amministrati, di ricorrere contro le
autorità attraverso magistrature speciali, cuii è conferita la disciplina del
contenzioso amministrativo.
Drasticamente attenuato quel
ventaglio di libertà, di pensiero, di stampa, di associazione, che ha
costituito il nucleo palpitante della rivoluzione e che ora si basa sul
controllo e la censura, per impedire lo sviluppo di indesiderati processi di
politicizzazione all’interno della società. Lo smantellamento delle istituzioni
di partecipazione al potere si presenta come la logica conseguenza di un simile
presupposto. Il principio della nomina dall’alto alle cariche pubbliche risulta
esautorare qualsiasi residua consuetudine elettiva.
Secondo Napoleone la libertà
si poteva trovare solo in un governo forte e stabile, e non nella
partecipazione dal basso.
Due capitali e le loro istituzioni. La struttura istituzionale introdotta nel Regno
italico e nel regno di Napoli rispondeva a un disegno sostanzialmente analogo.
Al vertice di ciascuno dei due complessi territoriali stava il re. Quello del
Regno italico era Napoleone stesso, che designò per altro quale proprio
rappresentante in loco, con la qualifica di viceré, il cognato Eugène
Beauharnais. A Napoli regnarono invece, con piena dignità di carica, prima
Giuseppe Bonaparte (1806-1808), fratello di Napoleone, poi Gioacchino Murat
(1808-1815), generale dell’esercito francese e cognato dell’imperatore corso.
In entrambi i regni il cuore del pubblico potere era rappresentato da un nucleo
di ministeri centrali (sette a Milano, prima nove poi sei a Napoli) dotati di
un cospicuo apparato burocratico interno, strutturato per direzioni e
articolato sul territorio in una fitta rete di uffici (finanziari, tecnici,
variamente specialistici) che conosceva il proprio punto di raccordo strategico
in un istituto della prefettura (così nel Regno italico) o intendenza (così nel
regno di Napoli), organo preposto alla direzione politica di ciascun
dipartimento (o, nel Mezzogiorno continentale, provincia). A sua volta ogni
circoscrizione provinciale era suddivisa in distretti o cantoni, alla cui
guida, in dipendenza dal prefetto o dall’intendente, stavano viceprefetti e
vice intendenti. In ogni distretto o cantone, infine, si dava la pulviscolare
trama dei comuni, suddivisi in classi a seconda del numero di abitanti e
affidati alla direzione di un sindaco (affiancato da una giunta) che si
chiamava podestà nelle città maggiori.
All’affermazione del
principio della unicità e verticalità del comando, speculare a quell’esigenza
di rafforzamento dell’autorità di governo che Bonaparte mostrava di ritenere
irrinunciabile per la sicurezza dello stato e di benessere, si accoppiava
tuttavia nell’architettura franco-napoleonica impiantata in Italia la
contestuale valorizzazione di una dimensione collegiale della procedura
amministrativa, il cui organigramma si condensava nella formazione di un corpo
corrispettivo all’altezza dei principali livelli di addensamento burocratico
dell’esecutivo: la capitale, il capoluogo dipartimentale o provinciale, il
comune.
Così, tanto a Milano quanto a
Napoli, parallela alla nomenclatura dei funzionari ministeriali, figurava
quella dei grandi notabili del regno, raccolti in un organo come il Consiglio
di stato che, oltre alla funzione di supremo tribunale del contenzioso
amministrativo, sulla quale ci soffermeremo tra breve, esercitava compiti che
spaziavano dall’esame dei progetti legislativi presentati dall’esecutivo e dei
trattati di pace e di commercio, all’interpretazione degli statuti
costituzionali. La capacità di questi collegi era per altro puramente
consultiva; un limite che valeva anche per gran parte delle prerogative dei corpi notabilati che
affiancavano sul territorio le strutture operative periferiche del potere
esecutivo. In ogni capoluogo dipartimentale o provinciale sedevano due
consigli: quello ristretto di prefettura (o di intendenza) e quello largo ma
estemporaneo, dipartimentale o provinciale. Il primo, che si riuniva di
frequente e i cui membri erano, seppur minimamente, stipendiati, era chiamato
da un lato a svolgere un’attività di cooperazione tecnica con il prefetto o
l’intendente, dall’altro a svolgere le funzioni di tribunale di giustizia
amministrativa in prima istanza, ovvero a giudicare con procedura rapida del
contenzioso tra privati e pubblica amministrazione. Il secondo, convocato a
cadenza annuale, godeva di generica facoltà di rimostranza sul piano fiscale e
di controllo sul bilancio dipartimentale. In ciascuno dei comuni, il cui numero
nel regno d’Italia venne drasticamente ridotto nel 1808, in seguito
all’accorpamento di più minuscole unità all’interno dei cosiddetti comuni
denominativi, c’era infine un consiglio (decurionato nel regno di Napoli) la
cui composizione derivava da un procedimento di estrazione a sorte tra i
maggiori proprietari fondiari e tra i commercianti più ricchi della rispettiva
località di residenza.
Le istituzioni per i notabili. La struttura ministro-prefetto-viceprefetto (oppure:
intendente-viceintendente) inquadrava lo spazio d’azione della componente
squisitamente funzionariale attiva negli apparati pubblici dei due regni
(quella permeabile a tutti i ceti di persone purché dotate di onestà e capacità
per aspirare al maneggio degli affari), quella collegiale assolveva piuttosto
la funzione prevalente, e non esclusiva, di offrire rappresentanza e visibilità
istituzionale a un ceto che si presentava in buona sostanza come il naturale
erede di quelle poche famiglie che avevano in precedenza per un verso
monopolizzato le cariche statali per l’altro affiancato ad esse la titolarità della
fitta selva di giurisdizioni complementari a quella dello stato. Il Corpo
legislativo venne soppresso già nel 1807 e sostituito da un Senato composto da
notabili scelti dal sovrano sulla base di liste compilate dai collegi
elettorali. Nel regno di Napoli, invece, non venne introdotto del tutto. E
tuttavia è allo spettro di funzioni per esso previste nel 1805 da Bonaparte che
va largamente ricondotta l’attività delle varie magistrature collegiali
attivate nei due regno. Le funzioni di rappresentanza svolte da queste ultime
non si ricollegavano all’espressione di un principio di partecipazione dal
basso all’esercizio del potere consacrato da procedure elettive. Non
diversamente dai ministri, dai prefetti (intendenti), dai viceprefetti (vice
intendenti), dai sindaci, anche i membri del Consiglio di stato (e del Senato
nel regno d’Italia) dei consigli di prefettura e dipartimentali (di intendenza
e provinciali) venivano infatti designati dall’esecutivo, che pescava in modo
discrezionale nel vasto mare di un notabilato sociale talvolta restio a
prestarsi all’esercizio di una funzione che molti dei suoi esponenti tendevano
a percepire come inutilmente coreografica. La medesima considerazione vale per
i componenti dei consigli comunali o dei decurionati, anche se in questo caso
la designazione aveva luogo per sorteggio e non per secca nomina dall’alto.
Funzionari e ufficiali: amministrazione
ed esercito. Funzionari
versus notabili. Questa dialettica scandì il ritmo quotidiano della vita
istituzionale dei due regno napoleonici d’Italia. Da un lato si assisteva alla
formazione di un corpo burocratico professionale, mescolanza di uomini nati in
contesti statuali diversi (la Lombardia austriaca, il ducato di Modena e
Reggio, lo Stato pontificio, la repubblica di Venezia, il principato vescovile
di Trento), ora riuniti in una formazione politica unitaria, e che invece nella
porzione meridionale della penisola si caratterizzava per la marcata presenza,
accanto a figure originarie del regno di Napoli, di sperimentati funzionari
giunti dalla Francia al seguito di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino
Murat. Si trattava di fugure che rescindono nessi relazionali con l’ambiente
circostante. Una burocrazia di carriera, fortemente incentivata sotto il
profilo retributivo e rigidamente dipendente dallo stato, e da questo
gratificata selettivamente in modo da testimoniarne l’efficienza. Un esempio
erano le onorificenze cavalleresche (Ordine della corona di ferro a Milano,
Ordine delle due Sicilie a Napoli), a cui si affiancò un’aristocrazia vera e
propria, proponendosi come quasi nobiltà di servizio di carattere
personale e non ereditario.
Si formarono anche le
monarchie militari, nelle quali agli ufficiali dell’esercito erano schiuse
opportunità di carriera talvolta rapidissime, non foss’altro per il frequente
ricambio che si rendeva necessario anche ai livelli alti e intermedi, al fine
di mantenere stabilmente assegnati gradi soggetti a un altissimo tasso di
mortalità dei rispettivi titolari, che rischiavano frequentemente la pelle
tanto nei campi di battaglia di mezza Europa quanto nella repressione di
fenomeni di insubordinazione al potere in qualche caso talmente corali da
assumere di fatto le sembianze di una vera e propria guerra interna. Basti
pensare al brigantaggio nel regno di Napoli.
La fazione dello stato. Le monarchie militari erano una forte colonna
d’appoggio della monarchia. Quella moltitudine, chiamata esercito, non era
parte della società, ma fazione nello stato. La fazione dello stato reclutava
nelle proprie fila non solo ufficiali in uniforme da battaglia, ma anche molti
funzionari dell’amministrazione civile, che tendevano a interpretare la propria
funzione quasi come militari in campagna. Ed era protagonista di primo piano
anche nella Milano di Beauharnais, oltre che nella Napoli di Giuseppe Bonaparte
e poi di Murat.
Le fazioni della società. Ben altre le caratteristiche degli uomini attivi
nell’altra metà della luna del sistema istituzionale di quei regni. I consigli
comunali o i decurionati, i collegi elettorali, i consigli distrettuali e
dipartimentali (o provinciali), i ristretti consigli di prefettura o di
intendenza, infine il Consiglio di stato e, nel Regno Italico, anche il Senato.
Qui per molti versi, e soprattutto in sede di articolazioni locali e provinciali,
il personale in servizio tendeva a smarrire un profilo propriamente
funzionariale; piuttosto che identificarsi anch’esso con la fazione dello
stato, tendeva viceversa a esprimere la voce delle molte fazioni della società.
Non ci si trovava davanti, in questo caso, con la parziale eccezione di
Consiglio di stato e Senato e, in qualche misura, anche dei consigli di
prefettura o di intendenza, a un corpo mobile di militanti retribuiti della
pubblica amministrazione, ma piuttosto a un composito insieme stanziale di
figure socialmente rilevanti, alle quali i governi chiedevano di assolvere in
sede locale una funzione sostanzialmente testimoniale a titolo gratuito o
semigratuito, in spirito di cooperazione tecnica, piuttosto che di controllo o
ancor meno di conflitto, con la burocrazia professionale interprete del potere
esecutivo. E giudicavano i conti del sottintendente e dell’intendente,
distribuivano le imposte regie fra distretti e comuni. Le prerogative e le
capacità dei consigli comunali o dei decurionati sorvegliati a vista dai
viceprefetti o sottintendenti erano assai limitate; e così pure quelle dei
consigli dipartimentali o provinciali al cui interno, in occasione della loro
convocazione annuale, si tendevano essenzialmente a comporre e a mediare
frizioni internotabiliari e conflitti di campanile, più che tentare una
studiata e corale resistenza territoriale agli impulsi imperativi promananti
dal potere esecutivo. E tuttavia, anche semplicemente dall’esercizio
sistematico di questa funzione, scaturì in quegli anni qualcosa di nuovo: la
formazione di un’elite sociale composita al cui interno al mondo tradizionale
dell’aristocrazia e della grande proprietà fondiaria cominciò ad affiancarsi
quello di recente legittimato dalla prosa egualitaria, e livellatrice dei
codici, del commercio, della finanza, in parte anche della cultura e
dell’industria, là dove quest’ultima in qualche misura già esisteva. Essa era
obbligata dai meccanismi indotti dal confronto con la scala territoriale
dell’amministrazione statale a pensarsi in una dimensione istituzionalmente
compiuta quantomeno provinciale; quella, in altre parole, imprescindibile per
approntare, se non l’altro, l’orditura di una politica di mediazione con lo
stato, soprattutto sul nevralgico terreno della fiscalità.
Una rappresentanza sociale nuova. Tanto nel Regno italico, quanto in quello di Napoli, i
collegi elettorali che costituivano la sintetica irradiazione a livello
nazionale dell’élite attiva nel mondo consiliare comunale e provinciale, erano
articolati in tre branche. Quella dei possidenti, quella dei commercianti,
quella dei dotti. Era la codificazione napoleonica. Non più l’appartenenza a un
corpo privilegiato in quanto tale (nobiltà o clero) bensì l’eccellenza dei
singoli nelle gerarchie della ricchezza e della cultura delimitavano ora il
corpo dei titolari di una rappresentanza istituzionale della società non più
concepita nei termini di autonoma capacità giurisdizionale, bensì in quelli
della collaborazione subordinata con l’apparato di stato in aderenza alle
regole formali sancite da quest’ultimo. Le antiche aristocrazie di sangue della
penisola figuravano numerose. Ma in quanto soggetti privati e non più come
espressione di un corpo giuridicamente privilegiato. Per i commercianti e per i
dotti, poi, quella offerta dalle istituzioni consigliari napoleoniche
costituiva la prima occasione di consacrazione pubblica di una luminosità
sociale. Nel tramonto dei moduli spiccatamente aristocratici di definizione
dello spazio locale e delle sue élite tipici dell’antico regime, quello che
veniva prendendo forma attraverso la frequentazione delle istituzioni
rappresentative dei due regni era un moderno notabilato sociale, in parte erede
delle antiche aristocrazie,. In parte formato da esponenti eminenti di attività
borghesi e in qualche misura anche meccaniche.
La giustizia nell’amministrazione. All’altezza dei consigli di prefettura (o di
intendenza) e in sede di Consiglio di stato, inoltre, a questo notabilato nuovo
competeva una funzione tutt’altro che decorativa o coreografica: quella di
erogare in prima e in seconda istanza la giustizia amministrativa. La facoltà
accordata ai privati di ricorrere contro atti della pubblica amministrazione da
essi ritenuti lesivi dei loro diritti e contrari alle leggi rappresentava, con
ogni evidenza, un segno tangibile dell’affermazione dello stato di diritto,
nella quale lo stato napoleonico testimoniava della propria continuità con i
principi dell’umanesimo rivoluzionario. Nell’esistenza di collegi preposti alla
giustizia amministrativa di poteva, infatti, cogliere la ricusazione di quella
idea della discrezionalità e insindacabilità del pubblico potere da parte dei
singoli che aveva rappresentato il tratto qualificante dei modi di governo di
antico regime. Quei collegi erano cioè pensati come strumenti di garanzia per
il cittadini, atti a fornirgli occasione di opposizione o almeno di ritegno al
voler cieco del potere, e spesso si pronunciavano verso i deboli positivamente.
L’istituzione della magistratura contenziosa come corpo interno
all’amministrazione, andava dunque intesa non solo come un contributo alla
protezione del privato rispetto al voler cieco del potere., ma anche come la
carta vincente ai fini dell’emancipazione della funzione amministrativa
rispetto alle paralizzanti procedure di controllo giudiziario che ne avevano
reso precario l’andamento durante l’antico regime, quando agli occhi dell’uomo
comune il pubblico potere tendeva ad essere percepito e introiettato
essenzialmente come arcano e arbitrario esercizio della funzione giudiziale.
Ciò che dipoi è stato inteso col nome di
amministrazione. Nel regno
di Napoli si trattava di un pubblico potere articolato per corti giudicanti,
per tribunali, non per uffici, le cui decisioni risultavano teoricamente permeabili
a infinite opportunità di ricorso e di manipolazione e sulle quali incombeva
l’alea della discrezionalità dell’intervento regio: un pubblico potere
tendenzialmente paralizzante per chi si trovava costretto a interloquire con
esso: un pubblico potere al cui interno non trovava spazio ciò che dipoi è
stato inteso col nome di amministrazione e affidato al ministro dell’Interno.
La costruzione dell’ordine
amministrativo. Mancava
l’amministrazione di distretto e di provincia; un tribunale supremo di ragionieri
sedenti in Napoli (la Reggia Camera) giudicava lentamente i conti municipali
ignorandone le origini. L’ordine della pubblica amministrazione mancava affatto
nel regno. L’istituzione napoleonica di un sistema di giustizia amministrativa
organizzato in modo tale da isolare uno specifico settore del contenzioso,
sottraendolo alle procedure e ai tempi lenti della giustizia ordinaria, dava
così espressione non solo all’esigenza di tutelare il privato rispetto a
eventuali abusi dell’amministrazione, in ottemperanza alla ratio garantista
dello stato di diritto, ma anche e soprattutto a quella di liberare
quest’ultima (ora vischiosa sudditanza alla giustizia, nella quale essa aveva
consumato la propria preistoria d’antico regime.
Il ministero dell’Interno
ebbe carico di quella parte di economia civile che racchiude l’amministrazione
delle comunità e province, le arti, le scienze, le fondazioni di pietà ed
utilità pubblica. Dipoi, regolate con nuove leggi, le amministrazioni, fu
meglio il regno diviso in province, distretti e comunità: un capo
amministratore, che chiamarono intendente, abolito il preside, attendeva alla
provincia il sottointendente al distretto, il sindaco al municipio.
L’amministrare è cosa di uno solo, mentre giudicare è affare di più, Bonaparte
non aveva dunque inteso solo connotare le differenti modalità operative di due poteri
dello stato, ma soprattutto segnalare
come nell’ordinamento che stava impiantando l’esecutivo fosse destinato a
diventare per la prima volta un autentico potere tout court sostanzialmente
autoreferenziale e impermeabile rispetto alle propensioni alla contrattazione
e, specularmente, all’ineffettualità, caratteristiche della funzione
giudicante.
Per il mestiere di giudice si
apre un’epoca di eclissi, perché nei suoi tradizionali interpreti, e nella
cultura di cui questi ultimi erano portatori, i nuovi governanti individuavano
l’ostacolo più insidioso al perseguimento degli obiettivi di trasformazione
della società derivanti dall’espansione della giurisdizione stataòe e dallo
smantellamento di quelle cetuali e territoriali, una classe di arrampicatori e
conservatori.
Alla ricerca degli amministrati. I cambiamenti messi in cantiere dalle amministrazioni
napoleoniche consistettero in primo luogo nella classificazione, uno per uno,
degli individui che componevano la popolazione dei due regni, presupposto
irrinunciabile per la definizione di una unitaria cittadinanza stataòe e per la
fattività dei diritti e dei doveri a questa connessi.
Prima dell’età napoleonica,
in un mondo contraddistinto dalle giurisdizioni miste e, dunque,
dall’inesistenza del monopolio statale del pubblico potere, il compito della
registrazione degli individui spettava essenzialmente alla chiesa, che
provvedeva a fissare su un foglio di carta i due o tre momenti nevralgici del
ciclo di vita di ogni cattolico, la nascita, la morte, eventualmente il
matrimonio, e che approntava poi di tanto in tanto delle macrorilevazioni,
redigendo gli status animarum. Ma è evidente che per garantire un contatto continuativo
ed efficace tra la nuova, totalizzante amministrazione e la popolazione oggetto
delle sue cure, tanto al fine di ricavarne il corrispettivo sul piano delle
obbligazioni individuali verso il pubblico potere, quanto allo scopo di
beneficiare i singoli delle pubbliche provvidenze, era necessario qualcosa di
meno rapsodico. Si trattava, in buona sostanza, di seguire puntualmente gli
spostamenti degli individui nello spazio statale, il luogo di sintesi della
nuova cittadinanza individualistica e post-corporata, e di ancorare la chiave
della loro identità non al luogo di nascita, bensì a quello, cangiante, di
residenza, in modo da trasformare la documentazione in istantanea prodotta
dalle parrocchie in documentazione statale a ciclo continuo. A Milano fu nel
1802, in seguito all’emanazione della legge sulla coscrizione che prevedeva in
teoria l’obbligo di prestare il servizio militare per tutti i maschi adulti,
che venne avviato il grande progetto dell’anagrafe e che si dette dunque
esplicitazione formare all’intenzione di sostituire integralmente la
registrazione statale degli individui a quella fon lì rapsodicamente
assicurata, e solo in relazione ai cattolici, dalle istituzioni ecclesiastiche.
Tra l’enunciazione del progetto anagrafico e la sua realizzazione operativa
passando per altro quasi dieci anni. Solo nel 1810 infatti un piccolo esercito
di commissari e delegati di polizia opportunamente istruiti cominciò a battere
le strade della città e a bussare ad ogni porta dei 5601 edifici censiti dal
catasto urbano. Ognuno dei rilevatori era munito di una mazzetta di schede,
sulle quali avrebbe registrato le informazioni necessarie a formare il
cosiddetto ruolo generale di popolazione. Luogo e data di nascita, residenza,
stato civile, professione. Si prevedeva di seguire passo passo lo svolgersi nel
tempo, sino alla tomba, delle persone. A rilasciare le informazioni richieste,
destinate a confluire in forma unitaria nel nuovo ufficio dell’anagrafe,
avrebbero dovuto essere i cittadini stessi, le persone raccolte negli spazi
situati al di là di ciascuna delle porte alle quali i commissari rilevatori si
trovavano a bussare. Questi ultimi, a loro volta, li avrebbero informati di un
nuovo obbligo, al quale la nuova condizione di cittadini statali li vincolava:
quello di rendere le autorità prontamente edotte di ogni cambiamento di
residenza o di stato civile. Il progetto rimase utopico. Il potere pubblico
ancorò esplicitamente il processo di costruzione dell’anagrafe a quello di
imposizione del servizio militare obbligatorio. Ciò si traduceva, per i
cittadini, in un onere pesante più che un beneficio. La popolazione non voleva essere soggetta a
controlli.
A partire dai primi anni
dell’Ottocento i cittadini della Repubblica italiana (e poi del Regno italico)
e in seguito anche gli abitanti del regno napoleonico meridionale, si trovarono
a norma di legge tenuti a tenere in tasca un documento che assomigliava molto,
salvo la presenza, al posto della fotografia, di una sommaria descrizione
somatica, all’odierna carta di identità, ogni qual volta si fossero trovati a
varcare il confine del distretto in cui risiedevano e in cui li si conosceva,
per tanto, a vista. In assenza di quel viatico, in caso di controllo da parte
di un pubblico ufficiale si sarebbero aperte loro, in attesa delle necessarie
verifiche, le porte del carcere più vicino. Molti di loro preferirono
continuare a ignorare la cosa.
Il controllo del suolo e del sottosuolo. Il principio di registrazione e di riconduzione al
monopolio statale del sapere sull’esistente non interessò solo le persone, ma
anche i beni e il mondo fisico. Essi si espresse, da un lato attraverso il
raffinamento dei catasti e il potenziamento dell’amministrazione finanziaria,
dall’altro, in seguito all’allestimento di nuove branche dell’apparato
burocratico, preposte alla classificazione delle risorse materiali (tanto
quelle visibili esternamente, quanto quelle custodite nel sottosuolo) ai fini
di una ulteriore valorizzazione economica e sociale di queste.
L’ascesa del funziona rato tecnico,
un funzionariato naturalmente adesivo all’attitudine alla trasformazione
inerente alla ratio amministrativa, fu un dato direttamente speculare
all’inedita inattualità conosciuta dalla giustizia e dalla sua vocazione
irriducibilmente conservatrice. Trovò riscontro non solo nella disseminazione
sul territorio di un corpo burocratico specialistico, ma anche nella
formazione, al centro dei due regni, in ciascuna delle capitali, di istituzioni
culturali di stato a forte caratterizzazione tecnico-scientifica, sorte di
nuove accademie a direzione statale sottratte alle logiche in effettuali e
tutte speculative predominanti in corpi analoghi di antico regime, quando i
dotti rappresentavano un’appendice decorativa della corte, piuttosto che
un’energia da finalizzare al perseguimento del pubblico bene. Tali istituzioni,
l’Istituto nazionale nel regno d’Italia, la Società reale e l’Istituto di
incoraggiamento in quello di Napoli, erano composte da un certo numero di
membri pensionati, cioè retribuiti ai quali era delegato il compito di fissare
le linee della politica del territorio, cui i governi avrebbero dovuto
attenersi. Conoscere e controllare per trasformare dall’alto, la filosofia
ispiratrice delle monarchie napoleoniche.
Le metafore della luce. Le nuove amministrazioni, resero possibile
l’introduzione e il rafforzamento di misure di polizia sanitaria come le
vaccinazioni, o come il trasloco dei cimiteri al di fuori delle cinte murarie
urbane, nonché l’irradiazione diffusa di un sistema scolastico elementare
teoricamente indirizzato a tutti, così come di livelli di istruzione superiori
a carico statale e a frequentazione tendenzialmente aperta.
Le resistenze all’amministrazione. Anche l’introduzione del sistema metrico decimale, per
esempio, faceva parte del medesimo piano di razionalizzazione e di livellamento
del quale le realizzazioni illuminate poc’anzi ricordate erano a loro volta
espressione. Ma non erano ben accettate dal popolo. Il naturale pluralismo
territoriale di antico regime mostrava di possedere capacità di radicalmente
sociale e di resistenza che lo ponevano al riparo dalle esuberanze equalizzanti
tipiche dello stato napoleonico. Una duratura modificazione della mentalità
collettiva, dovevano pattuire altri decreti miranti a disciplinare sotto
l’egida statale (con il corrispettivo beneficio per le casse dello stato,
alcuni comportamenti ludici della popolazione: il gioco e la prostituzione, che
Giuseppe Bonaparte nel 1807 cercò vanamente di regolamentare, trasformando il
primo in un monopolio statale, la seconda in una pratica patentata.
L’insoddisfazione diffusa per
lo smantellamento della rete ecclesiastica di assistenza e beneficenza, già
naturale terreno di incontro discrezionale tra i ceti dominanti e quelli
subalterni in antico regime, ora sostituita da un sistema basato sul monopolio
statale e dunque sull’avocazione alla cosa pubblica delle istituzioni
caritatevoli esistenti, per l’altro nell’introduzione della coscrizione
obbligatoria.
La falcidia dei patrimoni
della chiesa confermata dalla politica italiana dei napoleonidi portò con sé
anche la disgregazione di un tessuto di assistenza al povero e al diseredato,
che era tanto antico da sembrare ormai naturale. Mentre, d’altro canto, il
rimpiazzo statale di quella funzione, tutto intonato ai criteri produttivistici
e utilitaristici irradiati da istituzioni amministrative come le case di lavoro
e i reclusori, si inseriva in una logica di lungo periodo che chi si trovò a
sperimentare per primo sulla propria pelle non poté in alcun modo apprezzare.
La coscrizione obbligatoria. Introdotta già nel 1802 nella Repubblica italiana (e
poi confermata nel Regno italico) la legge della coscrizione venne resa
operativa da Gioacchino Murat nel 1809 anche nel regno di Napoli, dove sotto
Giuseppe Bonaparte per formare i reggimenti era parso più prudente far ricorso
a uomini tratti dalle carceri e dalle galere o a perdonati del brigantaggio, o
a ribaldi adunati dalla Polizia. Ora invece, ogni napoletano dai 17 ai 26 anni
sarebbe stato scritto nel libro della milizia, dal quale tirando a sorte due
nomi per mille anime avrebbero avuto l’esercito diecimila giovani all’anno.
Esentati gli ammogliati, i figli unici, i figli di madre vedova e gli estimati
eccellenti a qualche arte o scienza, il teorico rapporto di due sorteggiati
ogni mille registrati finiva per convertirsi in una proporzione sicuramente
assai meno gradevole ai coscritti; e si capisce allora agevolmente perché
quella legge spiacque al popolo. Nella penisola il servizio militare era stato
fino a quel momento esperienza quasi totalmente sconosciuta e per di più nei
regni napoleonici esso non ebbe duirata certa, dal momento che tanto a Milano
quanto a Napoli lo stato di guerra (esterna o interna) fece stabilmente da
sfondo all’attività dei governanti. Per scampare al servizio militare, tanto
prima quanto dopo il sorteggio, si faceva di tutto: ci si sposava precocemente,
o per finta, ci si amputava un arto, si disertava e si alimentavano le file
della delinquenza organizzata nel Mezzogiorno. La truppa ordinaria, quella
sottratta alle campagne e ai rioni popolari delle città, e mandata a
fronteggiare le turbolenze sociali e territoriali interne ai regni, o a
spargere i l proprio sangue sui campi di battaglia di qualche paese lontano,
rappresentava così il rovescio della medaglia di quella fazione militare nella
quale poc’anzi abbiamo riconosciuto il nucleo più entusiastico della militanza
napoleonica. I faziosi in divisa appartenevano quasi tutti all’ufficialato: i
soldati semplici del prestigio fruito dai primi non ricevevano che qualche
raggio periferico, non sufficientemente intenso da compensare rischi e disagi
di una vita tanto sopra le righe quanto scomoda e a tratti drammatica.
Le peculiarità del Mezzogiorno. Quasi del tutto peculiare del regno meridionale fu
l’opera di smantellamento della feudalità che, a partire dalla legge emanata da
Giuseppe Bonaparte nel 1806, rappresentò il compito forse principale
scaricatosi sulle spalle dei governi che ressero Napoli fino alla caduta di
Murat. In gran parte dei territori facenti parte del regno d’Italia milanese,
viceversa, il problema non si pose, dal momento che i residui feudali, per
altro già allora di rado cospicui, erano stati eliminati durante la fase
rivoluzionario-repubblicana di fine Settecento. A quell’epoca anche a Napoli
gli uomini della repubblica del 1799 avevano messo mano a un progetto di
eversione della feudalità; ma la breve durata della loro avventura aveva fatto
si che esso restasse lettera morta. E con il ritorno dei Borboni il feudo era
tornato ad essere la cellula di base del territorio meridionale, non solo sotto
il profilo, ma anche e soprattutto sotto quello giurisdizionale. Al momento
dell’avvento dei napoleonidi, come già prima della repubblica del 1799, circa
il 70% della popolazione del regno viveva all’interno di territori feudali
laici o ecclesiastici ed era di conseguenza soggetta alla giurisdizione
feudale, prima che a quella statale, la quale esercitava, come si è avuto modo
di illustrare, una forma di supervisione sulla prima, quasi mai invece una
diretta interlocuzione con i sudditi.
L’abolizione delle
istituzioni feudali costituì perciò nel Mezzogiorno il presupposto
irrinunciabile per offrire spazio di intervento giurisdizionale
all’amministrazione, e per operare di conseguenza il ritaglio compartimentale
del territorio alla luce del progetto radiale e uniforme guidato dai ministeri
della capitale. La disseminazione dello stato sulla superficie territoriale
attraverso la costruzione della rete tecnico-burocratica polifunzionale diretta
dal ministero dell’Interno e coordinata all’altezza delle successive partizioni
amministrative dagli intendenti, dai sottointendenti, dai sindaci, comportò in
altre parole il contestuale disseccamento della variopinta flora di funzionari
e di istituzioni feudali sino lì investite delle funzioni giurisdizionali.
Liquidare la feudalità significativa, dunque, costruire lo stato e la sua
amministrazione.
Prima della legge del 1806 i
diritti feudali sulle persone si mantenevano apertamente in alcuni feudi, ed in
altri erano stati mutati a pagamento:
parecchie angarie o per angarie, come il
lavoro di contadini nelle terre
baronali, l’officio di corriere, altri servigi domestici, duravano in molte
comunità. I diritti sulle cose erano esorbitanti: le terre, le industrie, i
boschi, i fiumi, le acque per fino le piovane, ogni prodotto, ogni entrata,
gravate di taglie o prestazioni.
Questo largo residui di
feudalità distruggendosi per la legge del 1806 ritornò intera la giurisdizione
alla sovranità, e ne fu dichiarata inseparabile, tutte le gravezze, tutte le
proibizioni feudali furono revocate; reso libero l’uso dei fiumi, disciolta la
mescolanza della proprietà, le servitù abolite, la nobiltà conservata né
titoli, distrutta né privilegi, surrogati i nomi al potere.
Ma naturalmente la legge
eversiva della feudalità, se valeva a fissare le nuove regole dell’esercizio
giurisdizionale, e a introdurre rapporti interpersonali meramente privatistici
in luogo di quelli preesistenti, liberando le persone dalle servitù residue,
non per questo poteva quasi con un colpo di bacchetta magica risolvere tutti i
problemi derivanti dallo scioglimento del feudo come giurisdizione e dalla
trasformazione delle terre ex feudali in proprietà private. Infatti esse non
caddero al primo colpo.
Questione feudale e amministrazione. Di per sé la legge emanata da Giuseppe Bonaparte
mirava infatti essenzialmente a privatizzare le terre (qui la sua pars
destruens, tutta tesa a eliminare ogni spessore giurisdizionale inerente la
proprietà fondiaria), non a incamerare i feudi o a promuoverne il passaggio di
proprietà, a colpire insomma il baronaggio in quanto soggetto
economico-sociale. A beneficio di quest’ultimo erano anche previste
compensazioni e indennizzi in moneta per la perdita dei proventi già derivanti
dall’esercizio dei diritti feudali legittimamente costituiti. I baroni furono
privati innanzitutto della giurisdizione, dei diritti proibitivi, di alcune
prerogative fiscali. Ottennero in libera proprietà quei terreni del feudo che
avevano goduto senza contestazione e amministrato in maniera esclusiva.
Del demanio del feudi, sul
quale i cittadini esercitavano gli usi civici, ricevettero da un quarto a tre
quarti, mentre la patre restante era assegnata ai comuni perché la distribuissero
in quote ai cittadini più poveri, come compenso degli aboliti usi civici.
Inoltre gli ex feudatari continuarono a riscuotere decime e censi, quando
fossero corrispettivo di concessioni reali, ma tutte le prestazioni divennero
redimibili, e quando fossero giudicate arbitrarie o esorbitanti, furono ridotte
o estinte. Con il riscatto dei censi, in primo luogo, e in minore misura
attraverso le quotizzazioni demaniali, fu creata e consolidata una piccola e
media proprietà contadina interamente libera o facilmente riscattabile.
La legge del 1806 si
presentava in relazione alle modalità di ripartizione della proprietà privata
derivante dall’eclissi dello spessore giurisdizionale del feudo, come un
dispositivo aperto, a determinare i cui esiti avrebbero provveduto dal 1806 in
avanti la risoluzione del contenzioso tra i titolari dei beni ex feudali (i
baroni, la chiesa, ma in parte anche lo stato, talvolta calato nei panni
abitualmente rivestiti dai due corpi privilegiati) e le comunità già infeudate
e ora trasformate nella sintetica cellula elementare della nuova cittadinanza
statale.
Troppo generiche e troppo
facilmente impugnabili suonavano le prescrizioni della legge antifeudale, il
cui punto debole era l’insufficiente delucidazione prevcentiva della distinzione
tra diritti feudali personali (da ritenere aboliti) e diritti reali (da
conservare in forza delle norme del diritto privato).
Contro le prevedibili
lentezze originate dalla chiamata in causa della magistratura ordinaria, la
soluzione escogitata dal ministro dell’interno che considerava l’efficace
applicazione della legge eversiva della feudalità compito principale del suo
ministero, fu quella di rafforzare le prerogative della Commissione feusdale,
una magistratura straordinaria le cui procedure, in realtà, rispecchiavano la
logica verticale tipica dell’esecutivo piuttosto che i modi dibattimentali del
giudiziario. La sollecitò, dunque, affinché giudicasse colla maggiore celerità
le controversie secolari; facesse eseguire la legge abolitiva della feudalità e
mettesse i baroni tra i limiti dei proprietari.
La logica dell’esecutivo. L’attribuzione di forti poteri decisionali alla
Commissione feudale, le cui sentenze erano inappellabili, comportò una svolta
percepibile nell’accelerazione del programma di costruzione dello stato nuovo
apertosi nel 1806. stavano dunque dall’una parte gli interessi di tutti i
baroni e del re che per alcuni privati domini aveva le qualità baronali e del
fisco regio e della chiesa: stavano per l’altra parte i cittadini pur vassalli
e tuttavia soggetti.
L’atmosfera quasi
belligerante nella quale concretamente si spese, anche a prescindere dalla pur
già di per sé gigantesca questione dell’applicazione della legge feudale,
l’attività quotidiana dell’amministrazione franco-napoletana, specialmente
sotto il regno di Gioacchino Murat. Certo, come nel regno d’Italia milanese,
anche nel Mezzogiorno continentale la rete delle istituzioni, con il suo spazio
di iniziativa per i funzionari e con quello di contenimento per i notabili, chiamati
a integrare i primi tanto in relazione all’esercizio della giustizia
amministrativa, quanto in occasione della rituale convocazione annuale dei
consigli distrettuali e provinciali, disegnava un tracciato lineare e continuo,
nel quale si potevano agevolmente intravedere le modalità di un progetto di
stabile controllo del territorio. Ma, e qui va colto uno scarto rilevante
rispetto alla coeva esperienza del regno d’Italia, alla coerente realizzazione
pratica di quel progetto parevano poi opporsi con forza tanto le strutture
sedimentate della società, la questione feudale, con le sue vischiosità appena
illustrate, ne costituiva forse l’esempio più palmare, quanto la natura.
Spazi e temi dell’amministrazione. Irto di montagne che ne frammentavano gli spazi in
insiemi impossibilitati a porsi celermente in comunicazione l’uno con l’altro,
il disgregato territorio del Mezzogiorno si offriva alla presa del progetto
amministrativo in modo assai più sfuggente di quanto non facesse la vasta
pianura solcata dal Po. Tra Milano, Venezia e Bologna multiple e agevoli vie di
comunicazione, naturali o artificiali che fossero, rendevano svelta la
circolazione di ogni impulso e prevedibili i tempi del suo arrivo a
destinazione. Le leggi, ammoniva l’articolo 1 del codice civile in vigore nel
regno d’Italia, sono osservate in qualunque parte del Regno, dal momento in cui
può esserne conosciuta la promulgazione. Il che significava un giorno dopo
quello della promulgazione nel dipartimento in cui risiederà il Governo; ed in
ciascuno degli altri dipartimenti dopo lo stesso termine, coll’aggiunta di
altrettanti giorni, quante decine di miriametri (circa 60 miglia comuni) sarà
distante il capoluogo di ciascheduno dipartimento, dalla città dove sarà stata
fatta la promulgazione.
E una tavoletta in appendice
provvedeva a fornire agli abitanti gli elementi per tradurre in numeri questa
indicazione di massima., l’allargamento del territorio del regno, negli anni
successivi, tanto ad est quanto a sud est, fino a includere Venezia e Ancona,
avrebbe certamente imposto un aggiornamento a questi valori, ritardando un poco
i tempi massimi di presunzione di conoscenza, e quindi di valenza delle leggi
nazionali nei territori progressivamente periferici. Ma quello
dell’amministrazione italica sarebbe comunque rimasto un tempo
straordinariamente celere rispetto a quello imposto dalla geografia meridionale
e dal sistema di comunicazioni di terra e d’acqua ad essa allora
corrispondente.
Amministrazione contro società ribelle:
il brigantaggio. Il medesimo
ragionamento sviluppato a proposito dei tempi di entrata in vigore delle leggi
trova riscontro in relazione alle dinamiche dell’azione amministrativa. Napoli
restava fatalmente una capitale lontana per gran parte del Mezzogiorno
continentale e le strutture amministrative che da essa si irradiavano, così
come gli snodi periferici degli apparati, altrettanto fatalmente tendevano a
disperdere la propria forza propulsiva nel loro faticoso e lento addentrarsi in
superfici ostili. La natura del Mezzogiorno riproponeva insomma incessantemente
quei localismi strutturali che lo stato amministrativo era chiamato a smussare.
È certamente anche alla luce di questo contesto che va inquadrata la spesso
efficace resistenza opposta all’affermazione della legalità e all’attività
amministrativa da un fenomeno come il brigantaggio, in parte alimentato dai
Borboni, ma per altri versi fortemente radicato nella società e nella geografia
del Mezzogiorno, anche a prescindere dalla sua contingente coloritura politica.
I funzionari periferici del regno di Giuseppe Bonaparte e poi di Murat si
trovarono in tal senso non di rado costretti a sviluppare un’attitudine, per
così dire, paramilitare.
Nel luglio 1806, ad appena
pochi mesi dall’avvio dell’esperienza francese nel regno, l’intera Calabria in
pochi giorni cadde nelle mani dei briganti. In capo a settembre la rivolta
calabrese venne sì circoscritta e i funzionari del governo furono in grado di
re insediarsi, ma lo stato di illegalità restò una costante. Mentre si chiudeva
l’insurrezione calabrese, a settembre persino nella provincia di Terra di
Lavoro, quella contigua a Napoli, il potere costituito si vedeva messo in crisi
dal tentativo di Fra Diavolo (catturato e giustiziato poi a novembre), che,
dopo aver sorpreso la guarigione francese ad Atri, cercò di congiungersi con i
ribelli abruzzesi.
Nell’estate 1809 in virtù di
un’azione combinata tra anglo-borbonici e briganti, in Calabria e in Basilicata
il governo venne di nuovo messo in scacco e non furono pochi i comuni, soprattutto
in Calabria e in Basilicata, che issarono la bandiera borbonica, mentre per
quindici giorni veniva occupata Reggio.
Il brigantaggio tese comunque
a radicarsi come tratto endemico del regno meridionale, che di fatto sino alla
caduta di Murat non si trovò mai nella condizione di fruire di una situazione
stabilmente pacificata. Di questo perdurante stato di eccezione, tanto usuale
da configurarsi come la regola, rappresentò un quasi ovvio riverbero l’attività
continuativa di commissioni e tribunali militari straordinari incaricati di
procedere al giudizio sommario dei briganti catturati. Si composero 4 nuovi
tribunali e si dissero straordinari perché restavano cassi alla promulgazione
dei codici. In ognuno, otto giudici (cinque civili, tre militari) giudicavano
inappellabilmente i delitti di stato, o contro la pubblica sicurezza.
Ciò comportava, in buona
sostanza, oltre alla messa in mostra del sentimento di precarietà con il quale
il governo percepiva se stesso, la virtuale smentita delle regole garantiste
dello stato di diritto (del complesso normativo dei codici, immaginato
evidentemente a misura di una condizione di normalità) nel momento stesso in
cui lo si proclamava come conquista e titolo di vanto del nuovo regno.
I diritti zoppi dello stato d’eccezione. Le corti giudicanti straordinarie fecero la loro
comparsa sul territorio sostanzialmente in coincidenza con l’entrata in vigore
del nuovo sistema giudiziario, articolato per giudicature di pace a livello
locale, tribunali di prima istanza civili e penali in ogni provincia, quattro
tribunali d’appello in altrettante localidà del regno e, al vertice della
piramide, la Corte di cassazione nella capitale; una concatenazione gerarchica
tra le varie istanze giudiziarie che ricalcava quella delineata per gli uffici
dell’amministrazione esecutiva, e che era dunque tesa a colmare, come questa,
quel vuoto tra località e capitale che s’era configurato come fatto
caratteristico dell’antico regime, fornendo largo alimento agli arcani ed
oscuri maneggi dei forensi.
Il nuovo sistema
rappresentava la garanzia di una giustizia equilibrata e finalmente schierata
dalla parte della cittadinanza, oltre che alleggerita dalle incombenze
amministrative che ne avevano assorbito parte delle attività. La legge ora si
mette a disposizione del popolo, porgendo alla cittadinanza i benefici dello
stato di diritto, anche se spesso si profilava ancora l’autoritarismo.
Monarchia amministrativa o monarchia
militare? La
ricorrente tentazione a far uso di strumenti francamente imperativi e a
disfarsi del tutto della mediazione offerta dalla giurisdizione ordinaria stava
a evidenziare la difficoltà che il governo di Napoli conobbe in misura senza
alcun dubbio assai più acuta rispetto a quello di Milano, a restare davvero
aderente al disegno nel quale si dispiegava la teorica configurazione
dell’equilibrio napoleonico tra i vari poteri dello stato. Non solo il
giudiziario veniva relegato ad un riolo decisamente subalterno, ma lo stesso
esecutivo a causa della situazione ambientale nella quale era costretto ad
operare, tendeva a smarrire qualche tratto della propria specificità e a
confondersi con quel potere militare col quale esso agiva spesso quasi in
simbiosi e dal quale, del resto, dipendeva strettamente la sua stessa
possibilità di realizzare un insediamento stabile all’interno di un territorio
che latenze sociali e geografiche rendevano talvolta impermeabile al
dispiegarsi di una continuativa irradiazione amministrativa.
Quella prima di Giuseppe
Bonaparte e poi di Gioacchino Murat fu non tanto o non solo una monarchia
amministrativa, ma anche e forse soprattutto una monarchia militare, che non
sempre poté permettersi di individuare nei propri cittadini essenzialmente
degli amministrati e che in molti dei territori della propria superficie
dovette invece paventare in essi i potenziali militi di un esercito nemico. La
repressione del brigantaggio si svolse in un clima di atrocità diffusa, e delle
stragi a rimanere vittime furono briganti e popolazione proletaria.
Capitolo 3
La sofferenza del legislativo (1802-1815)
Senato e Consiglio di stato del Regno
italico. I poteri erano suddivisi
in un giudiziario debole, un esecutivo forte e di sembianze militari, dotato di
efficacia diseguale nei due regni, quello italico e quello di Napoli. Il legislativo
era relegato ad una funzione ornamentale, tuttavia mai rinnegato in quanto
tale.
Nel regno d’Italia toccò al
Senato, istituito nel 1807 e composto, oltre che dai principi della famiglia
reale e dai grandi ufficiali del regno, da una schiera di notabili selezionati
dal sovrano sulla base di liste redatte dai collegi elettorali, assolvere una
serie di funzioni consultive e di controllo potenzialmente tutt’altro che
irrilevanti. Tra esse l’esame dei progetti legislativi e statutari dei trattati
internazionali, la delibera sull’accrescimento delle imposte, la registrazione
delle leggi, statuti costituzionali e titoli onorifici, il controllo sui
rendiconti finanziari dei dicasteri, il giudizio sulla incostituzionalità degli
atti dei collegi elettorali, sugli abusi della giurisdizione ecclesiastica e
sulle prevaricazioni dei giudici, la rappresentazione all’imperatore dei
bisogni e delle richieste della nazione. Le iniziative erano da vagliare con un
voto consultivo, alla stregua di una corte giudicante, le cui sentenze valevano
come mere indicazioni. Quasi sempre, tuttavia, si trattava di iniziative
altrui, spesso dell’esecutivo, un corpo che manipolava, dunque, il legislativo,
ma non aveva il potere di fare le leggi.
Meno generiche erano le
competenze del Consiglio di Stato, che era tuttavia un organo costituito con
nomine discrezionali dall’alto e che, dunque, non riproponeva neppure quella
parvenza di rappresentatività sociale che il Senato derivava invece alla
designazione da parte dei collegi elettorali della rosa da cui il sovrano
selezionava parte dei suoi membri. Suddiviso in varie sezioni, oltre che della
giustizia amministrativa in suprema istanza, sulla cui funzione quasi vicaria o
compensativa, per i singoli, dell’eclissi della sovranità popolare patita in
età napoleonica dalla collettività nel suo insieme abbiamo speso già qualche
parola, si occupava di interpretazioni degli statuti costituzionali, di
trattati di pace e di commercio, di nomine di grandi ufficiali, di esame dei
progetti di legge.
Napoli: un Consiglio di stato “speciale”.
Diversamente dal Senato,
istituzione attivata solo nel Regno italico, il Consiglio di stato esisteva
tanto a Milano quanto a Napoli, dove quest’organo riuscì, grazie alla rilevanza
sociale e culturale dei suoi membri, ad assumere surrettiziamente funzioni
pseudo-legislative, piuttosto che limitarsi all’esame ininfluente o quasi della
legislazione prodotta dall’esecutivo o all’esercizio della suprema
giurisdizione contenziosa. Era composto da 36 consiglieri, un segretario, otto
relatori, un numero indefinito di auditori, un vicepresidente, un presidente,
il re. Su ogni legge dava parere segreto. Il re decideva i membri, tra i più
meritevoli. Il voto era segreto, teoricamente. I ministri del Consiglio
lamentarono non solo l’eccessiva indipendenza, ma addirittura la vocazione a
esercitare un’opposizione vera e propria alle iniziative del governo. Il
Consiglio di stato di Napoli finiva per qualificarsi come un parlamento quasi
ideale, sebbene non elettivo, specie agli occhi di chi a un protagonismo
popolare suscettibile di tradursi nella controrivoluzione, preferiva il
perseguimento dei propri ideali egualitari attraverso lo strumento di una forte
azione di governo. Anche se il Consiglio non era elettivo aveva una sua
rilevanza per il fermento delle discussioni di intellettuali che vi avvenivano
all’interno, che non esitavano a schierarsi contro il governo.
Quando nel 1808 fu chiamato a
regnare sulla Spagna, Giuseppe Bonaparte, lasciatosi alle spalle Napoli da un
mese, emanò uno statuto per il regno che si accingeva a consegnare a Murat.
Parlamenti. L’ottavo capo di quella carta, intitolato “del
Parlamento” delineava la struttura di un corpo di cento membri, diviso in
cinque sedili: quello del clero, quello della nobiltà, quello dei possidenti,
quello dei dotti, quello dei commercianti. L’80% dei parlamentari sarebbe stato
insediato direttamente dal re, il 20% restante (in particolare l’intero settore
della possidenza) l’avrebbero invece segnalato i colleghi elettorali componendo
una rosa di nomi più lunga, che il governo avrebbe poi discrezionalmente
scremato. Mentre per gli ecclesiastici, nobili e dotti il seggio parlamentare
era inteso come vitalizio, possidenti e commercianti erano destinati a mutare a
ogni sessione. Il re avrebbe convocato il parlamento ogni tre anni, decidendo a
piacimento la durata di ciascuna sessione. Non ci si trovava di fronte ad
assemblee simili a quelle che esprimevano la sovranità popolare in Francia
negli anni ’90 o in Italia nel triennio repubblicano. Il parlamento disegnato a
Baiona era una riproposizione dei modelli di rappresentanza territoriale di
antico regime, visto che esso era chiamato a trattare delle sole materie date
ad esame dagli oratori di governo e non poteva nulla da sé proporre. Era privo
della facoltà di iniziativa legislativa e essendo le sue sedute segrete, voti e
deliberazioni che ne fossero scaturiti non avrebbero potuto essere resi
pubblici. Il testo di Baiona non faceva motto di popolo, sovranità, libertà
civile, e sicurezza personale. Questa costituzione, incerta commistione tra le
forme del costituzionalismo antico e qualche attuata eco dei contenuti di
quello moderno, non entrò mai in vigore, e dunque all’altezza della capitale la
sola parvenza di una potenzialità legislativa non direttamente succube
dall’esecutivo restò confinata nell’ambito del Consiglio di stato. La
prospettiva era quella di conciliare il sogno della costituzione del periodo
giacobino-democratico di fine ‘700 con l’emergenza dell’amministrazione che si
era imposta tra il 1806 e il 1814, quando Murat era impegnato in quella guerra
per l’indipendenza d’Italia nella quale, sciolti i legami con Napoleone, si
ritrovò solo contro le potenze che stavano organizzando un nuovo ordine
politico sulla penisola.
Le caratteristiche
fondamentali della costituzione di Murat (30 marzo) erano: due camere,
consiglio dei ministri, Consiglio di stato, le leggi proposte dal re, esaminate
dalle camere, le magistrature indipendenti, le amministrazioni dello stato
certe per leggi, le amministrazioni provinciali e comunali rette da
magistrature delle provincie e delle comunità, la stampa libera, le persone, le
proprietà sicure, le tante altre libertà e guarentigie usate in quelle carte.
Il 12 ottobre Murat venne giustiziato, anche se il regno lo perse già in
primavera, quando i Borboni avevano ripreso la porzione continentale con
l’aiuto inglese, da cui erano stati scacciati nel 1806. La costituzione murattiana,
dunque, rimase su carta, anche se in essa traspariva l’accoglimento del bisogno
della popolazione di partecipare al potere pubblico. Si voleva conciliare
libertà e autorità, legislativo e esecutivo, all’interno di un ordine giuridico
scevro di qualsiasi ipoteca vero-cetuale e tuttavia orientato nella direzione
del garantismo a tutto tondo, in forza dell’attivazione di meccanismi di
rappresentanza moderni. Tale tentativo, inoltre, rispondeva ad una doppia
sfida: quella della Costituzione di Cadice in Spagna, controllata dagli
insorgenti antifrancesi nel 1812, e quella che i Borboni erano stati costretti
dagli inglesi a lanciare, sempre nel 1812, dal loro provvisorio esilio
siciliano, rassegnati ad emanarla per ammansire l’insofferenza dell’autonomismo
insulare nei loro confronti.
La costituzione siciliana. La costituzione borbonico-siciliana del 1812-13
scaturiva da un disegno politico che il governo inglese veniva affiancando alle
operazioni militari degli ultimi anni della guerra antinapoleonica. Si trattava
di garantire regimi costituzionali al posto delle monarchie amministrative
imposte da Napoleone, come successore dei governi dinastici rimossi. Non era
del tutto il caso della Sicilia, dove sebbene la corte di Ferdinando fosse
presente e attivo un partito di funzionari suggestionati dall’amministrazione
napoleonica, il costituzionalismo antico, emblematizzato dalla presenza di un
parlamento tradizionale, nel quale si rispecchiava la perdurante centralità del
feudo e dei suoi istituti giuridici, non era stato sostanzialmente scalfito.
Qui lo scacco della monarchia amministrativa si manifestò come una sorta di
mossa preventiva, tesa ad evitare che essa venisse imposta dal ministro Medici,
come pareva egli fosse intenzionato a fare dopo un lungo braccio di ferro che
aveva visto nel 1810 parlamento e corte contrapporsi su questioni fiscali e che
aveva conosciuto un ulteriore sviluppo l’anno dopo con l’arresto e la
deportazione di alcuni baroni siciliani particolarmente attivi
nell’insubordinazione delle iniziative del governo.
La costituzione siciliana,
nata all’ombra del ministro inglese Bentinck, nella provvisoria evanescenza di
re Ferdinando, che ne fece garante il figlio Francesco, nominandolo generale
del regno, riprendeva larghi tratti del modello vigente in Gran Bretagna: due
camere, quella ereditaria dei pari, formata dagli ex componenti i bracci
baronale ed ecclesiastico del vecchio parlamento siciliano, e quella dei
comuni, la cui composizione derivava invece da elezioni censita rie, riunite in
un parlamento titolare del potere legislativo, da convocarsi da parte del re
almeno una volta l’anno. Un esecutivo designato dalla corona e nei confronti di
questa responsabile, con la riserva che il parlamento avesse sempre il diritto
di chiedere ragione di qualunque atto del potere esecutivo stesso, nonché di
sottoporre a processo i ministri per azioni ritenute contrarie agli interessi
della nazione. L’ulteriore facoltà accordata, però, al sovrano di respingere,
quando necessario, i testi approvai dalle due camere senza potersi ingerire
nella elaborazione di questi; un giudiziario, infine, separato dal legislativo
e dall’esecutivo, ma sottoposto al giudizio del parlamento per eventuali abusi
di potere denunciati dai cittadini. La regina Maria trovava tutto ciò un
tentativo degli inglesi di diminuire il potere della monarchia.
La nuova Costituzione, però,
sembrava anche schierarsi contro tutte quelle classi che avevano fruito dei
privilegi del costituzionalismo antico, come baroni ed ecclesiastici, che si
vedevano consegnata la Camera dei pari, ma veniva anche decretata l’abolizione
del feudalesimo, come avvenne nella parte continentale del regno, ad opera di
Giuseppe Bonaparte e poi di Murat, anche se in realtà i feudatari continuarono
a esercitare i loro privilegi sulle terre.
Per formare la Camera dei
Comuni vennero indette, per due volte, le elezioni, con vittoria dei
democratici, inclini al costituzionalismo francese, che cozzavano con i
meccanismi cetuali della Camera dei pari, decretando un’ambiguità tra
costituzionalismo antico e moderno, visto che non c’era stato lo scioglimento
dei ceti privilegiati, come avvenne nei due regni dell’Italia napoleonica, e la
loro conversione in soggetti di diritto privato.
Un bilancio. Ricostruendo le vicende italiane del ventennio
francese, in particolare Milano e Napoli, si è osservato prima il diffondersi,
a fine ‘700, di trasformazioni dell’ordine antico, che si sostanziava nei temi
della partecipazione della cittadinanza al potere e della sovranità popolare,
fondendo insieme la libertà degli antichi con quella dei moderni, ossia gli
spazi della democrazia diretta con quelli di impronta liberale. In età
napoleonica, al tema della partecipazione subentra quello della sua
organizzazione dall’alto, attraverso l’ascesa dell’amministrazione di stato
dalle caratteristiche eversive, rispetto agli assetti politico-istituzionali,
alle consuetudini collettive e agli umori della vecchia società, comunque
contraddistinta da giurisdizioni social-corporate rispetto alla giurisdizione
centrale, di natura spesso mista, contesa tra la discrezionalità sovrana e
l’autoreferenziale regolarità burocratica.
I tratti salienti del nuovo
stato sorto a Milano dopo l’eclissi del repubblicanesimo prima cisalpino, poi
italiano, e a Napoli dopo la cacciata in Sicilia dei Borboni nel 1806 era
quello di “monarchia amministrativa”. Se infatti la vecchia monarchia aveva una
dignità, la nuova non doveva essere che magistratura.
Antonio Sabatto, presidente
della Corte dei Conti del Regno Italico, dopo un passato giacobino, aveva
definito la Milano napoleonica un governo al tempo stesso democratico e
monarchico, in cui ci cittadini godono della stessa libertà ed uguaglianza di
diritti in faccia alla legge. Una monarchia che era stata capace di sciogliersi
dalla ritualità aristocratizzante caratteristica dell’antico regime, per
livellare tutti gli uomini e aprire la stessa carriera ascendente ai più
meritevoli.
È pur vero che l’espansione
dell’amministrazione di stato si era svolta in base a un processo violento,
quasi militare, sorreggendosi facendo della leva fiscale un uso assolutamente
inedito per intensità, durata, pervicacia. Ora le tasse le pagavano tutti ma le
persone su cui prima gravavano di più non ne traevano beneficio. C’era
malcontento negli strati sociali subalterni, e nell’aristocrazia impoverita dei
suoi privilegi. C’era la retinenza alla leva, la propensione a sottrarsi
all’anagrafe, l’illegalità e il banditismo, la fiducia riposta nel clero nelle
loro attività di assistenza e carità. Tutto ciò era espressione di un forte
sentimento di malessere.
Amministrazione e nazione. Un manipolo consistente di italiani nei primi
dell’’800 aveva creduto con determinazione nella bontà dello stato alla
napoleonica, ma ne aveva tratto lo stimolo per immaginare uno scenario che
tendeva a travalicare il mero dato politico-amministrativo per distendersi in
una progettualità politica più ampia.
Pur divisa in tre porzioni
distinte (i dipartimenti annessi all’Empire, il regno d’Italia, il regno di
Napoli), la parte continentale della penisola era stata governata al momento dell’apogeo
della potenza francese da leggi e istituzioni sostanzialmente comuni, quelle
elaborate da Napoleone per l’impero ed esportate oltralpe. Erano due i modi di
pensare: da una parte c’erano i nostalgici dell’antico regime, che nel 1814
rialzavano ovunque la testa, attendendosi dalla caduta di Bonaparte non solo il
ripristino della carta geografica della penisola anteriore al 1796, ma anche, e
soprattutto, lo smantellamento dello stato amministrativo e la riesumazione
delle antiche giurisdizioni social-corporate. Il partito delle istituzioni
napoleoniche, viceversa, nutriva il proprio immaginario di altri sogni. Per chi
ne faceva parte quell’uniformità di ordinamenti costituiva tanto il condensato
di un progetto politico affidato al braccio solo apparentemente tecnico
dell’amministrazione, quanto il presupposto obbligante per lo sviluppo di un
disegno di respiro nazionale, che si presentava inconciliabile con la
riproposizione dei vecchi ordinamenti cetual-particolaristici. Si trattava di
figure che, dopo aver sognato da giacobini a fine Settecento la nazione come
fisiologica incarnazione della sovranità popolare, vedevano ora in essa il
naturale spazio di irradiazione dell’amministrazione in cui avevano militato
durante gli anni del consolidamento napoleonico nel regno d’Italia e in quello
di Napoli.
Nel 1814, appena caduto il
Regno italico, la forza del sistema, ossia di un’amministrazione, era la
valutazione dei particolarismi territoriali che i regimi napoleonici avevano
tentato di riproporre, tenendo gli italiani divisi, e gli austriaci che si
apprestavano ad intervenire non avrebbero dovuto fare lo stesso errore.
I diritti dell’esecutivo. I pieni diritti dell’esecutivo: quella conquista
recente, vanamente perseguita dalle politiche riformatrici del tardo ‘700 e
realizzata da Napoleone, non doveva andare dispersa, e non era auspicabile che
venisse disarticolato il nuovo sistema territoriale che aveva trasformato le
piccole patrie dell’antico regime in uno stato unitario, di cui i governanti
andavano fieri. Il popolo era una cosa sola: stesse armi, stesse abitudini,
stessi codici e finanza.
Ciò che il governo austriaco
non avrebbe dovuto fare, ora, sarebbe stato quello di dividere nuovamente
questi territori, che condensati in quel modo esprimevano energia e consenso
nei confronti di un pubblico potere dinamico e incisivo. Il Congresso di Vienna
minacciava di far resuscitare, invece, i particolarismi territoriali.
La parte più dinamica della
società italiana si riconosceva volentieri nell’egualitarismo dei codici, nella
certezza della proprietà, nel principio della ricompensa al merito,
nell’effervescenza sociale indotta dalla cancellazione della società per ordini
e dei suoi confini geografici, oltre che mentali e istituzionali.
Metternich aveva scelto delle
persone sentinelle per capire come funzionava lo stato italiano, nei settori
più vari della società post-Napoleone. Nelle sue orecchie i suoi informatori
trovavano la disposizione ad apprendere i segreti del corretto funzionamento
delle moderne istituzioni amministrative napoleoniche, che viceversa i primi
passi della restaurazione stavano in molte parti d’Italia mettendo radicalmente
in forse.
Capitolo 4
I tempi lunghi delle monarchie amministrative
(1815-1848)
L’Italia della restaurazione. Nel 1815 l’Italia semplificata territorialmente e
istituzionalmente, caratteristica dell’epoca napoleonica, era tornata a
sfrangiarsi. Praticamente si considerava il ventennio 1796-1815 da cancellare,
ripristinando i sistemi precedenti. Quel principio, però, venne fatto valere
solo in alcuni casi che andavano palesemente a vantaggio della monarchia.
Vennero spazzati via i regimi oligarchico-repubblicani (come Venezia, Genova,
Lucca) e la forma monarchica tornò un po’ ovunque (tranne nella repubblica di
San Marino, enclave interno della Romagna pontificia), a volte di stampo
settecentesco, altre rivisitate.
Erano tornati sul trono i
Savoia e i Borboni, in epoca napoleonica confinati in Sardegna e in Sicilia. I
Savoia avevano aggiunto ai loro domini la Liguria, mentre i secondi erano
tornati in possesso di tutti i territori che avevano costituito prima del 1806
i regno di Napoli.
Così, grazie al recupero dei
dipartimenti imperiali (Umbria e Lazio) quanto di quelli italici (Marche,
Romagna, Emilia), lo Stato pontificio risultava ora di nuovo compatto sotto lo
scettro papale.
Risorgevano i ducati padani:
Parma e Piacenza, che il congresso di Vienna consegnò a Maria Luigia d’Asburgo,
figlia dell’imperatore d’Austria Francesco I e moglie di Napoleone (il
principio di legittimità qui si incrina, perché sarebbe stato dei Borboni).
Modena e Reggio andarono
sotto il dominio di Francesco IV d’Austria e dal 1829 vennero integrate con i
territori toscani di Massa e Carrara, che tra il 1814 e il 1829 erano stati di
Maria Beatrice d’Este, madre di Francesco IV e vedova dell’arciduca Ferdinando
d’Asburgo.
Il granducato di Toscana
andava a Ferdinando III d’Asburgo Lorena e nel 1847 si sarebbe arricchito del
ducato di Lucca, sin lì autonomo prima sotto lo scettro di Maria Luisa di
Borbone, poi sotto quello di suo figlio Carlo Ludovico.
Oltre ciò, la presenza degli
Asburgo si sentiva in tutta la parte centro-orientale del nord della penisola.
L’ex Lombardia austriaca,
unita ai territori a est del Mincio, che a fine ‘700 avevano dato vita alla
parte continentale della repubblica di San Marco, formava il regno
Lombardo-Veneto, soggetto direttamente a Vienna e affidato a un vicerè membro
della famiglia reale.
Il Trentino risultava
aggregato alla provincia asburgica del Tirolo, come porzione meridionale di
questa. Trieste con la regione della Giulia, era parte di un’altra provincia
asburgica, quella del Litorale.
L’egemonia degli Asburgo non
si limitava solo al nuovo quadro politico territoriale italiano, ma in virtù
degli accordi del Congresso di Vienna, l’Austria era considerata la garante
dell’interno status quo della penisola e godette durante la restaurazione della
prerogativa di mantenere propri contingenti militari anche in altri stati,
esercitando una pesante e obbligante tutela. Fu palpabile prima del ’48 con i
tentativi di rovesciamento dell’ordine, uno nel 1820 e l’aktro nel 1821, con i
moti costituzionali delle Due Sicilie e del Piemonte, e nel 1831 con le
insurrezioni di Modena, Reggio e delle Legazioni pontificie.
Quando Manzi, Mulazzani,
Guicciardi inviavano tra il 1816 e il 1821 i loro rapporti informativi a
Metternich si rivolgevano non solo al cancelliere, ma all’uomo che teneva il
potere dell’intero impero austriaco.
Mancavano diversi tasselli
all’ordine territoriale e al tempo stesso l’avvicinamento degli italiani,
promosso dalla tripartizione napoleonica della penisola sotto leggi e
istituzioni comuni, risultava vanificato e disperso nella nuova Italia delle
dinastie, in omaggio al principio di legittimità monarchica.
La nozione di territorio: una parziale
rinascita. Non ci si
ritrovava solo di fronte ai vecchi confini territoriali, ma anche gli stessi
italiani si allontanarono gli uni dagli altri, anche per la nuova differenza di
ordinamenti, tra stato e stato. La distanza tra il modello statuale napoleonico
e quello caratteristico degli stati restaurati, in cui riemergevano le logiche
di antico regime improntate al riconoscimento di un particolarismo
istituzionale territoriale. Nelle parti del regno di Sardegna che in precedenza
avevano costituito la repubblica di Genova, l’assetto francese in campo civile,
giudiziario e militare fu in parte mantenuto, mentre nel resto dei domiuni
sabaudi veniva abolito. Ciasscuno dei distretti liguri fu inoltre dotato di un organo
consiliare di rappresentanza, altrove inesistente, senza il cui beneplacido non
era possibile registrare alcun decreto regio relativo a nuove tasse. Genova,
infine, venne gratificata di alcuni privilegi municipali sconosciuti in
qualsiasi altra città del regno.
Nell’isola di Sardegna, fino
alla fine degli anni ’30, continuò a vigere il feudalesimo (sebbene in forma
patrimoniale priva di risvolti giurisdizionali) di cui era stata confermata
l’abolizione nelle porzioni continentali del dominio sabaudo. La legge di
coscrizione militare non venne applicata e solo nel 1848 vennero introdotti gli
stessi codici vigenti in Piemonte, Savoia e Liguria.
Nel regno delle Due Sicilie
si assistette per la prima volta all’unificazione della componente continentale
con quella isolana, quindi saldando i regno di Napoli con quello di Sicilia.
Anche l’estensione alla Sicilia del sistema amministrativo vigente nelle
provincie continentali, seppur con molte difficoltà che impedivano
l’uniformazione del territorio. La procalamazione dell’unità del regno,
avvenuta l’8 dicembre del 1816, fu seguita dalla legge 11 dicemnbre 1816 che
separava la sfera di influenza di Napoli e Palermo, salvaguardava i diritti dei
siciliani riservando loro la maggior parte delle cariche dell’isola e un quarto
di quelle del regno, istituiva la luogotenenza di sicilia retta da un principe
reale o altro eminente personaggio, coadiuvato da più direttori, posti a capo
di ministeri o segreterie di stato locali, rimetteva l’amministrazione della
giustizia alla magistratura siciliana e subordinava l’imposizione fiscale
eccedente una determinata quota all’approvazione di organismi di
rappresentanza.
Tra il 1818 e il 1819 avvenne
l’istituzione della gran Corte dei conti di Palermo, l’abrogazione
dell’ordinamento giudiziario locale e la sua sostituzione con quello
napoletano, l’istituzione di una suddivisione circoscrizionale del territorio
articolato per provincie con a capo un intendente, chiamate ancora, come da
tradizione locale, valli. Abolizione del feudalesimo, uniformazione tra le due
parti del regn, seppur con difficoltà. Se da un lato il nuovo disegno
dell’articolazione amministrativa rimase monco per la tenace resistenza dei
siciliani, la giustizia patrimoniale dei baroni rimase in vigore nell’isola fino
al 1838, quando a Napoli ci fu un forte impulso teso a punire la Sicilia per i
vari tentativi insurrezionali sviluppatisi in alcune sue città nell’anno
precedente.
Come in Sardegna anche in
Sicilia la coscrizione militare non venne introdotta e per formare i
contingenti isolani dell’esercito borbonico si fece ricorso a volontari e
carcerati. M
Nello Stato pontificio,
invece, l’abolizione del servizio militare fu una delle prime misure prese dal
papa a beneficio di tutti i suoi sudditi, tanto quelli ex imperiali quanto
quelli ex italici. Ed era difficile immaginare un segnale di discontinuità più
netto rispetto al passato recente. Nel segnale venne rafforzato dalla vigenza
di ordinamenti giuridici e amministrativi diversi, nelle province
rispettivamente dette di prima (Lazio e Umbria, già dipartimenti dell’Empire) o
di seconda recupera (Marche, Romagna, Emilia, già appartenute al regno
d’Italia). Anche in questo caso la differenza consisteva essenzialmente nelle
modalità di rapporto con l’eredità napoleonica. Essa venne mantenuta nei
territori di seconda recupera e contraddetta in quelli di prima, dove tornarono
frammenti di giurisdizione feudale fino al 1848.
Se in età napoleonica, nel
sistema tripartito, lo stato aveva giuridicamente e istituzionalmente reso
omogenei gli spazi e le popolazioni che vi abitavano, nell’isola policentrica
dei primi anni della restaurazione la nozione di territorio in linea di
principio cessò di costituire un corollario di quella di stato e tornò a
imporsi con tratti almeno formalmente autoreferenziali che riproponevano la
tradizione storico-particolaristica di antico regime.
Sono pochi gli stati
dell’Italia post-napoleonica che si sottraggono a questa constatazione
preliminare. Il fatto che il Lombardo Veneto austriaco sia uno di questi
costituisce un motivo in più per spiegare quell’ansia di conoscere i segreti
dell’amministrazione alla francese di cui Metternich dette prova quando, tra il
1816 e il 1821 organizzò la sua personale rete informativa in Italia.
Lo sguardo su Vienna. Della volontà di conservare quanto possibile
dell’eredità amministrativa napoleonica, come la pienezza dei diritti
dell’esecutivo, alle alte sfere viennesi era stato parlato con calore. A
esprimere le loro valutazioni non erano più gli informatori italiani, ma gli
alti funzionari austriaci inviati a gestire la transizione dal regime cessato a
quello nuovo, che a Vienna non si immaginava all’insegna di un mero ricalco del
precario equilibrio tra governo e giurisdizioni cetuali cristallizzati dalla congiuntura
tardo-settecentesca, ma in continuità con la linea di Giuseppe OO, prima che il
fratello Leopoldo nei primi anni ’90 avviasse una precipitosa marcia indietro. Gli
ammiratori austriaci dell’esecutivo alla francese non tardò a schierarsi in
campo e ad esprimere l’auspicio, da un lato, che la forza degli apparati di
governo nelle province italiane destinate a formare il regno Lombardo Veneto
venisse intaccata il meno possibile, dall’altro che al mondo dei nostalgici
dell’antico regime, soprattutto aristocratici che volevano ripristinati i loro
privilegi, non si offrissero che soddisfazioni formali buone a illuderli ma non
ad assecondarli.
Bonapartisti insospettati. Ma l’ammirazione per il modello franco napoleonico,
per quel che riguardava l’efficienza amministrativa e l’uniformazione del
territorio, si rivelò nel biennio 1814.15, durante il quale in ciascuno degli
stati della penisola si procedette alla rifondazione dei pubblici apparati
nella nuova cornisce monarchico legittimista, un sentimento molto diffuso al di
là dei precedenti interpreti.
In Sicilia, tra il 1806 e il
1815, che aveva riparato i Borboni scappati da Napli, si era formato un partito
formato da Luigi de’ Medici e Donato Tommasi, che osservavano l’operato di
Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, leggendo in esso l’inveramento dei vani
sforzi tardo settecenteschi del governo regio di sottrarsi alle vischiosità
della giurisdizione cetuale e togata. Entrambi erano illuministi, e premevano
perché il ritorno dei Borboni non si traducesse in un ritorno all’antico
regime. In breve, difendevano le conquiste del decennio: codice, sistema
giudiziario e legislazione amministrativa.
Nello Stato pontificio erano
riemersi particolarismi territoriali e cetuali dopo il ritorno a Roma del
pontefice, evidenziandosi nelle provincie di prima e seconda recupera. Pio VIII
però scriveva che l’unità e l’uniformità erano le basi di ogni politica
istituzione, lasciando da parte differenze e difformità anteriori
all’esperienza napoleonica.
Un desiderio di uniformità. L’aspirazione a un ordine uniforme, anche se
legittimato da principi diversi da quelli napoleonici, mostrava solide radici
agli esordi della restaurazione. Ovviamente molti sovrani non vedevano di buon
occhio, ad esempio, l’accentramento del potere esecutivo, perché tendevano a
difendere il potere monarchico. Dichiarato in tal senso il preventivo
disconoscimento degli istituti della sovranità popolare e della cittadinanza
politica dalla cui riconferma verbale la costruzione statuale napoleonica non
aveva ritenuto di poter comunque prescindere, salvo vanificarne nei fatti
l’effettualità, si trattava di incorporare all’interno della tradizionale
raffigurazione dell’istituto monarchico la strumentazione istituzionale che i
governi filofrancesi avevano messo a punto mutandone contestualmente il
soggetto di titolarità, non più la nazione ma la corona, braccio terreno di
investitura celeste. I sovrani ora erano muniti delle strutture operative
idonee a imporre il loro potere a un popolo oramai composto non più da
cittadini, ma da sudditi.
Si trattava, dunque, di
reinnestare il nuovo corso monarchico sul filone dell’assolutismo
prerivoluzionario e di contenere la riemersione delle giurisdizioni cetuali e
territoriali che ne avevano allora inceppato il passo, adoperando a tal fine a
beneficio strumentale del potere regio le armi che l’eversione
rivoluzionario-napoleonica del vecchio ordine metteva a disposizione. Da un
lato il monopolio statale del pubblico potere e l’irradiazione
dell’amministrazione come amministrazione dello stato, dall’altro la
codificazione, inconciliabile con un progetto che perseguiva l’obiettivo di
un’alleanza tra trono e altare.
Se nel regno di Sardegna il
periodo napoleonico venne spazzati via senza ripensamenti, in molti altri ci
furono situazioni più contraddittorie e meno drastiche.
Gli esiti di un compromesso. Bisognava comunque mantenere l’abolizione del
feudalesimo. C’erano dei territori come la Sardegna, per quel che riguardava i
Savoia e la Sicilia per i Borboni, che ne erano rimasti immuni. Inoltre alcuni
particolarismi territoriali avevano ripreso il regime, tornando all’antico. In
Sardegna erano resuscitate le corporazioni d’arti e mestieri, organo tipico
prerivoluzionario. Chi aveva sperato nelle autonomie cittadine regolate da
statuti rimase deluso. Le vecchie immunità cittadine, come Venezia, Genova,
Lucca, San Marino, piccole repubbliche aristocratiche più che stati monarchici,
non ripresero forma. Tuttavia né il contenimento del feudalesimo, né il
dissolvimento delle città patrizie furono artefici di una politica
antinobiliare, che si scatenò sotto napoleone eliminando i titoli nobiliari,
portati a cittadini. Nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e Murat i nobili
avevano conservato il loro titolo e i nuovi nobili erano stati creati
privilegiando gli alti funzionari dell’amministrazione e gli alti gradi
dell’esercito. Anche nella Milano di Beauharnais, come nella Parigi di
Napoleone e nei dipartimenti italiani annessi all’Empire, si era formata una
nuova nobiltà, aperta anche alle antiche cariche nobiliari che ne avessero
fatto richiesta, anche se riluttanti all’inquadramento nella “monarchia
amministrativa”. La nobiltà dell’Italia napoleonica era contraddistinta da un
inedito timbro sociale e da un’esiguità rispetto a quella degli antichi stati.
Inoltre il titolo nobiliare non comportava più alcun privilegio di carattere
giurisdizionale. Davanti alla legge si era tutti uguali.
Le case regnanti della
restaurazione di orientarono verso una soluzione anfibia, ripristinando nel
godimento dei titoli le famiglie della nobiltà prerivoluzionaria, consentendogli
di scegliere tra la conferma dell’investitura antica o nuova, ma al tempo
stesso confermarono nella condizione nobiliare gran parte dei neo nobilitati da
Napoleone che non avessero titoli antichi da vantare. Si comportarono
variamente nei confronti dei nobili ad personam, cavalieri e commendadori, che
l’invenzione napoleonica dei nuovi ordini cavallereschi aveva generato.
Nel regno delle Due Sicilie i
Borboni avevano istituito l’ordine cavalleresco di San Giorgio della Riunione
nel 1818, assorbendo all’interno dei suoi ranghi coloro che avevano ricevuto
negli anni precedenti l’onorificenza napoleonica delle Due Sicilie, optarono
per il consolidamento della quasi nobiltà di cavalieri e commendadori. Nel
Lombardo Veneto, invece, gli Asburgo trasformarono l’ordine italico della
corona di ferro, che era stato ricco di membri a migliaia, nell’omonimo ordine
austriaco, dotato di poco più di cento piazze, pochissime delle quali spettarono
a ex cavalieri o ex commendadori napoleonici.
Nobile, che vuol dire? In capo al 1816, data che segnò la transizione tra
sistema napoleonico e restaurazione, la vecchia nobiltà poteva esercitare
nuovamente i propri titoli. Ma a che servivano? Nobile non significa più
soggetto detentore di una giurisdizione feudale, né depositario di un’immunità,
né persona legittimata a godere di un foro speciale diverso da quello del
suddito comune. La nobiltà si risolveva in una mera dimensione onorifica e non
si identificava più con l’esercizio di una capacità giurisdizionale alternativa
o complementare a quella statale. Pur riesumando la nobiltà, rimaneva una
continuità con l’ordine napoleonico. Le monarchie dell’antico regime erano
nobiliari, mentre quelle post-napoleoniche erano amministrative, dove la
nobiltà non aveva più lo stesso rilievo costituzionale di un tempo. In
controtendenza, nel Lombardo Veneto e nello Stato pontificio, dove ai nobili
gli venne riservato uno spazio a parte all’interno di alcuni organismi di
rappresentanza. Nel complesso, nello specchio delle istituzioni, il ruolo
vicario un tempo assolto dall’aristocrazia nell’esercizio del pubblico potere
venne disconosciuto, nel senso che la giurisdizione centrale dello stato
risultò ovunque egemone rispetto alle giurisdizioni territoriali.
Profili istituzionali della
restaurazione italiana: regno di Sardegna e Lombardo-Veneto. Nel regno di Sardegna Vittorio Emanuele I già nel
maggio del 1814 aveva esternato la propria intenzione di riportare tutto allo
status quo anteriore all’esperienza francese. Nel 1816, nonostante il governo
fosse sempre stato di tipo assolutista, si articolò in un sistema di ministeri
centrali (Interni, Esteri, Guerra, di Sardegna, Finanze, Polizia), affiancati
per la parte finanziaria da una tesoreria generale, i cui titolari si riunivano
due volte a settimana nel consiglio di conferenza presieduto dal re.
Dall’amministrazione centrale dello stato, così delineata, dipendevano i
governatori (militari) e gli intendenti generali (civili) preposti alle
cosiddette divisioni militari, sorta di macroprovincie a loro volta suddivise
in provincie affidate a comandanti e intendenti. Al di sotto della provincia si
davano due ulteriori micro ritagli amministrativi: i mandamenti, ambito di esercizio
delle funzioni dei giudici di prima istanza, e i comuni, i componenti del cui
consiglio venivano nominati dall’intendente e il cui sindaco, oltre che da
quest’ultimo, era nominato anche dal re in persona, nel caso dei comuni
maggiori.
Nel regno Lombardo-Veneto, i
cui due governi (Milano e Venezia) erano coordinati da un viceré, esistevano
due strutture esecutive parallele e uguali, rispettivamente per le provincie
della Lombardia e del Veneto, su una e l’altra sponda del fiume Mincio. In
ciascuna delle due capitali del regno si riuniva un consiglio di governo
presieduto dal governatore. Dal 1829 ciascun governo si divise in Senato
politico e un magistrato camerale, ma durante i primi tre lustri esso formò un
consesso unico a Milano e a Venezia. Consiglio di governo e, dal 1829, le sue
due sezioni distinte erano affiancate da una serie di direzioni centrali
incaricate di vari compiti particolari (polizia, gestione delle acque, delle
strade…) e si irradiavano sul territorio, nelle 17 provincie in cui il regno
era diviso (9 in Lombardia, 8 in Veneto) per mezzo di uffici denominati
delegazioni provinciali, affidati a un delegato provinciale, e intendenze
provinciali, dirette da un intendente di finanza. All’interno delle provincie
si ritagliava la trama dei distretti, retti da un funzionario denominato fino
al 1819 cancelliere del censo e da quella data in avanti commissario
distrettuale, dipendente per le materie politiche dal delegato provinciale e
per quelle di polizia dalla direzione centrale di polizia. Ogni distretto
comprendeva più comuni, ciascuno munito di organismi collegiali che assumevano
denominazione diversa a seconda del rispettivo rilievo demografico, e la cui
composizione rifletteva, in ragione di modalità variabili, i rapporti di forza
all’interno della società locale, che in un’ampia fascia di comuni li designava
direttamente.
I ducati padani e il granducato di
Toscana. A Parma ci sono alcuni
ministeri il cui numero da 2 aumentò a 4 nel 1851 (Interno, Finanze, Grazia,
Giustizia e Buongoverno, Esteri), riuniti periodicamente dal sovrano nel
consiglio intimo delle conferenze, affiancato da un Consiglio di stato di 11
membri le cui funzioni ricalcavano quelle dell’omonimo organo di età
napoleonica. In dipendenza dagli organi centrali si collocavano poi due
governi, uno a Parma e uno a Piacenza, retti da governatori che avevano a loro
volta alle proprie dipendenze gerarchiche dei funzionari titolari delle
macrounità amministrative che racchiudevano i comuni: ne furono introdotte 13
nel 1821, con il nome di distretti, poi ridotte ad appena tre nel 1831, con il
nome di commesse rie. I comuni, a loro volta, erano dotati di un organo
rappresentativo, il consiglio degli anziani, la cui composizione derivava dalla
nomina governativa, effettuata a partire dalla lista dei maggiori contribuenti,
compilata dal consiglio stesso all’atto del suo primo insediamento d’ufficio
dall’alto, e di un organo esecutivo nominato dal sovrano sulla base di proposte
formulate dal consiglio.
Nel contiguo ducato di Modena
e Reggio ci si presenta un’amministrazione centrale affidata a 3 ministeri (4
dal 1831) e a un’intendenza generale dei beni camerali, cui si riconnettono,
nel territorio, i governatori, i cui titolari (governatori) ricevono però in
parte ordini direttamente dal granduca, quasi configurandosi come funzionari di
una monarchia in cui la dimensione patrimonial-familiare fa aggio su quella
statale in senso proprio, e in cui, dunque, la figura giuridica dello stato
stenta a smarcarsi dalla struttura della dinastia sovrana e dalla propensione
di questa a percepire il governo del territorio come governo della casa.
All’interno di ciascun governatorato è compreso un certo numero di comuni, i
cui organi istituzionali (consiglio e giunta) sono designati entrambi dal sovrano
sulla base di liste di proprietari terrieri compilate dal primo consiglio insediato
e poi dai consigli che ne raccolgono l’eredità, mutando parzialmente di volta
in volta composizione.
Nella Firenze degli Asburgo
Lorena quello che ci si schiude davanti è un panorama abbastanza eccentrico
rispetto agli altri. Infatti, accanto alla figura del granduca, le istituzioni
burocratiche centrali veramente nevralgiche sono due: quella della presidenza
di buon governo (polizia) e quella della segreteria di stato, il cui titolare,
il ministro segretario di stato, sovrintende alle segreterie degli Interni,
delle Finanze, della Guerra e degli Esteri. I titolari delle segreterie degli
Interni e delle Finanze, denominati direttori, formano insieme al ministro
segretario di stato il consiglio del principe, supremo organo di raccordo di un
governo che, a causa della modestia del proprio tasso di autonomia rispetto al
sovrano e alla corte, è stato non a torto definito un “governo di famiglia”. E
qui riemerge, dunque, una caratteristica che abbiamo osservato anche a Modena.
Questo esecutivo toscano risulta tutt’altro che napoleonico, in quanto la
commistione con il regime giudiziario è tipica dell’antico regime. Accanto ai
ministri e ai direttori raccolti nel consiglio del principe incontriamo nei
giudici che compongono la reale consulta civile e criminale, un organo che non
ha funzioni giudiziarie, ma che interferisce nell’attività operativa delle
segreterie, e che dispone inoltre della prerogativa di proporre leggi in relazione
a materie riguardanti la pubblica amministrazione.
Governatori e commissari non
sono gli omologhi di quei funzionari periferici, figli come i prefetti e i
viceprefetti napoleonici del principio della divisione dei poteri, che abbiamo
censito nei diversi stati. Sono bracci operativi locali tanto della struttura
propriamente ministeriale e segretariale, quanto di quella giudiziaria che ha
per vertice la reale consulta: sovrintendono all’amministrazione e alla
giustizia al tempo stesso. Tuttavia essi si trovano davanti come interlocutori
locali dei municipi depotenziati delle loro competenze, il cui organo esecutivo
viene designato dal granduca (il gonfaloniere, il sindaco) e dagli uffici
centrali (i priori, ossia i membri della giunta comunale).
Lo Stato pontificio e il regno delle Due
Sicilie. Centralistico con
provincie di prima e seconda recupera. Alla direzione del segretario di stato è
sottoposta a Roma una serie di congregazioni, incaricate di provvedere salla
capitale tanto all’amministrazione civile quanto a quella religiosa.
Le provincie in cui è diviso
lo stato sono 17, chiamate delegazioni o legazioni, e a capo di ognuna c’è un
delegato (o legato), che insieme ai due assessori e alla congregazione
governativa, i cui membri sono a nomina pontificia, coordina e dirige i
governatori, muniti di competenze miste amministrative e giudiziarie
(commistione di funzioni, come in Toscana, che l’era napoleonica aveva
cancellato) e posti a capo di uno dei governi in cui ogni delegazione (o
legazione) è ripartita.
All’interno di ogni governo
si materializza un numero variabile di comuni, retti da un consiglio nominato
dal delegato (o dal legato) e poi soggetto a parziale rinnovo annuale
attraverso un sistema di cooptazione da un gonfaloniere e da un corpo di
anziani designati dalle autorità governative sulla base di terne presentate dal
consiglio stesso.
Nella parte meridionale dello
stato l’eredità napoleonica è più intensa. Donato Tommasi, primo ministro
dell’Interno nel regno restaurato, insieme a Medici impose un disegno
articolato in ministeri e segreterie (nel 1817 sono 7: Interni, Esteri, Grazia
e Giustizia, Affari ecclesiastici, Finanze, Guerra e Marina, Polizia) che hanno
inizialmente competenze solo sulla parte continentale del Mezzogiorno, mentre
la Sicilia risulta diretta da un luogotenente generale, dal quale dipende un
ottavo ministero, diviso in tanti ripartimenti quanti sono i dicasteri
napoletani a cui corrisponde. Con l’aggiunta di altri elementi scelti dal re i
ministri formano il Consiglio di stato ordinario, che non ha nulla a che fare
con quello napoleonico. Mentre i membri di quest’ultimo erano notabili vecchi e
nuovi estranei all’esercizio di cariche ministeriali, e dunque capaci di configurare
il Consiglio come contrappeso all’esecutivo, quello che si raduna dopo il 1815
è un consiglio dei ministri allargato, in cui il sovrano dirige i lavori. L’eredità
napoleonica è presa in parte dal supremo consiglio di cancelleria, che però ha
funzioni consultive, e le contenziose sono attribuite alla Corte dei conti. I
pareri sono subordinati al re e non sono deliberanti.
A Napoli i mutamenti
istituzionali della restaurazione si sentono, mentre nell’amministrazione si ha
un’impalcatura precedente. Le provincie sono rette da funzionari che continuano
a chiamarsi intendenti, dipendenti dal ministero dell’interno, e i distretti da
sottintendenti, di nomina regia entrambi. Al fianco dell’intendente, proprio
come in era napoleonica, c’è un consiglio di intendenti, formato da notabili
locali e incaricato dell’erogazione della giustizia amministrativa in prima
istanza.
All’interno di ciascun
distretto, controllato da intendenti e sottintendenti, si trovano i comuni
suddivisi in classi (come in era napoleonica) in ragione demografica e
patrimoniale. Essi sono amministrati da un consiglio (decurionato) nominato dal
re o dagli intendenti sulla base di liste di eleggibili, soggetti dotati di
requisiti di censo e capacità, la cui composizione è del consiglio stesso,
sotto la supervisione dell’intendente e del sottintendente. Il consiglio
propone la terna da cui il re o l’intendente selezioneranno sindaco e la giunta
di due eletti, con competenze amministrative locali.
In Sicilia, formalmente unita
a Napoli, c’è un raddoppio del sistema continentale. Esiste l’ottavo ministero
a Palermo a cui fanno capo i ministeri e le segreterie di stato isolani. Per
un’amministrazione analoga a quella del regno continentale bisognerà attendere
il 1819, quando un decreto regio abroga parte degli ordinamenti local-feudali
ancora esistenti e istituirà circoscrizioni rette da intendenti chiamate valli
e non provincie. L’effetto delle intendenze non riuscirò a insediarsi
compiutamente.
Il nuovo volto della giustizia. Un
profilo di massima. L’amministrazione
giudiziaria era stata separata dall’esecutivo dallo stato napoleonico,
impedendo di interferire ulteriormente nei processi decisionali di quest’ultima
e immaginando un’amministrazione contenziosa per l’esercito della giustizia
nell’amministrazione, modellata in base al criterio gerarchico-verticale che
caratterizzava la struttura dell’esecutivo. Oltre all’ambiguità e
sovrapposizione tra giudiziario ed esecutivo riscontrate in Toscana e nello
Stato pontificio, essa si avverte anche altrove, erodendo il modello francese e
basandosi sul fatto che i magistrati si configurino come funzionari di stato
titolari di una giurisdizione unica e sulla loro distribuzione sul territorio
in forma di giudice monocratico (giudici di pace e giudici distrettuali) o
collegiale (tribunali civili e penali a livello di provincia, tribunale
d’appello a livello macroprovinciale, Corte di cassazione nella capitale).
Nel regno di Sardegna tornano
a fiorire le giurisdizioni speciali e fino al 1822 i magistrati, privati di
stipendio fisso, vengono retribuiti con le spotule
corrisposte dalle parti. Nel 1847 si tornerà a un sistema di giustizia unica e
gerarchizzata come il modello francese di qualche decennio prima.
Nel Lombardo-Veneto la
giustizia è una sola, ma con l’attribuzione alla magistratura ordinaria delle
funzioni di giustizia amministrativa, in epoca napoleonica affidate ai consigli
di prefettura e al Consiglio di stato, tende a riproporsi quel sistema basato
sull’interferenza tra funzioni distinte di cui immediatamente verranno
denunziati dai funzionari dell’esecutivo gli esiti in termini di flessione
nell’efficacia dell’operato dell’amministrazione.
In Toscana, benché ci sia lo
schema napoleonico delle funzioni separate di esecutivo e giudiziario,
bisognerà attendere gli anni ’40.
Nello Stato pontificio fino
al cuore degli anni ’30, ma alcune giurisdizioni particolari resteranno attive
fino al ’48.
Gli uomini dell’amministrazione. Il
problema degli “esteri”. Per un
verso, dunque, le ripartizioni amministrative che ritagliano i territori degli
stati preunitari, per l’altro i lineamenti delle istituzioni affidate a
funzionari designati e in linea di massima stipendiato dallo stato (con
temporanea eccezione dei giudici sabaudi), cui è delegato il compito di
esercitare la funzione amministrativa e giudiziaria. Nell’Italia napoleonica
sussisteva invece un modello unico.
In base a quali criteri venne
reclutato il corpo burocratico che operò durante i decenni della
restaurazione?le storie furono diverse. La piena stabilizzazione del sistema
napoleonico nelle varie parti d’Italia si era tradotta nella promozione di un
corpo burocratico professionale dai marcati tratti borghesi, anche se non privo
di vistose presenze nobiliari. Un ruolo significativo l’aveva giocato, specie
nei dipartimenti dell’impero e del regno di Napoli, una componente straniera
formata da cittadini francesi inviati da Parigi a governare territori italiani,
quasi a consolidare la presenza di un secondo esercito transalpino accanto a
quello militare. Con il 1814 questa componente scomparve ovunque. Nel
Lombardo-Veneto (nelle provincie venete nella quasi totalità degli apparati
burocratici, in Lombardia limitatamente ai settori della polizia e
dell’amministrazione giudiziaria) negli anni immediatamente seguenti all’avvio
del nuovo sistema (e in misura poi decrescente nei decenni successivi) accadde
che accanto a funzionari di estrazione locale se ne trovassero anche di
originari delle province tedesche dell’impero asburgico. E il fatto fu
rimarchevole anche perché qui, durante gli anni napoleonici, il sistema
amministrativo non aveva al suo interno una componente francese, dunque quello
insediatosi dal 1816 con funzionari , giudici e commissari di polizia tedeschi
venne visto come un governo straniero, molto più del precedente.
Nel resto della penisola
l’esercizio di una carica statale retribuita e appartenenza sotto il profilo di
nascita o naturalizzazione allo stato in cui essa veniva espletata, si propose
come un dato di fatto. Ma la scomparsa dei francesi dalle amministrazioni dei
territori del regno di Napoli o dell’Empire non fu il solo fenomeno
caratteristico dei primi anni della restaurazione.
Una rivincita aristocratica? Nel regno di Sardegna, alla ripresa del governo
sabaudo corrispose anche l’intenzione di emarginare il ceto burocratico locale
che sotto Napoleone aveva fatto da scorta ai francesi nel governo del
territorio. E successivamente al 1814 i regnanti si illusero di poter
restituire agli appartamenti pubblici lo stesso profilo umano del prima della
parentesi napoleonica, cercando di ripristinare codici e cariche nobiliari.
Quella che ne derivò fu una massiccia aristocratizzazione dei ruoli di comando
e il virtuale proporsi dell’amministrazione (e dell’esercito) come una specie
di riserva nobiliare. Era il 1847.
La revanche nobiliare si
presentò come un fenomeno di immediata presa visiva nel Lombardo-Veneto, dove
tra il 1816 e il 1821 furono numerosi coloro che, notabili in era napoleonica e
dunque impegnati nell’esercizio di cariche di respiro locale, più che di vero e
proprio servizio di stato, affiancarono i funzionari austriaci nella gestione
degli apparati dipendenti dai governi o all’interno dei governi stessi,
emarginando molte delle intelligenze di maggior spicco dell’alta burocrazia in
servizio nel Regno italico fino all’aprile del 1814.
In Lombardia tra i
consiglieri di governo, i delegati e i vicedelegati provinciali, le cariche più
alte dell’amministrazione esecutiva, i nobili si aggiudicarono in quegli anni
un buon 80% delle presenze. Ma qui, a differenza del regno sabaudo,
l’aristocratizzazione dell’amministrazione si configurò come un fenomeno
transitorio, molto legato all’ambigua congiuntura iniziale della restaurazione,
formalmente protesa a riproporre le parvenze di quella condivisione della sfera
pubblica tra sovrano e nobiltà che era stata tipica dell’epoca
prerivoluzionaria.
Dopo il 1821 le stesse
cariche per cui ci fu un grosso insediamento nobiliare durante il primo
quinquennio, vennero mutando sociologicamente. 67% nel 1822, 24% nel 1848, un
dato che dimostra la consistenza della nobiltà ma anche le differenze con il
primo periodo della restaurazione.
A Firenze c’era
l’affermazione di un ceto burocratico professional-borghese, tratto nevralgico
dell’epoca francese.
Lo Stato pontificio aveva
un’impronta particolare dal momento che qui il forzato accantonamento del
locale partito dell’amministrazione franco-imperiale significò non solo
massiccia riemersione dell’aristocrazia ai vertici degli apparati pubblici, ma
anche ritorno in piena regola di un governo clericale al posto di un governo
secolarizzato. Tanto a Roma, nelle congregazioni che facevano le veci dei
ministeri, quanto nelle provincie di cui lo stato si componeva (cariche di
delegato o di legato) i più alti funzionari pontifici erano infatti persone in
abito talare, scelte all’interno di un’elite ecclesiastico-amministrativa
formata da una trentina di cardinali e da poco più di 160 prelati. Almeno fino
agli anni ’40 l’accesso alla prelatura e al cardinalato si rivelò problematico
per chi non provenisse da famiglie blasonate. Accadde che malgrado sporadiche
eccezioni per decenni il governo clericale dei territori del papa fu anche
governo nobiliare. Tra il 1815 e il 1848 il 90% dei delegati e dei legati
vantava ascendenze nobiliari. Poco più bassa si presentava la percentuale
corrispettiva all’interno delle congregazioni e dei tribunali romani.
Tutt’altra aria si respirava
nel regno delle due Sicilie, nella parte continentale soprattutto, negli anni
successivi al ritorno a Napoli dei Borboni, Qui nel 1816 era stata scelta una
linea di sostanziale continuità con il regime cessato. Se ne erano andati,
ovviamente,m i francesi ed erano tornati nel continente i funzionari che tra il
1806 e il 1815 avevano seguito i sovrano nel parziale esilio siciliano. Ma il
nucleo di basse del funzionar iato formatosi nel regno murattiano era rimasto,
sostanzialmente, al suo posto, tanto nelle strutture dell’amministrazione
quanto nei ranghi dell’esercito, in omaggio a una politica di amalgama che
sarebbe stata contraddetta solo dopo la breve stagione costituzionale del
1820-21. dopo quella data si dispiegò una politica di massiccia epurazione
dalle strutture istituzionali della componente murattiana felicemente
sopravvissuta al giro di boa del 1815. non ci è però dato di sapere, se non
sporadicamente, che cosa essa comportasse sotto il profilo del ricambio funzionariale,
né come il corpo burocratico statuale si venisse modellando nei decenni
successivi.
Continuità o rottura? La qualità delle
istituzioni. Durante la
restaurazione il rapporto intrattenuto dai governi con le strutture e con gli
uomini della stagione napoleonica si presenta fortemente cangiante a seconda
dei contesti. In ogni capitale si incontra un sistema di ministeri o simili, ma
l’emancipazione dell’esecutivo dal giudiziario varia a seconda del luogo.
Delegati, legati, intendenti, governatori; sotto questo ventaglio di
deominazioni si presentano ovunque operativi, al vertice dei micro ritagli
amministrativi delle provincie, nei quali ogni stato è suddiviso, funzionari
che in genere (fatte salve le commistioni tra giustizia e amministrazione nei
casi in cui esse si danno, ereditano competenze già di spettanza dei prefetti o
intendenti napoleonici, e che hanno ai propri comandi una rete capillare di
figure burocratiche di rango inferiore, per le quali si può parlare di una
sostanziale parentela con i viceprefetti o vice intendenti d’epoca francese. Il
disegno dello stato-amministrazione risulta nelle sue grandi linee ovunque
preservato e durante il prosieguo della restaurazione verrà introdotto anche
nelle isole maggiori, rimaste impermeabili alla grande trasformazione
napoleonica. Ma gli elementi in controtendenza, rispetto a quel disegno, sono
numerosi e significativi. Oltre a quella degli incagli derivanti dalle
rinnovate commistioni tra esecutivo e giudiziario, essi assumono la forma delle
giurisdizioni particolari o dei residui di feudalesimo o della personalità
giuridica territoriale che in qualche caso fa aggio sulle coerenze unitarie
dello stato e configura situazioni di semi immunità. Manomesso o eliminato
appare poi, in molte situazioni, quel delicato ingranaggio della speciale
magistratura contenziosa che il legislatore napoleonico ha formalizzato al
duplice scopo di liberare l’amministrazione dalla giustizia (l’innovazione
della conservazione) e di tutelare il cittadino nei confronti degli abusi
dell’amministrazione, imponendo ad esso una tempistica e una modalità di
intervento del tutto estranee all’habitus mentale e alle consuetudini della
magistratura ordinaria. Quello della restaurazione è certamente di nuovo tempo
di giudici, o meglio di una certa ritualità che in antico regime all’esercizio
della giustizia era connessa, e che presenta tratti inconciliabili con
l’emergenza dell’amministrazione, di cui l’età appena trascorsa è stata
testimone.
Le gerarchie di qualità
suggerite dalle relazioni dei nostalgici dello stato napoleonico in quegli
anni, elaborate tenendo conto del maggiore o minore tasso di analogia delle
istituzioni restaurate rispetto a quelle napoleoniche, perderanno di
consistenza dei decenni seguenti. Con la sua apparente vicinanza al modello
murattiano lo stato borbonico del Mezzogiorno rivelerà la sua incapacità di
governare efficacemente un territorio che anche durante la restaurazione continua
a presentarsi ostico a una regolarità amministrativa.
Saranno le istituzioni del
regno Lombardo-Veneto a dare miglior prova di garantire un rapporto mediamente
accettabile tra sudditi e amministrazione. Già negli anni prima del ’48 il
regno di Sardegna, grazie alle riforme tra il ’30 e il 40, mostrerà di aver
colmano la distanza che agli esordi della restaurazione lo allontanava dalla
modernità.
Continuità o rottura? Gli uomini. Nel post periodo napoleonico ci fu un ricambio del
ceto politico-amministrativo. Ora la classe amministrativa era fatta di
aristocratici, che fungervano da consiglieri. I veri funzionari che avevano
fatto il mestiere per anni, ora risultavano sfruttati, licenziati o pensionati.
Successde nel Lombardo-Veneto, nel regno di Sardegna, nei ducati Padano e in
Toscana, nello Stato pontificio, dove la sottana clericale di legati e delegati
rimpiazzò i prefetti. Nel regno delle Due Sicilie le cose si modularono
diversamente, grazie alla politica dei Medici e Tommasi, ma dopo la parentesi
costituzionale del 1820-21 anche il Mezzogiorno continentale si adeguò alla
tendenza degli altri stati nel 1814-16.
Oltre alla legislazione
francese si dispersero molte personalità che era stata interprete di un
mutamento sociale tra pubblico potere e società. L’aristocrazia non poteva fare
le loro veci, perché inadeguata (anche ideologicamente).
Un soggetto nuovo: i dottori
dell’amministrazione. Le tendenze
iniziali della restaurazione conobbero varie correzioni di rotta. A partire
dagli anni ’30, mentre per un verso in tutti gli stati della penisola i residui
particolaristici di antoco regime variamente riemersi tra il 1814 e il 1816
venivano uno ad uno smantellati, anche l’iniziale fisionomia aristocratizzante
dei corpi amministrativi perse coerenza, in seguito a un graduale ricambio
generazionale, che proiettò ai vertici degli apparati non più figure legate a
una particolare congiuntura politica (come erano stati gli esponenti del
partito della gioventù rivoluzionario-napoleonico, o quelli della rivincita
aristocratica) ma piuttosto neutri dottori dell’amministrazione, in genere
formatisi nelle aule delle facoltà giuridiche delle università e corroboratisi
in seguito attraverso una lunga esperienza di praticantato, spesso gratuito,
consumata presso uffici statali ai quali essi erano stati ammessi per concorso,
e non per designazione ispirata da ragioni di ordine politico o di
considerazione sociale. Il principio dell’assegnazione delle cariche
burocratiche per concorso, in base al possesso di prerequisiti da individuare
in una formazione scolastica superiore, generalmente giuridica, ma talvolta
anche tecnica o scientifica (nelle branche dell’amministrazione come la
gestione del sistema pubblico di comunicazione, gli uffici finanziari, gli
apparati incaricati del monitoraggio e della valorizzazione delle risorse
naturali) non si affermò ovunque la medesima chiarezza riscontrabile nel
Loimbardo Veneto, dove già negli anni ’20 l’ascesa degli accademici nella
funzione pubblica cominciò a imporsi come fenomeno generalizzato, derivante da
una normativa introdotta già all’inizio del nuovo regime.
E se nello Stato pontificio,
che rappresentava forse sotto questo punto di vista il caso limite, il concorso
di ammissione e ogni altra garanzia di carriera e di promozione rimasero
sconosciuti (e ciononostante nei decenni della restaurazione si venne formando
sul campo, specie negli impieghi di competenza tecnica, una borghesia degli
uffici che si preparava a succedere al regime di prelati e cortigiani
ristabilito nel 1815), in quasi tutti gli altri stati la “legge del
calendario”, consistente nell’attribuzione delle cariche in considerazione al
curriculum di servizio pregresso, sostituì quella discrezionalità tutta
politica che aveva privilegiato gli aristocratici nelle prime battute della
restaurazione e, prima di loro, i militanti del partito della gioventù negli
anni francesi.
L’amministrazione: dalla politica alla
routine burocratica. Nella legge
del calendario, ossia la conversione della funzione amministrativa in mestiere,
era un fenomeno che i nobili toscani, negli anni ’40, mostravano di considerare
di per sé deleterio dal momento che secondo molti di loro solo chi godeva di
solidi patrimoni personali poteva offrire la piena garanzia di servire lo stato
spassionatamente, senza incorrere nella tentazione di lasciarsi corrompere. Nel
1838 venne decretata una legge che attribuiva agli isolani la prerogativa di
occupare la maggior parte della promiscuità degli impieghi tra la parte
continentale e quella insulare del regno delle Due Sicilie. Quando
l’amministrazione non fece più partecipare i cittadini, si riempì di persone
incapaci. All’inizio l’equazione tra appartenenza alla nobiltà, il corpo che
più aveva patito, durante il ventennio rivoluzionario e napoleonico,
dell’emergenza dell’amministrazione come stella polare del rapporto tra stato e
società, ed esercizio delle principali cariche pubbliche era stata ovunque
prevalente. E ciò aveva comportato, se non quel sostanziale ridimensionamento
della giurisdizione statale che aveva affollato i sogni e le aspirazioni dei
settori più conservatori della società, se non altro la praticabilità
dell’illusione di poterne guidare dall’interno le traiettorie, rendendole meno
acuminate. La generazione di militanti non c’era più e le monarchie più
determinate a rimanere all’interno del solco tracciato da Napoleone (in primis
quella austriaca, in relazione al regno Lombardo-Veneto), quella di assegnare
il timone della giurisdizione statale agli eredi di coloro che prima del 1796 erano
stati titolari delle giurisdizioni exrtrastatali, si era configurata come una
scelta obbligata, in assenza della quale si sarebbe perso il senso di quella
rottura con lo spirito della rivoluzione che si voleva comunque perseguire.
Ulteriormente accentuata
anche nel regno delle Due Sicilie, dopo i tentativi costituzionali del 1820-21,
l’epurazione della generazione dei napoleonici alla metà degli anni ’20 poteva
dirsi ormai ovunque fatto compiuto e decantato. A essa però non corrispondeva
un ridimensionamento del dirigismo statale nella società che dagli esiti della
caduta di Bonaparte molti si erano attesi, immaginando nella restaurazione il
rilancio della complementarità tra governo (statale) e giurisdizione
(social-territoriale), che aveva costituito il palinsesto fondamentale
dell’epoca prerivoluzionaria. Al contrario l’amministrazione mostrava la
tendenza a dilatarsi ulteriormente anche se in vari stati c’erano ancora degli
strascichi napoleonici.
Quelli che erano parsi come i
vincitori della stagione post-napoleonica svilupparono gradualmente sentimenti
di spregio nei confronti dell’idea di servire lo stato, e dismisero
silenziosamente molte delle cariche sulle quali avevano fatto di tutto per
mettere le mani tra il 1814 e il 1816, una volta realizzato che la logica che
le collegava in un sistema compatto ne inibiva al tempo stesso un esercizio
strumentale e personalizzato, ovvero filocetuale. Il governo si fece una casta
ed ebbe il suo particolare inteesse. Iniziò dunque ad affluire un soggetto sociale
nuovo, un ceto professionale maturo cresciuto facendo gavetta e temprandosi
nella ruotina degli uffici.
Dall’insofferenza antinapoleonica a
quella antiburocratica. Non
esisteva un vero e proprio partito di governo come quelli brucianti che si
profilavano negli anni napoleonici. Negli apparati pubblici della
restaurazione, oltre a non esservi più ammessi come nel momento della
rifondazione dinastica degli stati, semplicemente in omaggio al blasone
familiare, si avanzava molto a rilento., e l’amministrazione, fattasi routine
dopo la propria sfolgorante epifania durante l’infanzia napoleonica, quando
s’era offerta come uno scenario talmente seducente e gratificante da indurre i
giovani militanti a vedere in essa quasi una compensazione alle disillusioni
rivoluzionarie, appariva ora come il luogo neutro di una delle possibili
carriere perseguibili dagli scolarizzati di livello accademico. Non sarà un
caso che alla prima occasione corale del 1848 i funzionari pubblici formatisi
nella nuova congiuntura, lungi dal rivelarsi come un pilastro dei regimi che li
stipendiavano, come lo erano stati invece gli antenati trent’anni prima,
mostrarono la tendenza a identificarsi con le insofferenze della società civile
e a contestare anch’essi senza remore l’ordine costituito, sposando la causa
del mutamento, piuttosto che contribuire ad arginare l’impeto e configurandosi
quindi assai più come fazione della società che come fazione dello stato.
Ricarsoli era un
aristocratico toscano ma anche una figura di primo piano nel movimento liberal
moderato che durante gli anni ’40, in una sorta di rivolta del patriziato, si
affermò come guida dell’opinione pubblica antiassolutista, e non solo in
Toscana, lamentando l’invadenza delloo stato e della sua amministrazione,
lamentando la mortificazione del concorso dei cittadini nell’amministrazione
dei pubblici interessi. Con questa denuncia alludeva al tacitamento nella
gestione del pubblico potere di quella fascia elevata della società che
nell’età napoleonica si era tenuta in disparte rispetto alle macrotendenze
statali degli apparati pubblici, però allo stesso tempo propensi ad essere una
naturale guida di quella società civile di cui gli ultimi decenni avevano
testimoniato dell’irradiazione diffusa, contestualmente all’emergenza dell’amministrazione
e al tramonto del mondo vecchio corporato-cetuale.
Capitolo 5
Un costituzionalismo municipale
L’evanescenza della cetualità: regno di
Sardegna, Due Sicilie, Toscana, ducati. Nel regno di Sardegna, in quello delle Due Sicilie, nel Granducato di
Toscana e nei due ducati padani lo spazio istituzionale destinato al notabilato
e all’esercizio della rappresentanza territoriale venne concepito sin dalle
prime battute della restaurazione come un terreno privo di quelle
differenziazioni di carattere cetuale che avevano costruito la regola nei
sistemi di antico regime.
In questi casi l’accesso ai
consigli comunali e alle istituzioni rappresentative di livello provinciale,
nei casi in cui queste esistevano (cioè nel regno delle Due Sicilie sin dal
1815 e poi rispettivamente a partire dal 1843 e dal 1848, anche nel regno di
Sardegna e nel granducato di Toscana), derivava infatti da una selezione basata
esclusivamente sul principio del censo e sull’individuazione, da parte dei
pubblici apparati, di liste di notabili dalle quali attingere per riempire i
ranghi delle cariche civiche e provinciali non retribuite.
Il sistema funzionava così:
dopo una iniziale cernita da parte del governo nella rosa delle notabilità
locali, ovvero i maggiori proprietari fondiari o i titolari dei più alti
redditi derivanti dall’esercizio di attività commerciali manifatturiere o
professionali, i consigli venivano rinnovati parzialmente di tanto in tanto
attraverso un sistema di co-optazione esercitata dai loro componenti sotto il
controllo del governo, il cui suggello sull’intero meccanismo risultava
ulteriormente evidenziato dalla esclusiva competenza sovrana in relazione alla
nomina dei sindaci preposti alle giunte che costituivano l’esecutivo comunale.
Diversi da questo erano i sistemi di selezione delle rappresentanze locali
praticati nel regno Lombardo Veneto e nello Stato pontificio. Qui, infatti, il
principio della differenziazione tra nobili e non nobili conosceva ancora un
esplicito riconoscimento, anche se esso risultava diversamente modulato
nell’uno e nell’altro stato.
I ceti ricompaiono: Stato pontificio e
Lombardo-Veneto. Nello Stato
pontificio i membri dei consigli comunali designati in base alla medesima
procedura vigente negli stati trattati, erano divisi in due ceti con lo stesso
numero di membri: il primo era formato da aristocratici, il secondo da
possidenti, uomini di lettere, negozianti, esercenti arti non vili. Dopo il
1831 dopo la struttura bipartita ne venne una tripartita, articolata in base
allo schema: possidenti nobili, possidenti non nobili, esercenti commerci o
professioni liberali. Non venne in quell’anno modificata la norma che
attribuiva l’esercizio esclusivo della carica di gonfaloniere (sindaco) a
persone di condizione aristocratica, né quella che consentiva l’accesso
all’anzianato (cioè alla giunta) praticamente ai soli possidenti, nobili o non
nobili che essi fossero. Del tutto assenti fino al 1831 su fronte pressione
austriaca, vennero introdotti
nell’ordinamento pontificio anche dei consigli provinciali, i cui membri
venivano designati dal governo sulla base di liste suggerite dai consigli
comunali di ciascuna provincia. Anche nei consigli provinciali venne stabilita
una tripartizione delle appartenenze che non ricalcava tuttavia esattamente
quella vigente per i consigli comunali. Le tre classi dei consiglieri
provinciali erano quella dei nobili o proprietari di terra, considerati come
unico insieme, quella degli industriali e commercianti, quella dei professori e
degli appartenenti alle professioni liberali. Ciascuna delle tre classi, a sua
volta, veniva preventivamente scremata in base a un criterio di tipo censita
rio.
Anche nel Lombardo-Veneto,
custode fedele della visione istituzionale napoleonica, la divisione tra nobili
e non nobili manteneva pregnanza. Ciò avveniva solo nell’ambito delle
congregazioni, gli organi di rappresentanza provinciale e centrale. Ogni
provincia aveva una congregazione composta da un numero eguale di possidenti
nobili e possidenti non nobili e da tanti deputati quante erano le città regie
presenti sulla sua superficie (in tutti i casi il capoluogo di provincia,
talvolta anche una o due ulteriori città per provincia.
A Milano e Venezia si riuniva
una congregazione centrale, formata da un deputato nobile e uno non nobile, in
rappresentanza di ciascuna provincia, e da tanti deputati quante erano le città
regie risultanti nell’appello in ciascuna delle due porzioni del regno. I
deputati delle congregazioni provinciali e centrali venivano designati dal
governo ma la scelta operata da quest’ultimo si configurava come l’anello
terminale di una procedura basata su un sistema di consultazioni elettorali che
si svolgevano in prima battuta in ambito comunale. Sulle modalità di
amministrazione dei comuni lombardo-veneti una parte consistente si configurava
come una singolare oasi di democrazia partecipativa nel quadro sostanzialmente assolutistico della
penisola.
Il sistema comunale Lombardo-Veneto. Ogni comune, nel Lombardo-Veneto ce n’erano 3.091 una
volta eliminata la condensazione di vari comuni napoleonica, era fornito di un
organo consiliare delegato all’amministrazione locale. Era il consiglio
comunale nei centri maggiori (città capoluogo di delegazione, città regie e dal
1819 i comuni le cui tavole catastali fossero censiti più di 300 proprietari))
e la sua composizione era: la prima nomina era effettuata dal governo
scegliendo tra le persone più in vista in ambito locale, mentre il rinnovo
avveniva a tempo determinato in base a un sistema di cooptazione sorvegliata dal
sindaco governativo. Dal consiglio venivano formalizzate in una rosa di
candidati le indicazioni relative alla possibile composizione della giunta,
chiamata congregazione municipale nei capoluoghi di provincia e nelle città
regie a deputazione comunale negli altri comuni retti a consiglio) che il
governo in genere confermava, riservandosi la facoltà di prescindere
dall’ordine di precedenza suggerito dal consiglio. Un sistema che riguardava 44
comuni in Lombardia, 69 in Veneto. Alla vigilia dell’unità, 700 comuni in
Lombardia, 583 in Veneto, a dimostrazione di una crescita del regime
consiliare, ma non al punto di mettere in discussione la prevalenza di un
diverso modello di rappresentanza comunale, quello detto a “convocato”, che è
quella data continuava a interessare poco meno dei due terzi di circa 3.000
comuni lombardo-veneti.
Più ancora che nella
designazione di una rappresentanza elettiva dal basso, il sistema a convocato
si esplicitava in una forma di gestione assembleare dell’ente locale, della quale
venivano resi partecipi i proprietari fondiari censiti nelle tavole catastali
di ciascun comune, riuniti due volte l’anno, presente il commissario
distrettuale, per l’approvazione del bilancio consuntivo e di quello
preventivo. Ogni tre anni il convocato nominava al proprio interno una
deputazione che avrebbe svolto la funzione di giunta comunale nel triennio a
venire. Era agli organi esecutivi comiunali (congregazioni municipali e
deputazioni comunali) che era demandato il compito di segnalare a loro volta
ogni tre anni i nominativi di quanti, previo successivo vaglio delle
congregazioni provinciali, di quelle centrali, infine del governo, avrebbero
sostituito i deputati uscenti per scadenza del mandato dalle congregazioni
provinciali e da quelle centrali stesse. In ultima analisi, dunque, le
rappresentanze provinciali e centrali delle due parti del regno erano per un
verso elettive, per l’altro si configuravano come l’espressione di una
federazione di corpi municipali.
Il soggetto sociale della
rappresentanza locale. Il notabilato aveva una componente aristocratica e una
borghese, commerciale e fondiaria. Essi erano anche costruiti come soggetti
istituzionali dall’alto, sulla base di indicazioni fornite dagli agenti
periferici allo stato, raggruppati all’interno di liste potenziali eleggibili
alle cariche di rappresentanza municipale e talvolta provinciale, ma anche
proiettati in primo piano direttamente dalla società civile e dalle sue libere,
per quanto farraginose e indirette, pratiche di consultazione elettorale. Il
contributo dei cittadini si traduceva solo in un soggetto di riferimento che
andava in carica. Ci potevano anche essere dei casi limite in cui, visto che la
condizione proprietaria rappresentava un presupposto indispensabile e nelle
grandi pianure c’era un solo proprietario, quindi non si raggiungeva il limite
legale, mentre in montagna c’erano tantissimi proprietari e quindi si generava
il caos. Il ceto politico, dunque, era rappresentato da nobili, borghesi,
commercianti, possidenti medi e piccoli, scolarizzati con professioni liberali.
Tra corpo e individui: la fazione. La rappresentanza comunale, dal livello del villaggio
a quello della città medio-grande, costituì durante la restaurazione un
palcoscenico insostituibile per l’esternazione di logiche di supremazia
politica per un verso alternative rispetto a quelle irradiate dallo stato, per
l’altro intensamente espressive della trama di rapporti di forza e di legami
informali nella quale si sfrangiava una società civile che la dottrina avrebbe
voluto tutta individualistica, ma che la prassi mostrava ampiamente corporata,
seppur non secondo i canonici dettami cetuali. Ci si trovava dinanzi situazioni
nelle quali le legislazioni vigenti non offrivano i presupposti di diritto
(libertà di stampa, di pensiero, di associazione necessari alla formazione di
partiti politici (fenomeno che invece andava in Europa liberale)) e nei quali
anche le opportunità di per sé innocue di socializzazione formale o informale
(dal circolo al caffè, i luoghi classici di formazione dell’opinione pubblica
dell’Europa primo-ottocentesca) risultavano assai inegualmente dislocate a
seconda non solo degli stati, ma anche dei singoli contesti territoriali al
loro interno. Erano queste, infatti, fruibili essenzialmente nei centri urbani,
assai meno nelle campagne; e le campagne costituivano la trama di fondo di una
società che in ciascuno degli stati preunitari era ancora contraddistinta da
una larga prevalenza della dimensione rurale. Per contro l’amministrazione
locale (con le sue proiezioni provinciali o persino centrali, nei casi in cui
ne disponeva) si presentava come un’opportunità generalizzata di affermazione
della propria identità per le élite sociali tutte intere, in ragione delle
proprie elementari logiche di espressione; che queste fossero inclini a
manifestarsi nell’istituto informale della fazione e, dietro di essa, della
famiglia, è fenomeno che ci riconduce a un carattere arcaico, anche se non più
giuridicamente cetuale, di gran parte del mondo di quegli anni.
Non tutte le famiglie
comunali si distinguevano per la facile prevalenza, al loro interno, di quelle
logiche unilateralmente paternalistiche e deferenziali, in ragione delle quali
gli strati più alti dell’élite potevano attendersi di ereditare la stessa
naturale funzione di preminenza di cui, prima dell’età rivoluzionaria, le
aristocrazie di sangue avevano fruito attraverso la loro titolarità delle forme
di giurisdizione non statali. Il terreno dell’amministrazione comunale poteva
rivelarsi ostico per lo stato e i funzionari che dovevano supervisionarlo, ma
anche per i notabili che volevano farne parte. Tuttavia lo spazio delle
istituzioni locali, dove le élite avevano interessi concreti da tutelare,
restituiva senza difficoltà il riconoscimento formale della preminenza sociale
che esse esercitavano in ragione dei propri blasoni, patrimoni e capacità
professionali e culturali.
I giochi di fazione trovano
terreno anche nei consigli comunali delle città maggiori. Nemmeno lì si
risparmiano i raggiri per ottenere un posto da consigliere o da sindaco. Gli
organigrammi dei consigli e delle giunte cittadine, in ogni caso, premiavano
ununa o l’altra fazione nelle quali i ceti dirigenti si distribuivano. La
stessa cosa avveniva spesso anche nella maggior parte delle città e dei comuni
poco cospicui se solo i rapporti di forza patrimoniali locali rendevano congrua
una simile eventualità.
Governo locale: quali potenzialità? Quali erano le concrete potenzialità offerte dalle
leve del governo comunale a chi riusciva a impadronirsene?i consiglieri
comunali, così come i membri delle giunte e il sindaco non erano retributi. I
comuni disponevano però di un bilancio, ricavato dalle imposte locali o da una
frazione di quelle statali, oltre che dal patrimonio comunale. Esso era in
parte vincolato all’erogazione di alcune spese obbligatorie stabilite dall’alto
(come nell’istruzione e nella sanità), in parte rientrava nella discrezionalità
degli amministratori comunali. Gli utilizzi che potevano scaturirne erano molto
diversi. Così se un delegato provinciale lombardo, volgendo lo sguardo ai
comuni di campagna, individuava in una fabbrica, una stradanell’elezione di una
persona piuttosto che un’altra alle funzioni di amministrazione sia del comune
che della chiesa locale, la rosa degli oggetti di comunale interesse, nei
capoluoghi di provincia quest’ultima trovava ovviamente degli oggetti di
identificazione più vistosi, tanto da potersi definire monumentali. Di quale
volto architettonico dare alla città le amministrazioni della restaurazione se
ne occuparono molto, lavorando all’unisono, soprattutto per la costruzione dei
teatri, specialmente al centro-nord. I governi comunali e locali erano arrivati
al punto da entrare in concorrenza con i governi statali.
La piccola patria dei nostalgici. L’insieme di insofferenti all’eredità napoleonica,
reduci dall’abolizione dei privilegi cetuali, celebravano una sorta di “poetica
dei municipi” in uno stato, come quello pontificio, nel quale una legge del
1827 aveva abolito ogni traccia di autoreferenzialità statutaria. Ci fu
l’esempio del conte Monaldo Leopardi, a Recanati, che andava alla ricerca di
una gerarchica costituzione buona a fornire ai sudditi il viatico necessario
per affrontare le traversie della vita e il conforto per lenire la propria
fragilità di individui. E la trovava nelle istituzioni vicine all’ordine
domestico-famigliare, ossia i municipi, nel quale riconosceva la comunità
religiosa prima ancora che comunale, civile. L’obiettivo era la fervenza
antiassolutistica degli anni ’30 europea dopo la rivoluzione parigina del 1830
che si era tradotta in una nuova costituzione, imposta dalla nazione al sovrano
e non concessa spontaneamente. Ma Monaldo coglieva anche l’occasione per
lanciare parole di fuoco contro quel modello politico centralista che
rappresentava, per lui, la versione burocratica della stessa ideologia
universalista della rivoluzione.
Nello Stato pontificio si era
sentito più che altrove il ritorno al passato dopo l’era napoleonica, come in
tema di tasse e servizio militare. La restaurazione si era rivelata, anche
nello Stato pontificio, insufficiente. Alla riaffermazione del principio del
diritto divino del re, essa aveva coniugato la contestuale irradiazione di una
macchina burocratica la quale, malgrado sostituzione delle sottane clericale
alle uniformi, secondo lui somigliava a quella
di matrice rivoluzionaria, ai tempi del Regno Italico. Troppi impiegati
statali, troppe tasse e poco potere ai municipi, conservatori delle virtù
familiari dell’obbedienza e della sudditanza. L’autonomia comunale, o
addirittura nazionale, era un gesto blasfemo e sovversivo. Inoltre Monaldo non
vedeva la necessità di uno stato nazionale, vista la diversità di popoli, di
usi e costumi che divideva le varie aree italiane. La patria era solo la terra
di prossimità di nascita, il municipio, la piccola comunità.
La famiglia comunale. Anche in Toscana l’istituto comunale e il suo potenziamento
rappresentavano il presidio più saldo al quale un’élite sociale, ormai tanto
disamorata dagli apparati di stato da aver deciso di consumate il proprio
divorzio rispetto ad essi e alla loro castalità, era incline negli anni appena
prima del ’48 ad ancorare la propria identità. Nell’elaborazione toscana, però,
c’era l’idea che il livello dell’autogoverno locale fosse non solo un buon
correttivo rispetto all’invadenza statale, ma anche al tempo stesso la cellula
fondamentale di una originale, futuribile costituzione all’italiana che non si
desiderava come mero ricalco di quelle affermatisi nell’Europa liberale. I
liberal cetuali toscani muovevano dalla constatazione della pochezza del
sistema comunale vigente nel granducato, con un consiglio generale ridotto a
zero, divenuto strumento di cancellieri e gonfalonieri, pieno di corruzione.
Dal 1846 il loro programma costituzionale, ovvero la proposta che rivolgevano
all’opinione pubblica, prese forma enfatizzando l’opportunità di una
decentralizzazione dell’amministrazione, dalla quale sarebbe scaturita in primo
luogo una rinnovata soggettività politica dell’istituto comunale e poi, nel
medio-lungo termine, la formalizzazione di un organo rappresentativo regionale
a Firenze, nel quale la voce dei notabili locali avrebbe trovato occasione di
efficace esternazione, in forma consultiva. Nel dicembre 1847, in un clima di
avvio di riforme liberaleggianti che in molti stati della penisola rappresentarono
l’anticamera del ’48. l’ordinamento consisteva nell’attribuzione alla
rappresentanza comunale (nonché a quelle erigende, circondariali e
compartimentali) di maggiori margini di autonomia rispetto all’intrusività di
polizia, fisco, provveditori, soprintendenti, corpo degli ingegneri, degli
esponenti, insomma, della mal sopportata macchina della burocrazia centrale.
Per l’altro, la consegna a un corpo elettorale costituito da tutti i
contribuenti padri di famiglia della responsabilità di formare gli organi di
rappresentanza, che sin lì venivano invece designati dall’alto, oppure per
cooptazione controllata dal sindaco governativo. Quella cui ci si trovava
davanti era una proposta di rivoluzione nella concezione di amministrazione
locale. Per la composizione dei consigli essa si ispirava al modello di
amministrazione locale vigente nella maggior parte dei comuni del
Lombardo-Veneto, ma ciò a cui si mirava era la dilatazione del paradigma
municipale a spese del paradigma statale. Ne derivava un secco
ridimensionamento del ruolo dello stato nella vita pubblica, a beneficio di
un’entità che, più ancora che in un’astratta società civile, era da riconoscere
nell’istituto famigliare, e nei suoi naturali valori di timbro
paternalistico-deferenziale. Anche i toscani, insomma, concepivano il comune
come un ente territoriale autonomo, e non come l’estremità periferica del
ritaglio amministrativo-statuale. Il comune è l’unica forma di potere dei padri
sulle famiglie, e i loro interessi locali.
Tante voci, tanti comuni. Simonde de Sismondi e Carlo Cattaneo furono i più
ambiziosi fautori del mito comunale nell’Italia di metà ‘800. Questa idea trovò
riverbero nei cahiers des doléances pre-48 pubblicati dagli esponenti liberali
moderati, e dai tardivi esperimenti riformistici dei sovrani prima dello
scoppio della tempesta rivoluzionaria. Tra l’ottobre 1847 e il febbraio 1848,
prima nello Stato pontificio, poi nel Regno di Sardegna, poi nel granducato di
Toscana, lo schema costituzionale accennato inizia a divenire realtà grazie a
leggi che sancirono l’elettività dei consigli comunali e l’istituzione di
organi provinciali e centrali di rappresentanza consultiva.
Ripensare i rapporti tra
stato e società a partire dai comuni metteva d’accordo tutti gli insoddisfatti
dell’ordine burocratico-statuale della restaurazione: i nostalgici tout court
dell’antico regime, come Monaldo Leopardi, che vedevano nell’espressione
municipale l’affermazione dell’egemonia aristocratica; i liberal-cetuali che a
loro volta trovavano conforto nell’abitudine all’ossequio e alla deferenza nei
confronti dei potenti, che rappresentava il tratto quotidiano delle relazioni
tra grandi e piccoli nella famiglia comunale, e perfino i democratici, i quali
nell’esercizio dell’autogoverno comunale potevano leggere per un verso una
pratica molto prossima a quella democrazia larga di cui alcuni di essi
auspicavano l’inveramento, per l’altro il terreno propizio per lo sviluppo
delle libere attività di mercato nelle quali, un uomo come Cattaneo riconosceva
la forma primaria di espressione di una società civile compiutamente borghese,
da apprezzare in ragione della libertà di manovra accordata al suo interno
all’iniziativa dei privati.
Nel costituzionalismo
municipale, specie come lo intendevano i toscani, pareva di trovare la sintesi
tra libertà degli antichi e dei moderni. Della prima esso riproponeva il vasto
spettro partecipativo, convogliando le atmosfere famigliaristiche tipiche delle
piccole comunità. Di quella dei moderni faceva proprio il principio della minor
ingerenza possibile dello stato (o meglio, della collettività in quest’ultimo
cristallizzata) negli affari dei privati, visto come garanzia di una libertà
individuale intesa in primo luogo come una libertà civile, di cui si auspicava
la minima contaminazione con i conformismi promananti dal corpo sociale e dalle
sue proiezioni istituzionali: lo stato, la burocrazia, ma per certi versi le
stesse assemblee elettive di tipo macrolocale dotate delle con titolarità del
potere legislativo, di cui la stagione apertasi con il luglio parigino del 1830
aveva prodotto una discreta disseminazione in Europa.
Prima della tempesta: le
monarchie consultive. Negli anni ’20 le aristocrazie cercarono un contatto con
la società civile, diversa dalle soffocanti limitazioni di censura e polizia
applicate nell’immediata stagione post-napoleonica. Questa fu la stagione della
monarchia consultiva, che avrebbe dovuto essere qualcosa di diverso rispetto a
quella amministrativa della prima restaurazione. Le prime iniziative del 20-21
avevano lo scopo di contrapporre un’iniziativa costituzionale regia a quella
dispiegatasi dal basso nelle Due Sicilie e in Piemonte, dove i rivoltosi, come
in Spagna, avevano preteso l’introduzione della costituzione gaditana nel 1812,
singolare contaminazione tra l’antico regime e il democratismo moderno, basata
sull’esaltazione del territorio e della famiglia cattolica, piuttosto che sul
riconoscimento della centralità dell’individuo e dei suoi diritti.
Il principe di Metternich, a
ridosso del congresso di Lubiana, aveva sollecitato alcuni regnanti perché
dessero più capacità di manovra alle amministrazioni locali nonché a
costituirne una di rappresentanza centrale dotandola di funzioni analoghe a
quelle esercitate nel Lombardo-Veneto dalle congregazioni contrali di Milano e
Venezia, che costituivano una cuspide gerarchica della trama di autogoverno che
aveva la propria base nei convocati e nei consigli comunali, e che conosceva il
proprio snodo intermedio nelle congregazioni provinciali. La composizione delle
due congregazioni centrali, articolate in base a uno schema vetero-cetuale
(deputati della possidenza nobile, deputati della possidenza non nobile,
deputati delle città regie) era soggetta al sindacato governativo e imperiale.
Però quest’ultimo si esercitava su una rosa di designazioni dal basso che,
malgrado una certa farraginosità e discrezionalità nei passaggi intermedi, non
poteva che essere considerata come l’espressione della volontà degli elettori,
intesi non come insieme di soggetti individuali, ma come cellule delle
collettività comunali. Le congregazioni potevano essere intese come un
parlamento territoriale, fatta salva la loro funzione consultiva e non legislativa.
Se le congregazioni del
Lombardo-Veneto derivavano la loro composizione da meccanismi elettivi, altro
fu il caso della consulta che venne istituita nel 1824 nel regno delle Due
Sicilie e fu composta da 24 membri (16 in rappresentanza della parte continentale
del regno, 8 della Sicilia) tutti di designazione regia, con la funzione di
offrire consulenze all’amministrazione.
Durante gli anni ’30 nuovi
organi rappresentativi centrali non vennero istituiti in alcuno stato della
penisola, anche se ce n’era l’urgenza, e si cercò di dare altri tipi di
risposte. Nello Stato pontificio venne attivato nel ’31, dopo le insorgenze che
avevano scosso le provincie del papa, un livello rappresentativo provinciale
che lì mancava (mentre esisteva già nel Lombardo-Veneto e nelle Due Sicilie).
Nello stesso anno nel Regno di Sardegna venne istituito un Consiglio di stato,
formato da 14 consiglieri di designazione regia, ai quali si pensava si
potessero aggiungersene altri in determinate occasioni, in rappresentanza delle
macrodivisioni amministrative del paese, ma nella sua versione larga il
Consiglio non venne mai convocato.
Nel 1847 la monarchia
consultiva conobbe un periodo di successo, appena prima dell’entrata in vigore
delle carte costituzionali del ’48. Il movimento dei moderati, più che un
parlamento legislativo, condensavano le proprie ambizioni in un consiglio centrale
nominato dal sovrano su terne presentate dai consigli provinciali, a loro volta
nominati in rose di candidati proposte dai consigli comunali, e munito di
poteri in materia finanziaria e amministrativa, fino a reclamare il voto
deliberativo sui bilanci dello stato. Prima nello Stato pontificio e poi in
Toscana quell’organo prese forma, all’inizio del ’47, affidando al sovrano le
nomine dei membri, piuttosto che, come volevano i moderati, un reclutamento
attraverso elezioni dal basso a più gradi.
Liberalismo all’italiana. Il costituzionalismo municipale e la monarchia
consultiva rappresentavano due facce della stessa medaglia. Erano infatti
espressione di un liberalismo tutto italiano che si mostrava nel complesso
restio a sposare con convinzione i principi individualistici del grande
liberalismo europeo e trovava invece più consona alle caratteristiche e alle
abitudini della propria base sociale l’adozione di un modello costituzionale di
matrice corporato-territoriale. Il soggetto di quel modello era riconoscibile
in un insieme di autonome famiglie municipali, in base al fatto che lo stato
era concepito come un contenitore di una pluralità di soggetti politici minori,
r non come una sintesi politica unitaria, come l’avevano pensato i napoleonidi.
Gran parte delle élite sociali, così, prendevano le distanze dall’emergenza
dell’amministrazione statale e dall’idea della rappresentanza politica
individualistica, due principi di matrice rivoluzionaria, il primo con maggiore
fortuna, il secondo in stand bye. La libertà politica era quella privata e
locale.
Capitolo 6
Dal ’48 all’unificazione nazionale
Il ’48 e le sue costituzioni. A Napoli e Firenze a febbraio, a Torino e Roma a
marzo, le costituzioni del ’48 italiano le emanarono i monarchi, che già
durante i mesi precedenti erano stati costretti ad accordare le riforme
liberaleggianti, come la libertà di stampa e associazione, che avevano
consentito l’uscita allo scoperto e il provvisorio protagonismo di un’opinione
pubblica ormai del tutto insofferente del neoassolutismo nei decenni precedenti
e delle sue derive poliziesche. Li chiamarono per lo più statuti, in omaggio
alla tradizione municipalistica. Le carte costituzionali del ’48 derivavano in
larga parte dalla contaminazione tra la carta francese del 1814 (elargita dal
monarca), quella francese del 1830 (contro cui si scagliò Monaldo Leopardi) e
quella belga del 1831, anche se venne recepita meno delle prime due, visto che
nessuna delle costituzioni del ’48 prevedeva il principio di elettività di
entrambe le Camere. Erano costituzioni pensate non a misura di quella polifonia
organicista di territori distinti, di cui i liberal-cetuali e i municipalisti di
altra ispirazione avrebbero voluto che lo stato costituzionale fungesse da
semplice contenitore, ma piuttosto, in funzione dello spazio statale unitario,
ossia il ritaglio territoriale sul quale si esercitava l’autorità dei sovrani e
dei loro apparati burocratico-istituzionali. Esse non erano, però, frutto della
rivoluzione, ma carte di iniziativa sovrana che voleva conservare il suo
potere. A redigerle furono uomini di fiducia del principe, non i tribuni
d’opposizione. Il sistema bicamerale venne declinato in modo che la Camera alta
fosse composta da membri a discrezione del re, con l’ampio ricorso
all’evocazione retorica dei precedenti e delle consuetudini locali, ovvero di
una risalente tradizione pattizia che si identificava con lo scenario della società
per ceti e con l’epoca pre-rivoluzionaria, piuttosto che con le moderne forme
contrattualistiche di forma individualistica nelle quali si esprimeva il
rivoluzionario principio di sovranità popolare. I sovrani evitarono così
l’insurrezione, che nel 1848 a Palermo inaugurarono la grande tempesta politica
europea che si sarebbe protratta fino al ’49. Sono delle costituzioni, dunque,
controrivoluzionarie.
A Roma il Senato consisteva
nel collegio di cardinali, dichiarato Camera alta dello statuto. A Napoli, Firenze,
Torino a comporlo sarebbero state figure di nomina regia o granducale, e doveva
essere un prolungamento in sede parlamentare di un potere esecutivo che
rimaneva alla corona. Un corpo burocratico suppletivo, sentinella della Camera
bassa. Il legislativo spettava unicamente alle Camere, ma risultava
compartecipato dai sovrani, i quali, risultando al tempo stesso i titolari
esclusivi dell’esecutivo (i ministri erano responsabili davanti ai reali, non
alle Camere) rimanevano formalmente gli arbitri della situazione. La
prerogativa regia soverchiava quella parlamentare.
Diverso fu il caso della
Sicilia, quello che aveva inaugurato la lunga stagione del ’48 su scala
europea. Qui la costituzione era frutto di elite sociali e non del sovrano che
stava altrove, a Napoli. L’autonomismo siciliano era emerso e convogliato in
una secessione di fatto nel regno delle Due Sicilie.
Diverso fu il caso del
Lombardo-Veneto, regioni nelle quali non ebbe luogo la concessione regia
dell costituzione, bensì prima per la rivoluzione
e poi la resistenza contro il ritorno di quello che veniva ormai tout court
definito l’occupante straniero. Le due capitali del Lombardo Veneto non ebbero
costituzioni, ma governi insurrezionali provvisori. E ci ne assunse la guida si
trovò a operare come un’autorità di fatto più che di diritto, alla quale era
demandato il compito di difendere militarmente i concittadini dalla minaccia
militare austriaca. Venezia si proclamò repubblica ma non per questo si diede
una costituzione, anche se a più riprese,m durante i 18 mesi della sua
indipendenza vi si tennero elezioni. Tanto meno se la dette Milano, la cui
stagione di libertà si consumò nel breve giro di quattro mesi. Ad agosto,
insieme al resto della Lombardia e a gran parte del Veneto, il capoluogo
ambrosiano era già tornato sotto lo scettro austriaco.
Nel resto d’Italia intanto il
’48 proseguiva il suo corpo. Sullo sfondo dello scenario della guerra contro
l’Austria e per la difesa dell’indipendenza italiana, alla quale per qualche
mese acconsentirono a partecipare Carlo Alberto di Savoia e i sovrani di altri
stati costituzionalizzati, le costituzioni stavano infatti passando dalla fase
dell’enunciato di principio a quella dei dispositivi di attuazione. E la loro
stringatezza veniva controbilanciata da leggi ordinarie e disposizioni
applicative che regolarono in quei mesi l’istituto elettorale.
Tra il 15 marzo 1848, quando
ebbero luogo le prime elezioni generali per il parlamento di Sicilia, e la fine
del 1849 si tennero nella penisola ben 15 elezioni ordinarie, convocate con lo
scopo di designare i deputati delle Camere elettive previste nelle
costituzioni. Ma si votò anche a Reggio, Modena, Parma, Piacenza, Lombardia,
Padova, Vicenza, Rovigo, Treviso, in consultazioni plebiscitarie nelle quali gli
elettori furono chiamati ad esprimere la loro volontà di acconsentire o meno
alla fusione dei rispettivi territori del regno di Sardegna. Il sistema era a
suffragio ristretto e censita rio, con affluenza di rado superiore al 50%. Se
da un lato il bicameralismo offriva infatti il destro di superare le concezioni
istituzionali repubblicane e democratiche sorte dalla rivoluzione francese
(visto lo spazio che il Senato di regia nomina aveva), configurando un diverso
immaginario di sovranità di quello delle costituzioni giacobine di fine ‘700,
dall’altro le leggi elettorali censita rie che regolavano al composizione della
Camera dei deputati consentivano di aggiornare il chiave liberale partecipativa
il modello astratto dello stato misto settecentesco, sostituendo i notabili ai
corpi e ai ceti. Il suffragio secondo censimento era del 2% della popolazione.
In Sicilia il suffragio era per tutti,
con esclusione degli analfabeti. , ossia di quasi tutti gli abitanti dell’isola.
Se nelle grandi città il suffragio fu quasi universale, nei piccoli comuni
votavano solo i possidenti. Ne scaturì una camera dei comuni elettiva in primo
grado, che rappresentava più gli interessi municipali che lo spirito di uno
stato unitario. Sebbene in quei mesi ci
fosse differenza tra libertà comunali e parlamentari.
Il municipalismo si mostrava
a due distinti livelli: il primo risultava tutto interno a ciascuno degli stati
costituzionalizzati, dal momento che la prevalenza dell’istituto del collegio
uninominale (fecero eccezione il regno di Napoli e la Sicilia, dove si votò con
il maggioritario plurinominale usato occasionalmente a Venezia e in Toscana)
non poté che tradursi nell’affermazione parlamentare dei notabili, ossia i
padri che il moderatismo pre 48 aveva contrapposto ai funzionari della
burocrazia statale, offrendogli i margini di adattamento per proporsi in sede
politica nell’interpretazione di un ruolo neocampanilista.
Il secondo, viceversa, si
espresse a livello di relazioni interstatali, inibendo la durevole
cristallizzazione di un fronte politico-militare unitario, capace di
contrapporsi in modo efficace alla reazione austriaca, una volta che questa
cominciò a dispiegarsi a partire dalla tarda primavera del 48. dopo la
riconquista asburgica di Milano la guerra nazionale contro l’Austria restò
all’idealismo dei volontari, e sono nel 49 nuovamente con l’appoggio della
corona sabauda. Tutti i tentativi di dar vita a una Costituente italiana
attuati nei primi mesi del 49 in Toscana e a Roma naufragarono. Il problema
fondamentale è che si doveva avere una visione nazionale unitaria comune,
invece c’erano ancora troppi interessi locali. Tra il 48 e il 49 la Toscana
(marzo 49) con i suoi democratici ottenne l’introduzione del suffragio
universale, aumentando il sogno della Costituente nazionale, e a Roma venne
proclamata la repubblica da un’assemblea eletta a gennaio 49 a suffragio
universale, ma solo nella teoria (solo il 10% della popolazione dello Stato
pontificio aveva votato, gli altri no per il monito papale di scomunica). Questi
furono scenari estremi contraddistinti dalla provvisoria eclissi di monarchi
che erano stati attivi con il costituzionalismo del 48, come il granduca
Leopoldo di Toscana e Pio IX nello Stato pontificio. Essi erano fuggiti dalle
capitali. Nel Mezzogiorno Ferdinando di Borbone aveva da tempo avviato lo
smantellamento della costituzione. Lo avrebbe completato con lo scioglimento
delle Camere, coronando la sua reazione con la riconquista della Sicilia
ribelle e con il tacitamento del parlamento isolano. Con la primavera del 1849,
se si prescinde da Venezia, il cui assedio durò fino ad agosto, gli stati
italiani erano tutti tornati sotto lo scettro delle case regnanti o dei sovrani
in carica prima della tempesta. E mentre Leopoldo II e Pio IX avviandosi anch’essi
a rioccupare i troni lasciati qualche mese prima, abolivano o sospendevano
anch’essi, come Ferdinando OO, la costituzione e congedavano i parlamenti,
rimaneva un solo stato della penisola in cui restasse ancora accesa la
fiammella della libertà moderna, che tanto aveva attratto l’opinione pubblica
progressista italiana nell’anno precedente, e ancora nei primi mesi di quello
corrente. Mentre svanivano in ogni altro luogo, nel regno di Sardegna, dove
Vittorio Emanuele II era succeduto all’abdicante Carlo Alberto statuto e
parlamento tennero saldamente la scena per tutto il corso degli anni ’50.
Gli anni ’50 a Torino un parlamento,
altrove no. La tennero non senza
contrasti, perché come quello di Carlo Alberto anche l’immaginario
costituzionale del suo successore propendeva a individuare nella corona e nel
Senato, e non nella Camera elettiva, il perno di un sistema di cui si voleva
rimarcare il carattere ottriato, senza riconoscere il principio di sovranità
dei cittadini. Fino a qualche anno fa si dava per scontato, nel decennio
preunitario, sotto la stella cavouriana, il compimento della metamorfosi del
regime costituzionale introdotto nel 48 in vero e proprio regime parlamentare, pur riconoscendo l’esistenza di
una non limpida prassi costituzionale negli anni immediatamente seguenti la
concessione dello Statuto. E individuava le tappe salienti di questa
trasformazione prima nella ferma determinazione mostrata nel luglio 1849
dall’allora primo ministro Massimo d’Azeglio a respingere ogni suggestione autoritaria
per l’abrogazione dello Statuto e l’eliminazione del regime costituzionale,
poi, e soprattutto nella crisi Calabiana del 1854, culminata nella
mobilitazione dell’opinione pubblica in difesa di Cavour, della maggioranza
parlamentare e della politica di secolarizzazione, di fronte alla minaccia che
correvano le istituzioni rappresentative e all’involuzione politica che si
veniva profilando con l’incarico al Durando di comporre un Ministero legato
alla corona. Ma al tempo stesso, privo di maggioranza parlamentare di sostegno.
Così che negli anni seguenti non si sarebbe più data l’eventualità di un
esecutivo i cui ministri gravitassero prevalentemente nel campo d’attrazione
della corona, e risultassero legittimati a sottrarsi all’appoggio e alla convalida
del loro operato da parte del Parlamento. Altri più di recente hanno
persuasivamente invitato a una maggiore cautela evidenziando il peso perdurante
esercitato dalla legittimazione sovrana sui governi e sui loro presidenti,
tanto durante alcune fasi del decennio preunitario, quanto nei lunghi decenni
successivi all’unificazione nazionale, e così pure l’ampiezza della
discrezionalità monarchica in ordine delle modalità e alla tempistica del
funzionamento della Camera, nonché la sostanziale intangibilità della
prerogativa regia in ambito militare e diplomatico nel medesimo torno di tempo.
La Camera dei deputati del Regno di Sardegna si qualificò agli occhi
dell’opinione pubblica nel decennio che precedette l’unificazione come un punto
di mediazione apprezzabile tra le residue rifrangenze della mentalità tardo
assolutista di un sovrano umorale e a tratti capriccioso, il quale era stato
sempre educato secondo gli schemi di una concezione tradizionale del potere e
le aspirazioni politiche dei liberali a parlamentizzare compiutamente il
sistema costituzionale. Emblema di questo stato di cose fu la legge 23 marzo
1853, n. 1485, che riformando l’ordinamento dell’amministrazione centrale,
della contabilità e del bilancio dello stato, stabilì anche le modalità di controllo
della Corte dei conti, attribuendo definitivamente al parlamento la funzione
ispettiva finanziaria fondandola sul riscontro di ogni singola spesa e
determinando la conseguente responsabilità ministeriale.
Secondo la storiografia, il
Parlamento nell’età del risorgimento era come una centrale operativa delle
tendenze patriottiche pre unitarie. Ma gran parte della sua attività era di
rappresentazione dei territori, e i protagonisti della sua prassi ordinaria non
erano le figure più militanti ma la massa dei notabili, cioè gli elementi che
in ragione della legge elettorale a suffragio ristretto per capacità e
prestigio emergevano tra gli abitanti di ogni singolo collegio, ponendosi quasi
naturalmente in una posizione di rappresentatività dell’ambiente locale. Il
passaggio dal principio del ceto a quello del censo, che caratterizzò in modo
così significativo la transizione dell’epoca della restaurazione e quella
immediatamente preunitaria, fece sì che l’esercizio della rappresentanza
attraverso le nuove forme parlamentarie venisse interpretato in proporzioni
molto più significative che in passato da fiugure estranee all’aristocrazia
dominante nel vecchio orizzonte cetuale; borghesi essenzialmente e tra questi
uomini di legge e cultura. Rappresentanti delle tradizionali libertà comunali
nel tempio delle nuove libertà parlamentari. Il regno di Sardegna era il più
vivo da questo punto di vista, dove si era passati da una cetualità
aristocratica a una nuova, più patrimoniale e professionale, non più
identificata con la proprietà fondiaria. Anche dove le istituzioni della
libertà moderna vennero messe a tacere il post-48 fu comunque contrassegnato
dall’avvio, se non dal compimento, di un processo di legittimazione
costituzionale delle componenti non aristocratiche dell’èlite che prima della
rivoluzione sarebbe risultato impensabile.
Dappertutto si immaginava una
riforma sulla ripartizione dei seggi. Al posto del sistema pre-48 che ne
prevedeva una tripartizione a impronta cetual-fondiaria tra possidenti nobili,
possidenti non nobili e civili rispettabili anche se non possidenti, si avanzò
l’ipotesi di istituire una semplice bipartizione delle categorie sociali
abilitate ad esprimere la propria rappresentanza nei consigli: da un lato i
censiti, ossia i proprietari terrieri tutti, i commercianti, gli industriali,
gli agricoltori, dall’altro i professori di scienze e arti liberali cioè i
professionisti.
Un paio di anni più tardi
anche nel Lombardo-Veneto, al momento del ripristino delle congregazioni
centrali, che non erano state più convocate dopo il 48, il governo, dopo aver
introdotto un rafforzamento del profilo istituzionale e un’estensione degli
ambiti di competenza delle Camere di commercio, considerò la possibilità di
promuoverne una riforma che prevedeva la modificazione del vecchio schema
tripartito (rappresentanti della possidenza nobile, rappresentanti della
possidenza non nobile, rappresentanti della città regie) in un’articolazione
nuova, intesa a sancire l’accesso al mondo della rappresentanza regionale anche
a componenti esplicitamente espresse dal mondo del commercio, dell’industria,
delle professioni liberali, della chiesa, dell’università. Si pensò anche a un
rigonfiamento del numero dei deputati passando da 29 a 81. la congregazione di
Milano, così, avrebbe assunto le fattezze di un quasi parlamento, tanto più in
ragione della differenziazione del ventaglio sociale della sua composizione. Se
ne discusse nel 1852 e nel 1855 ma non se ne fece nulla.
Anche se l’Austria tentava di
dare segni di apertura e modernità, il parlamento di Torino aveva superato ogni
buon proposito regio.
Il parlamento municipale dell’Italia unita. Quando tra il 1859 e il 1860 il castello di carte del
sistema degli antichi stati crollò, tessera dopo tessera, fu non a caso, di
nuovo la carta della costituzione (congelata, sospesa o cancellata dopo il 48)
quella che alcuni dei monarchi, di nuovo traballanti di fronte all’imprevista
accelerazione degli eventi, provarono a giocare in extremis per salvare il
proprio trono e il proprio stato. Leopoldo II in Toscana la propose non appena
(27 aprile 1859) si rese conto che la situazione, in una Firenze politicamente
calda dall’imminenza della seconda guerra d’indipendenza, si stava facendo
insostenibile. Ma non bastò e la sera stessa si vide costretto ad abbandonare
la capitale e il granducato nelle mani dei notabili liberali della regione.
Francesco OO di Borbone, a sua volta nel giugno 1860, mentre la Sicilia era
ormai in mano a Garibaldi, si risolse a sua volta a ripristinare la costituzione
e a manifestare simultaneamente l’impegno a emanarne una speciale per l’isola.
E in questo caso il tentativo fu confortato da una parvenza di successo dal
momento che consentì l’avvio di un’interlocuzione tra corte e liberali, che per
qualche mese rese immaginabile lo scenario di una sopravvivenza del regno delle
Due Sicilie con una monarchia costituzionale.
Tra i liberali del
Mezzogiorno c’era chi spingeva per la cessazione dell’indipendenza del regno e
per l’annessione dei suoi territori a quelli vecchi e nuovi sotto la corona
sarda. Ma la liberalità dei Savoia, con la loro costituzione il regime
liberale, era controbilanciata negativamente di essere sotto a dei regnanti.
Poi il Mezzogiorno era lontano da Torino, anche culturalmente e Napoli avrebbe
perso il ruolo di capitale e forse non ci sarebbe stata una possibilità di
efficace rappresentazione nel parlamento.
A partire dall’aprile 1859,
prima in Toscana e poi nei ducati padani e a Bologna e nelle legazioni
pontificie, di fronte all’evanescenza dei pubblici poteri, dappertutto il
municipio si era fatto stato. E prima che i governi provvisori confluissero
nello stato sabaudo si dibatté molto se questa era la cosa giusta. Le elite
lombarde e toscane, ad esempio, erano convinte che le istituzioni municipali
fossero più adatte del parlamento sabaudo, soprattutto per mantenere un
virtuoso paternalismo nobiliare. Al momento della proclamazione del regno, nel
marzo del 1861, le opzioni intorno al modello di relazione centro-periferia
erano largamente aperte, e se ne continuò a discutere anche negli anni
successivi, fino all’emanazione delle leggi di unificazione amministrativa dal
1865.
Insieme alla nazione prendeva
forma lo stato unitario, il cui centralismo amministrativo venne ben presto
criticato dalle elite politiche. Si andava contro, attraverso la
statalizzazione, alla concezione territoriale che era radicata nel paese.
L’ordine istituzionale preunitario era stato soppiantato dal regno
risorgimentale, un elemento nuovo, un parlamento nel quale molte famiglie
locali davano vita al mondo notabilare dell’Italia unita e potevano trovare un
contrappeso che consentiva loro di convivere con quello stato al quale nessun
regime moderno poteva rinunciare. Grazie alla presenza del parlamento che non
tardò a proporsi come sede privilegiata di una quotidiana prassi di
negoziazione tra periferie e centro, si poteva immaginare di guardare allo
stato non più solo come una minaccia, ma come una risorsa. Il partito
municipale lasciava il suo ruolo di oppositore e trovava posto nella
responsabilità di governo solo in parte intaccata dalla non pienamente compiuta
parlamentarizzazione del sistema costituzionale.,
La nazione sorta nel 1961 si
sforzava di coniugare la possibilità di un rilancio della soggettività dei
territori, in ragione di quel sistema a centralismo debole che a lungo continuò
a contraddistinguere la storia costituzionale dell’Italia liberale, in tempi
ormai post-cetuali, e al tempo stesso inevitabilmente statuali. Gli intenti
erano diversi da quelli giacobini del 700 o dai napoleonici, che si volevano
liberare dell’antico regime a favore di una cittadinanza individualistica
unitaria. Le tendenze che crearono l’Italia furono estremamente
contraddittorie, ma si puntò soprattutto alla convivenza.
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