lunedì 27 agosto 2012

Economia dei media - nuovi riassunti


Riassunti economia dei media


Parte 1 (Cap. 2, libro, Perretti – Negro + Cap. 1, dispense, Celata – Caruso) Evoluzione del settore cinematografico negli Stati Uniti e in Europa


Introduzione

Il cinema è un’industria, anzi è l’industria dell’audiovisivo, in cui convivono aspetti culturali e artistici, come quelli legati all’intrattenimento, insieme a ferree leggi economiche.
Il cinema non è un’area economica a se stante ma, poiché è inclusa nella sfera dell’intrattenimento (nel senso che i prodotti cinematografici svolgono funzione d’intrattenimento per lo spettatore) essa si trova all’interno di un mercato in cui concorrono altre forme di spettacolo, quali la televisione, la radio, l’editoria. Tutte insieme queste aree compongono quel ramo dell’economia industriale dell’intrattenimento.
Il cinema nasce alla fine del 1800 ed esplode subito con precise caratteristiche:
·         si pone immediatamente come mass market, cioè come prodotto di larga diffusione sul mercato, non relegato ad un pubblico di nicchia;
·         ha un forte connotato di innovazione tecnologica, che lo porterà a mutazioni produttive continue e dirompenti, quali: il sonoro, il colore, gli effetti digitali, la distribuzione via internet ecc.;
·         sperimenta una ricca strumentazione di marketing, al fine di penetrare al meglio nel mercato dell’intrattenimento, sbaragliando la concorrenza di altre forme di spettacolo, come il teatro ad esempio agli inizi del 1900.
L’origine del settore cinematografico è associata all’invenzione del proiettore. I fratelli Lumiere presentarono il loro Cinematographe in Francia, alla fine del 1895, pochi mesi dopo le dimostrazioni pubbliche di analoghe invenzioni negli U.S.A. offerte da Latham e Armat.
Nonostante una nascita pressoché contemporanea tra Europa e Stati Uniti, l’evoluzione del settore cinematografico ha seguito percorsi differenti. Mentre l’Europa rappresentò inizialmente il centro dell’innovazione in riferimento alla produzione, gli U.S.A. rappresentarono da subito il mercato più vasto a livello internazionale, divenendo centro dell’innovazione dell’industria cinematografica.

L’evoluzione negli Stati Uniti

Lo sviluppo economico del settore cinematografico statunitense può essere definito da quattro fasi:

1)    dal 1895 al 1915, cioè dalle prime proiezioni pubbliche (1895) alla sentenza della corte distrettuale di New York che dichiarò illegale la formazione del MPPC, cioè il trust (1915). L’origine del settore cinematografico è associato alla nascita del proiettore (1895), prodotto che è un evoluzione del Kinetoscope di Edison (cinetoscopio, strumento che permetteva ad un singolo osservatore di guardare attraverso un orifizio delle immagini in movimento). La produzione di prodotti cinematografici (cortometraggi) andava di pari passo con lo sviluppo di nuovi proiettori. I primi cortometraggi riprendevano scene di vita quotidiana (es. l’uscita degli operai dalle fabbriche, dunque scene non film). L’attività di produzione poteva essere gestita da un solo individuo: il regista – cameraman. Non c’era quindi divisione del lavoro. Con divisione del lavoro si intende una ripartizione dei compiti ideata da Adam Smith (alla fine del 18° secolo) e riportata nel libro “La Ricchezza delle Nazioni” in cui asserisce che la divisione del lavoro permette l'incremento della produttività del lavoro, come illustrato dal celebre esempio della "manifattura di spilli" (se un individuo deve, da solo, fabbricare spilli partendo dall'estrazione dal suolo della materia prima fino alla realizzazione di ogni singola fase artigianale, riuscirà difficilmente a produrre quantità elevate di spilli in poco tempo; se a questo stesso individuo viene fornito il filo metallico già pronto riuscirà ad aumentare la sua produzione; con la suddivisione delle varie fasi artigianali e l'assunzione di queste da parte di più artigiani specializzati in una singola fase, allora la produzione di spilli sarà nettamente superiore alla somma degli spilli che verrebbero prodotti, dallo stesso numero di individui, nelle modalità produttive precedenti). Le ragioni dell'incremento produttivo indotto dalla divisione del lavoro sono tre: (a) aumento dell'abilità manuale di ogni lavoratore (specializzazione), (b) riduzione tempo perso per passare da un'azione o da un'attività all'altra, (c) l'emergere di un'industria di costruttori di macchinari, dell'invenzione e dell'applicazione di macchine che facilitano e riducono il lavoro, permettendo ad un solo lavoratore di realizzare il lavoro di più persone. Ribadendo quindi, agli albori della sua storia, l’industria cinematografica presentava una divisione del lavoro nulla, inesistente, in quanto i produttori dei macchinari (i produttori delle cineprese) erano anche coloro che producevano i cortometraggi.
Tra il 1896 e il 1897 infatti le principali imprese operanti nel settore cinematografico statunitense, come Biograph e Edison Manufcaturing Company, convogliavano a se sia la parte hardware (dedicata alla produzione e realizzazione di strumenti cinematografici, come il proiettore), sia la parte software (riguardante la commercializzazione dei film), cioè sia la produzione che la distribuzione. Quando però, all’inizio del ‘900, comparvero le società regolari di noleggio, chiamati Exchange, i prodotti cinematografici divennero una forma di intrattenimento permanente nei teatri e i gestori dei teatri iniziarono ad affittare le pellicole, invece che acquistarle. La distribuzione cinematografica si trasferì così dai produttori di componenti hardware a imprese specializzate nel noleggio software. L’organizzazione delle imprese di noleggio e il mercato in espansione per i prodotti cinematografici favorirono la nascita di teatri esclusivamente dedicati alla proiezione di film, quindi lo sviluppo del cinema come mezzo di consumo di massa. Nel 1907 quello dei prodotti cinematografici costituiva un business autonomo rispetto a quello delle componenti hardware.
Il mercato in espansione, qual era quello cinematografico, attrasse l’interesse di molti investitori, anche stranieri come ad esempio l’impresa francese Pathé Frères, che alla fine del 1907 riuscì a conquistare il 30% della quota di mercato U.S.A. .
Al fine di arrestare una concorrenza sempre più crescente le imprese dominanti nel settore, capitanate dall’impresa Edison Manufacturing Pictures, si coalizzarono aderendo alla formazione di un unico ente commerciale, il MPPC, in modo da creare una concentrazione monopolistica del mercato cinematografico.                                                            
La nascita del Trust (cartello), cioè del Motion Pictures Patents Company (MPPC), risale al 1908. Esso (il MPPC) consiste in una partnership economica tra le  principali aziende operanti in quel periodo nell’industria cinematografica statunitense (Edison Manufcaturing Company, Biograph, Armat, Essanay, Kalem, Kleine, Lubin, Pathé Frères, Selig, Vitagraph e Eastman-Kodak) al fine di scoraggiare l’ingresso nel mercato cinematografico di nuovi potenziali imprese concorrenti. In questa fase (1908, MPPC) la produzione e distribuzione dei prodotti cinematografici è prima integrata e poi organizzata in attività specializzate in un business autonomo, cioè separato dal mercato delle componenti hardware (in cui vi rientrava la produzione di proiettori ad esempio). 
Tutte le aziende aderenti al MPPC avevano la possibilità di commercializzare ogni settimana un numero variabile tra i 4 e i 6 prodotti della lunghezza di una bobina ciascuno, a patto che facessero ricorso esclusivamente alla distribuzione delle imprese di noleggio dotate di licenza e destinando l’offerta unicamente alle sale con licenza (la quale, al licenza, poteva essere rilasciata solo dal MPPC). L’obiettivo principale del cartello (Trust) consisteva nel controllare l’offerta delle apparecchiature dei prodotti cinematografici (mercato hardware) e al contempo creare delle barriere all’entrata, associate con la proprietà di brevetti, che impedissero alle imprese prive di licenza di poter entrare nel mercato cinematografico.
Tuttavia 3 fattori concorsero a determinare la fine del MPPC.
In primo luogo la Eastman-Kodak abbandonò il Trust nel 1911. La Eastman-Kodak era una società particolarmente importante all’interno del MPPC in quanto rappresentava il principale fornitore di materie prime (pellicole non impressionate) degli Stati Uniti. La sua inclusione nel cartello le impediva di vendere i suoi prodotti ai produttori e distributori non affiliati, rendendo di fatto il MPPC privo di concorrenti. Nel 1911 però la Eastman-Kodak abbandonò il Trust e i suoi prodotti incominciarono ad essere venduti anche ai produttori indipendenti, i quali potevano finalmente avere accesso alle materie prime di cui avrebbero necessitato per entrare nel mercato della cinematografia.
In secondo luogo, con l’ingresso di competitor nel mercato, l’esistenza del MPPC fu messa a dura prova dalla differenziazione del prodotto operata da produttori indipendenti, quali Famous Players e Feature Play Company che introdussero il lungometraggio, un prodotto più lungo (multi bobina invece che mono bobina come erano invece i prodotti del Trust) elaborato e costoso rispetto alle pellicole sino ad allora realizzate. I lungometraggi sostituirono i cortometraggi che rappresentavano l’output esclusivo della Edison Manufacturing Company (una delle imprese aderenti al Trust), introducendo una sostanziale riorganizzazione del business. Non solo i lungometraggi erano difficili da realizzare ma la loro realizzazione richiedeva anche strategie promozionali definite singolarmente e programmazioni più lunghe nelle sale. Le imprese del MPPC non riuscirono ad adattarsi all’innovazione.
Infine, come già scritto, la sentenza del 1915 della corte distrettuale di New York dichiarò illegali le pratiche utilizzate da MPPC e identificò il cartello come una combinazione finalizzata alla riduzione della concorrenza, decretandone pertanto lo scioglimento.

2)       Dal 1916 al 1926, cioè con la transizione verso lo Studio System. L’introduzione del lungometraggio trasforma lo spettacolo cinematografico, sia da un punto di vista creativo (in quanto una rappresentazione cinematografica finiva col somigliare sempre più, per longevità, ad uno spettacolo teatrale) sia da un punto di vista economico (dato l’aumento dei costi produzione che richiedeva a dispetto del cortometraggio). Il lungometraggio richiede pertanto una ridefinizione della logica organizzativa delle attività per produrre e promuovere le nuove pellicole. Così, innanzitutto, a causa della maggior complessità di realizzazione del prodotto, a dispetto dei cortometraggi, si rende necessario determinare livelli di specializzazione superiori a quelli esistenti, che comporta l’istituzione del produttore come coordinatore economico degli input tecnici e creativi. Cioè tra gli anni 1910 – 1920 i produttori sostituiscono i registi come manager dell’attività di produzione cinematografica in America.
Secondo poi, dato l’aumento crescente della domanda di prodotti cinematografici, ai produttori e ai distributori viene chiesto di aumentare l’output (cioè il numero di film prodotti). Richiesta però in contrasto con l’aumento dei tempi di realizzazione necessari per produrre dei lungometraggi. Così per soddisfare le richieste di mercato le principali imprese di produzione e distribuzione cinematografica trasferiscono le proprie strutture da New York (dov’erano collocate inizialmente) a Hollywood, nella California meridionale. Regione dotata di condizioni climatiche ed economiche in grado di soddisfare in modo efficiente le nuove esigenze produttive. Entro il 1922 l’85% dei prodotti cinematografici americani erano realizzati ad Hollywood.
Terzo, dopo il 1915 viene introdotta la sceneggiatura quale elemento riorganizzativo del settore cinematografico. La sceneggiatura contiene informazioni dettagliate sulla lavorazione, comprendendo anche una suddivisione per sequenza dei costi necessari alla produzione (cost breakdown).
In quarto luogo, tra gli anni 1920 – 1930, al fine di rendere al pubblico l’aumento del valore nel prodotto, i distributori adottano alcuni elementi segnaletici per esaltare la qualità dell’offerta. Nasce il divismo, viene cioè a crearsi lo Star System, dove per valorizzare il prodotto realizzato, le imprese cinematografiche ricorrono all’impiego di registi e/o attori noti al pubblico, quali fattori di garanzia per i potenziali spettatori sullo spettacolo che andranno a vedere. Inoltre l’attore-divo viene chiamato a interpretare ruoli fissi qualora ottenesse un buon riscontro di pubblico dopo la sua prima apparizione e le imprese si specializzano nella produzione di film di genere, in modo da rendere il proprio marchio identificabile al consumatore. Per ciò che concerne gli attori, C. Chaplin diviene maestro della slapstick commedy; mentre a livello si Studios (di imprese) la Paramount viene ad identificarsi principalmente per le sue commedie brillanti, mentre la Warner Bros., per le sue pellicole drammatiche ecc.. Tali identificazioni, finalizzate ad un rapporto di fidelizzazione con il pubblico, prendono il nome di sistema dei generi.
Infine, a partire dal 1918, al fine di contenere i rischi economici, derivanti dagli aumenti dei costi necessari per realizzare un lungometraggio, le imprese dell’industria cinematografica operano un coordinamento tra le varie attività costituenti la filiera del cinema. Le grandi imprese del cinema adottano cioè una struttura integrata verticalmente. Per ridurre i rischi e i costi legati alla commercializzazione dei lungometraggi, le imprese cinematografiche (unità giuridica, quale ad esempio la Paramount Pictures Corporation), internalizzano, fanno proprio, i tre comparti della filiera cinematografica, cioè la produzione (che progetta e realizza il film), la distribuzione (che vende il film agli esercenti cinematografici) e l’esercizio (area fisica dove si realizza la vendita del film al consumatore finale, cioè le sale cinematografiche).
Nel 1919 ad esempio, le imprese di produzione Famous Players e Feature Play combinano le proprie attività con quelle del distributore Paramount Pictures, e tutte e tre vanno a formare la Paramount Pictures Corporation, azienda che assume una quota importante nel mercato della distribuzione, commercializzando da sola, nel 1919, 220 degli 840 lungometraggi prodotti. La Paramount Pictures Corporation riesce ad esercitare un notevole potere contrattuale negli accordi con gli esercenti, impiegando con essi (con gli esercenti) pratiche commerciali vincolanti come il block booking (cessione in licenza, da parte di un distributore, di un lungometraggio o un gruppo di lungometraggi, dietro la condizione che l’esercente acquisti la licenza per un altro lungometraggio o gruppo di lungometraggi commercializzati dallo stesso distributore in un dato periodo) e il blind bidding (pratica secondo cui gli esercenti presentano offerte in concorrenza l’un con l’altro, in cambio di programmare un film senza averlo prima visionato). Queste pratiche (block booking e blind bidding) incontrano l’opposizione degli esercenti, i quali non accettano di lavorare a queste condizioni di imposizione. Molte sale vengono così vendute e ad acquistarle sono proprie le grandi imprese di produzione e distribuzione operanti nel settore cinematografico. Nel 1926 infatti, la Paramount Pictures Corporation acquista, da First National, il gruppo Publix Theaters Chicago, un circuito di 96 sale di prima visione. Il modello di integrazione a valle (acquisizione degli esercizi) operato da Paramount, viene presto seguito da altri soggetti operanti nel settore e tra il 1925 e il 1926 il mercato cinematografico statunitense viene ad organizzarsi attorno a due gruppi:
a)  le Majors, cioè imprese totalmente integrate (che controllavano cioè tutte le componenti della filiera cinematografica). Rientrano in questa categoria: Paramount, Loew’s e First National;
b)  le Minors, imprese parzialmente integrate (controllavano la produzione e la distribuzione ma non l’esercizio). Rientrano in questa categoria: Fox, Warner Bros., Universal e United Artist.
Con il controllo esercitato sul mercato di sbocco (cioè sugli esercizi) i produttori integrati riescono ad espandere la propria attività, dal momento che i loro film sarebbero arrivati sicuramente nelle sale, stabilizzando l’industria cinematografica. La proprietà delle sale, integrata con le attività di produzione e distribuzione, garantisce così alle imprese da un lato una riduzione dei rischi derivanti dalla produzione di costosi lungometraggi, dall’altra un monitoraggio diretto del mercato riguardo all’accoglienza da parte del consumatore finale (lo spettatore) del prodotto filmico. Si chiude così un circolo perfetto di controllo del mercato, garantito appunto dall’integrazione verticale delle imprese cinematografiche.
L’integrazione verticale introduce un modello produttivo, centralizzato e standardizzato, che sancisce la nascita degli Studio System (1926). Con Studio System si intende così un metodo di organizzazione del lavoro, nel caso dell’industria cinematografica di ideazione, produzione e realizzazione di un film, teso alla massimizzazione dei profitti attraverso un sfruttamento ottimale delle risorse. Un sistema basato sulla suddivisione, rigida e regolata, del lavoro e sulla subordinazione totale di tutte le componenti professionali, dagli attori agli sceneggiatori, dai registi al produttore. Lo Studio System struttura dunque l’industria cinematografica sulla base del modello economico “fordista”. Le caratteristiche del cinema fordista, sinteticamente sono: a) integrazione verticale dei comparti della filiera cinematografica, al fine di ridurre i rischi  e accrescere la controllabilità in un settore altrimenti imprevedibile; b) presenza di elevati costi fissi (come ad esempio il compenso da attribuire agli attori i quali si legavano, con contratti a lungo termine, alle case di produzione, risultando in questo modo vincolati dallo stesso a lavorare esclusivamente per quell’impresa di produzione cinematografica a patto di ricevere uno stipendio fisso dall’impresa); c) approfondita divisione del lavoro (ogni soggetto operante all’interno di un’impresa cinematografica ha un proprio compito specializzato); d) forti immobilizzazioni (presenza degli studios).

3)       Dal 1927 al 1948, cioè con l’introduzione del sonoro e il consolidamento dello Studio System. I primi sistemi sonori furono creati da inventori individuali, già a partire dagli ultimi anni del 1800. Tuttavia tali sistemi si dimostrarono non affidabili tecnicamente e solo quando grandi imprese, come Western Electric Company e General Electric, adattarono soluzioni sviluppate in altri settori, in particolari quelli radiofonici e telefonici, il sonoro poté essere introdotto nel cinema su base industriale. Così tra il 1925 e il 1927, tre sistemi sonori si dimostrarono adattati a un impiego su vasta scala: a) il Vitaphone, sviluppato dalla Western Electric e concesso in via esclusiva alla Warner Bros.,  b) il Movietone, progettato da Case e incorporato poi da Fox Film Corporation,  c) Photophone, presentato da RCA.
L’accordo, ad esempio, che Warner Bors. stipulò con Western Electric, consenti alla prima (Warner Bros.) di investire con successo nella produzione di film sonori e le permise di produttore il film “Il cantante di jazz” nel 1928. Anche la Fox Film Corporation riuscì  a sviluppare un sistema rivale con esiti altrettanto positivi. Tra il 1927 e il 1928 la concorrenza tra i sistemi di sonorizzazione divenne intensa. La Western Electric Company interruppe il proprio accordo in esclusiva con Warner Bros.,  e creò una sussidiaria, la ERPI, per gestire le proprie operazioni al di fuori del business telefonico e stipulò una serie di accordi di licenza con Movietone. Lo standard introdotto da ERPI dovette poi fronteggiare la concorrenza della RCA. La RCA offriva prodotti qualitativamente superiori, ma richiedeva accordi in esclusiva e costi più alti per l’acquisizione dei suoi prodotti. La ERPI invece forniva soluzioni migliori dal punto di vista commerciale, con accordi flessibili, cioè non in esclusiva e costi più abbordabili. La RCA non riuscì ad accordarsi con i produttori (Paramount, Loew’s e First National) e decise così di organizzare una propria società di distribuzione cinematografica chiamata RKO, integrata verticalmente nella produzione, distribuzione (con l’acquisizione di Film Box Office e di Pathé Frères) ed esercizio (con l’acquisto del circuito Keith – Albee – Orpheum).
Gli standard ERPI e RCA erano in concorrenza anche per la conversione del sonoro nelle sale. Concorrenza che durò sino alla seconda metà del 1928 quando i due sistemi raggiunsero un soluzione di compatibilità tecnica.
In generale, l’introduzione del sonoro richiese ingenti investimenti e le apparecchiature impiegate nella lavorazione diventarono più sofisticate e avanzate. I produttori divennero così sempre più dipendenti dai fornitori di hardware specializzato, mentre il personale tecnico richiese ulteriore formazione. Inoltre l’integrazione di immagini e suoni trasformò la sceneggiatura. Molti attori dovettero adattare le proprie competenze artistiche per una nuova forma di recitazione.
Ad aggravare le difficoltà di sviluppo del sonoro vi fu, nel 1929, la recessione economica, che colpì tutte le industrie compresa quella cinematografica. In quell’anno la conversione del sonoro non era stata ancora completata e inoltre, la recessione comportò una riduzione del potere d’acquisto detenuto dai consumatori, i quali rinunciarono drasticamente al consumo di cinema. Il numero di biglietti venduti ogni settimana si ridusse di oltre il 30%.
Ne seguì che da un lato le imprese cinematografiche avevano aumentato i volumi degli investimenti per completare la conversione del sonoro e dall’altro questi investimenti non rientrarono perché, a causa della recessione, il consumo di cinema si ridusse.
Le grandi imprese cinematografiche, le Majors, così si indebitarono ed ebbero bisogno di ingenti finanziamenti per mantenere viva la propria produttività. Per fortuna del cinema però, la crisi nel settore cinematografico si fece sentire meno che altrove. Questo perché, già prima della recessione, il consumo di cinema rappresentava uno dei passatempi preferiti dagli americani, basti pensare che le sale cinematografiche cambiavano in media 2 film a settimana. Il consumo di cinema era quindi entrato a far parte della routine quotidiana di molte persone e difficilmente lo si sarebbe potuto sostituire. Inoltre le Majors riuscirono a promuovere l’idea di cinema come mezzo a basso prezzo per abbandonarsi ai sogni, lasciando in disparte, per un certo lasso di tempo, i problemi della vita quotidiana. Questi fattori consentirono alle Majors di evitare il fallimento, in quanto il pubblicò non abbandonò le sale cinematografiche, anzi tornò a frequentarle non appena ne ebbe la possibilità.
Il ritorno del pubblico nelle sale, associato alle proprietà immobiliari delle sale cinematografiche e degli studios che le grandi imprese (le Majors) disponevano, consentì alle Majors di chiedere prestiti alle banche e a grandi investitori privati, i quali (le banche e gli investitori privati) ricevettero dalle prime (dalle Majors) le proprietà immobiliari come garanzia di estinzione dei debiti. Inoltre per effetto dei prestiti elargiti, banchieri (come Gibson) e industriali (come Goodyear e Hertz) entravano a far parte dei consigli d’amministrazione delle Majors. Queste presenze sostennero il rafforzamento del sistema oligopolistico che le Majors avevano formato a partire dagli anni ‘20.
Le Majors acquisirono infatti maggiori poteri al punto che, al momento della definizione di un Codice di Concorrenza Leale relativo al settore cinematografico (codice stipulato per mezzo di un procedimento atto a riconvertire l’industria del cinema U.S.A., il National Industry Recovery Act), le stesse imprese parteciparono ai vertici amministrativi incaricati di definire il codice. Ne seguì che l’oligopolio diventò più forte di prima in quanto pratiche come quelle del block booking e del blind bidding vennero definite leali, e diventarono legittime, indebolendo ulteriormente in questo modo la posizione di quei pochi esercizi indipendenti che non si erano integrati a nessuna delle grandi imprese statunitensi.
In questo modo le Majors poterono acquisire altre sale per la visione dei film, suddividendo le stesse (le sale) in classi. Si vennero cioè a creare classi di visione di prima fascia proprie di quelle sale integrate all’interno delle Majors, che garantiva a tali esercizi un accesso preferenziale ai prodotti commercializzati dalla propria organizzazione distributiva, e classi di visione secondarie, proprie del circuito indipendente, i cui cicli di visione avrebbero compreso gioco forza periodi di attesa più lunghi per la programmazione e il ricambio di nuove pellicole. Gli accordi tra Majors (divenute nel frattempo 5: Paramount, Loew’s, Mgm, Warner Bors., Fox Coropration e Rko) e Minors (tre: Universal, Columbia e United Artist) consentivano alle stesse di produrre il 65% dei film totali presenti nel mercato statunitense (lasciando appena il 45% alle produzioni indipendenti) e di generare il 95% degli incassi complessivi dei distributori. Ciò diveniva possibile perché il mercato era in grado di assorbire circa 400 nuovi film l’anno e ogni singola Major produceva circa 80 pellicole nei 365 giorni. Il che consentiva alle 5 Majors di scambiarsi i film prodotti all’interno delle proprie reti distributive, estromettendo in questo modo l’ingresso di nuovi concorrenti all’interno del mercato. Cioè, in sostanza, dei film prodotti quasi esclusivamente quelli delle Majors trovavano degli esercizi per la loro programmazione. Questo atteggiamento collusivo escludeva dal mercato le imprese di produzione e distribuzione non integrate.
Tale collusione rafforzò la posizione dominante delle Majors e si protrasse sino al 1948, anno della “sentenza Paramount”. Nel 1948 infatti, una serie di decisioni della Corte Suprema riconobbero le 5 grandi imprese integrate (le Majors) e le 3 imprese semi-integrate (le Minors) colpevoli di ridurre la concorrenza nel settore cinematografico, imponendo loro di: a) interrompere l’utilizzo delle pratiche commerciali che vincolavano l’acquisto di film da parte degli esercenti (block booking e blind bidding); b) operare una separazione sostanziale tra le attività di produzione e distribuzione, con quella di esercizio. Condizione da rispettare per tutte le 5 imprese verticalmente integrate.
La sentenza di fatto privò quindi le Majors di possedere la proprietà delle sale cinematografiche, determinando la fine dell’integrazione verticale della filiera e l’abbandono del modello economico “fordista”. In sostanza era la fine dell’era degli Studio System.

4)       Dal 1949 al presente, cioè dal post “sentenza Paramount” alle sue conseguenze, con la nascita di un sistema decentrato flessibile. Tre anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’industria cinematografica americana versava in buone condizioni economiche. Il cinema si confermava il modo preferito dagli americani di spendere il proprio tempo libero e l’industria cinematografica si apprestava ad incrementare i suoi ricavi con le esportazioni di film ai mercati esteri. Due fattori tuttavia determinarono la rottura di questo momento idilliaco per le imprese cinematografiche: a) la sentenza Paramount del 1948 (di cui si è già detto);  b) l’avvento della concorrenza televisiva, a partire dal 1946. L’avvio delle trasmissioni televisive commerciali negli U.S.A., come detto, ebbe vita a partire dal 1946 (in Italia ciò avverrà solo a partire dal 1954, mentre il primo paese europeo a dare inizio alle trasmissioni broadcasting fu la Gran Bretagna, anch’essa nel 1946). Con l’avvento della tv, il consumo di cinema si ridimensionò drasticamente. La tv portò infatti un cambiamento nell’utilizzo del tempo libero e nel modello di vita.
La produzione di pellicola si riduce: il 1948 è l’anno a partire dal quale il numero di lungometraggi realizzati a Hollywood subisce una contrazione regolare e costante. Nelle sale si passò dal picco storico di oltre 4 miliardi di biglietti venduti nel 1946, ai poco più di 3 miliardi del 1950, che divennero 2,2 miliardi nel 1955. Un disastro che le Majors provarono a tamponare con l’aumento del prezzo del biglietto. Ma dal 1946 al 1955 il fatturato lordo delle grandi imprese cinematografiche americane si ridusse del 26%.
Così la sentenza Paramount aveva posto fine alla “Vecchia Hollywood” degli Studio System, mentre la televisione irrompeva nel mercato dell’intrattenimento, nel quale il cinema era, sino al 1946, il leader indiscusso.
La televisione, con l’innovazione tecnologica della domiciliazione dell’intrattenimento, travolse il cinema.
A questi due eventi principali, vi furono poi altre tre cause a determinare la crisi del comparto cinematografico: a) un’esasperata conflittualità sindacale che aumentò i costi di produzione in un momento in cui doveva avvenire esattamente il contrario; b) la crociata anticomunista del senatore Mc Carthy che paralizzò Hollywood e la trasformò in luogo di spionaggio, denunce, cioè esattamente il contrario del multiculturalismo che l’avevano sempre contraddistinta; c) cambiamento demografico e urbanistico che la seconda guerra mondiale aveva portato: la guerra aveva sfoltito (con la morte) i ranghi delle classi delle età centrali, che erano i principali consumatori di cinema, e aveva spinto molte famiglie ad abbandonare il centro delle grandi città, dove si addensavano le sale cinematografiche, per decentrarsi nei quartieri periferici. Tuttavia, nonostante i rapporti conflittuali del primo periodo, cinema e televisione divennero due industrie strettamente affiliate nel mercato dell’intrattenimento, disposte a spalleggiarsi piuttosto che a farsi la guerra.
I rapporti cinema – televisione infatti cambiarono a partire dalla metà degli anni ’50, quando la tv divenne un importante mercato secondario per la distribuzione di film. Nel nuovo contesto, il mercato delle sale ha visto diminuire progressivamente la propria rilevanza economica, tuttavia ha mantenuto un valore strategico per l’offerta cinematografica dal momento che gli elevati incassi al botteghino influenzavano positivamente la performance successiva del prodotto (film) nei susseguenti mercati di sbocco (es. la televisione). La partnership tra televisione e cinema fu possibile quando, all’inizio degli anni ’50, l’industria televisiva non produceva utili ma perdite e, per riempire i propri palinsesti, le emittenti necessitavano di film da acquisire però a basso costo. Le Majors così non cedettero i propri costosi lungometraggi alla tv, ma i produttori indipendenti trovarono finalmente il proprio spazio per promuovere e far conoscere i propri prodotti al grande pubblico. E’ qui che nacque il connubio tv – cinema, seppur con produttori indipendenti, attraverso la riconversione di prodotti, inizialmente destinati al mercato cinematografico, portati ora sul piccolo schermo: nascono i telefilm, produzioni a basso costo, prive di star, che aprirono un mercato con potenzialità enormi. Inoltre nel 1953 la United Paramount Theater, una delle più grandi catene di sale cinematografiche negli U.S.A., acquistò il controllo della ABC, il terzo network televisivo e costruì un forte rapporto con le imprese Warner e Disney, introducendo infine il magazine concept per mezzo del quale le pubblicità venivano inserite direttamente all’interno di ogni programma televisivo, consentendo in questo modo la sponsorizzazione di più aziende invece che di una singola. I network televisivi diventarono così il mercato di sbocco necessario per la produzione cinematografica, la quale vedeva nella tv il mezzo con cui promuovere, attraverso l’uso delle immagini, i film prodotti. Così dopo il periodo di scetticismo reciproco, durato dal 1946 alla prima metà degli anni ’50, la programmazione televisiva incominciò a fare grande uso dei prodotti filmici cinematografici, aumentando il proprio audience e, conseguentemente, i propri ricavi pubblicitari. A partire dalla metà degli anni ’50 anche le Majors iniziarono a fiutare le potenzialità economiche delle emittenti televisive e instaurarono con esse delle relazioni commerciali.
Anche se la televisione era divenuta uno dei mercati di sbocco delle pellicole, il cinema si pose il problema di come diversificare il suo prodotto da quello televisivo. La soluzione percorse due strade: la prima fu quella della spettacolarizzazione, attraverso l’introduzione di maxi schermi cinematografici, in contrasto con i piccoli schermi televisivi; b) la seconda fu quella tecnologica, con l’adozione del colore, contro il bianco e nero della tv. Il colore fu introdotto alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta già riempiva più del 50% dei film americani. Kodak e Technicolor furono protagoniste di un’epica battaglia sui brevetti. Sempre nell’ambito tecnologico è doveroso citare l’invenzione del Cinemascope, nel 1953, un sistema di lenti che comprimeva le immagini in ripresa e le dilatava in proiezione su schermi di enormi dimensioni. Le innovazioni tecnico – spettacolari, associate a strategie di marketing di ridefinizione del prodotto, che portarono ad esempio a creare attesa tra il pubblico per l’uscita di un film, distribuendolo (il film) non a tappeto, bensì in modo regolato al fine di farne accrescere le aspettative, consentirono alle imprese dell’industria cinematografica di rendere parzialmente diversa la propria produzione rispetto a quella destinata al mercato televisivo. Ma il vero cambiamento le imprese dell’industria cinematografica l’avrebbero dovuto compiere rimodellando il modello produttivo economico utilizzato finora. Si trattava di dover abbandonare il modello fordista, basato sulla presenza di Studios integrati verticalmente, che oltre a comportare notevoli costi fissi, non più sostenibili dal declino dell’industria cinematografica, erano stati anche banditi dalla sentenza Paramount, per puntare su un modello più flessibile. La rigidità delle strutture dello Studio System fu allora abbandonata a favore di un sistema a rete. Il sistema a rete americano andò componendosi in 3 sottospecie:
a) le Majors, che dismisero in misura significativa la veste produttiva, per ridisegnarsi il ruolo centrale di distribuzione e finanziamento delle produzioni indipendenti;
b) i produttori indipendenti, che diventarono gli sviluppatori e i realizzatori dei film, il cui finanziamento e la cui distribuzione sarebbero stati assegnati alle Major;
c) le agenzie di rappresentanza di attori e autori che sostituirono i contratti a lungo termine dello Studio System e assunsero grande importanza nel rapporto di intermediazione tra i finanziatori di un progetto filmico e gli artisti da rappresentare e candidare per l’assegnazione di una parte o di un lavoro.
In sostanza dunque, le Majors si limitavano al ruolo di distributori di prodotti cinematografici, mentre la produzione veniva decentrata verso produttori indipendenti. Solo la Mgm continuò a produrre film ad alto costo con risultati disastrosi.
Complessivamente furono prodotte meno pellicole ma più costose. Erano i cosiddetti spectacular, prodotti filmici fortemente differenziati gli uni dagli altri, al fine di rendere l’esperienza cinematografica unica e fortemente personalizzata.
Si passò così dalla fase del producer unit system, propria degli Studio System in cui il produttore era vincolato a produrre dai 6 agli 8 film l’anno, a quella del package unit system, con accordi per singoli film. In sostanza, la produzione di un film veniva reimpostata come sistema temporaneo, che nasceva dalla realizzazione di un progetto e si scioglieva nel momento in cui veniva raggiunto uno scopo: la produzione e la distribuzione di un film. Tale struttura a rete, è stata mantenuta sino ad oggi. Le attuali Majors (Disney, Paramount, Warner Bros., 20th Century Fox, Mgm, Sony e Universal) difficilmente producono film che distribuiscono, anzi producono direttamente solo i progetti più costosi per un totale del 25% dei film complessivamente realizzati.
In questo modo le grandi imprese del cinema hanno mantenuto la leadership del settore e minimizzato il rischio finanziario. La minimizzazione del rischio viene attuata grazie al controllo del mercato di distribuzione.
Tuttavia a livello storico è doveroso ricordare come negli anni Sessanta le Majors incontrarono un nuovo periodo di crisi, dovuta in primis alla caduta dei biglietti venduti, secondo poi al flop di blockbuster (film dagli alti costi di produzione) a vantaggio di film meno dispendiosi come Bonnie and Clyde, terzo al flop di film musicali che produssero gravi buchi di bilancio. Per risanare i conti le Majors avevano nuovamente bisogno di capitale esterno alle imprese e per questo divennero (le Majors) terreno di conquista di gruppi esterni al settore cinematografico. Nel 1966 la Paramount fu acquisita da Gulf & Western, una società operante nel settore minerario, del tabacco e dell’edilizia. Nel 1967 United Artist divenne una consociata di Transamerica Corporation, gruppo attivo nei settori finanziario e assicurativo. Nel 1969 la Mgm fu acquisita da Kirk Kerkorian, uomo d’affari impegnato nell’attività alberghiera e dei casinò. L’acquisizione del controllo delle Majors da parte di imprese diversificate ebbe risultati economici particolarmente positivi. L’entrata di queste grandi imprese comportò una maggiore sensibilità verso gli elementi di redditività del business e determinò una maggiore attenzione ai costi che si concretizzò con una riduzione dei titoli prodotti. Grazie a questa politica si ebbero grandi successi come The Godfather (1972), The Exorcist (1973) e Jaws (1975).
Negli anni Ottanta le Majors subirono un nuovo riassetto, questa volta però non con imprese totalmente esterne, ma legate in qualche modo al settore dell’intrattenimento. Le Majors cioè vengono collocate all’interno di grandi conglomerate media o di grandi gruppi le cui attività potevano ricavare sinergie dal cinema. Nel 1985 la 20th Century Fox fu venduta dal petroliere Marvin Davis e acquistata dalla News Corporation di Rupert Murdoch, il cui impero mediatico spazia dai giornali, all’editoria, alle televisioni, alle squadre di calcio. Nel 1989 la Warner Communications (Major) si fuse con Time Inc. una grande casa editrice. Sempre nell’89 la Columbia Pictures fu acquistata dal colosso giapponese Sony, operativo nel settore dell’hardware necessario per il funzionamento di dispositivi televisivi, musicali ecc..
All’inizio del terzo millennio, le Majors sono dunque inserite in contesti industriali estremamente più ampi che comprendono, a seconda dei casi, cinema, televisione, editoria, musica ecc.. Il prodotto cinematografico può così diventare il soggetto per un programma televisivo, per un prodotto discografico, per un videogioco ecc., e alcuni film di successo (blockbuster) possono divenire prodotti replicati in altri formati mediatici. Film, ad esempio come “Lo squalo” e “Jurassic Park” oltre ad essere pellicole di successo, hanno generato profitti anche in altri comparti mediatici, come quello della discografia dato il riutilizzo delle colonne sonore per realizzare un cd musicale che le contenesse.
Tale sistema ha consentito di limitare l’andamento imprevedibile e incerto del business cinematografico. Un business system in cui il film rappresenta il prodotto di punta di una gamma assai estesa che va dal fumetto alla colonna sonora, permette infatti, un controllo degli sbocchi di mercato, una preziosa ripartizione del rischio e l’opportunità di incrementare i ricavi legati all’attività cinematografica. Ogni colosso dell’industria cinematografica si relaziona dunque ad altri settori: l’integrazione verticale, resa possibile dal sistema della conglomerata, consente la ripartizione del rischio e il raggiungimento di un pubblico più esteso possibile.
Si prenda come esempio il caso della conglomerata Time Warner Inc. Essa risulta impegnata nei seguenti campi:
a) settore cinematografico, tramite il gruppo Warner Bros. Entertainment e la New Line Cinema, comprendenti produzione e distribuzione televisiva, home video, distribuzione cinematografica;
b) nel settore televisivo, tramite l’impresa Time Warner Cable, che possiede un sistema di televisioni via cavo in grado di coprire l’intero territorio statunitense e di offrire offerte diverse ai suoi abbonati, dal basic ai servizi premium tramite i canali televisivi HBO, Cinemax, Cnn, Cartoon network;
c) nel settore discografico, mediante l’azienda Warner Music;
d) nel settore editoriale, tramite il gruppo AOL Time Warner Book, che pubblica e distribuisce testi attraverso etichette specializzate (Warner Books, Little Brown and Company);
e) nel web tramite AOL (American on line). La Time Warner Inc. potrebbe distribuire un film della Warner Bros. nel proprio circuito di sale, offrire il prodotto in formato dvd o home video ai consumatori che desiderano noleggiarlo. Successivamente potrà mostrarlo ai consumatori abbonati al canale via cavo HBO. Al contempo la Warner potrebbe anche collaborare con altri colossi mediatici, come la Paramount ad esempio, per raggiungere fette di pubblico ancora più ampie.
Questo ultimo aspetto consente di comprendere come oltre all’organizzazione interna in conglomerate, una qualsiasi impresa cinematografica può instaurare relazioni economiche anche con altre imprese esterne alla conglomerata di appartenenza. Warner cioè può mettersi d’accordo con Paramount per realizzare e/o distribuire film.
Esiste dunque, oggi, un sistema a rete amplificato in cui la realizzazione di un titolo (di un film) è generalmente legata a una rete di società. Ad esempio il film Spiderman, distribuito da Sony nel 2002, è stato prodotto oltre che da Sony anche da Columbia Pictures Corporation, Marvel Enetrtainment, Sony Pictures Entertainment e Columbia Pictures Industries.
Nella realizzazione di una pellicola statunitense possono dunque essere contemporaneamente coinvolte: a) società di produzione di grandi dimensioni, quali sono le Majors; b) società di produzione di medie dimensioni, con library che contemplano diverse decine di film realizzati, ad esempio la Marvel Entertainment, la Lucas Film Ltd. ecc.;
c) società di produzione di piccole dimensioni, con library di non più di una decina di film, come ad esempio 1492 Pictures, e Moving Pictures; d) società di produzione create appositamente per un singolo progetto, come la società Miracle fondata appositamente per realizzare il film “Harry Potter e la camera dei segreti”.
Riassumendo, per ciascun progetto cinematografico, il sistema a rete fornisce aggregazioni temporanee di scopo, mirate cioè allo sviluppo, alla realizzazione e alla distribuzione di quel singolo film e verificabili in qualsiasi titolo di coda del lungometraggio. L’aggregazione può dunque riguardare la fase di produzione e di distribuzione.
L’insieme delle aggregazioni a rete possono essere divise in alcune tipologie, quali:
a) le Passion Piece, produzioni indipendenti a basso budget (max. 3 milioni di dollari) da destinare principalmente ai festival (es. di film “The Blair Witch Project”); b) le Commercials, produzioni indipendenti a budget medio-basso (dai 3 ai 12 milioni di dollari) da destinare al mercato; c) produzioni ad alto budget (dai 12 ai 100 milioni di dollari) realizzate dalle Majors con la collaborazione produttiva e distributiva di grandi compagnie di produzione indipendente (es. di film “Gangs of New York”); d) produzioni ad altissimo budget (più di 100 milioni di dollari), che vengono finanziate, prodotte e distribuite interamente dalle Majors (es. di film “Titanic”).
Infine per concludere la storia del cinema americano, alcuni numeri odierni sulla Nuova Hollywood: la produzione di un film costa, mediamente, 58,8 milioni di dollari e il 70% dei film prodotti durante l’anno appartengono ormai ad imprese indipendenti. Il numero di film prodotti, dal 1997 al 2002, è diminuito ma sono aumentati i costi di produzione sul singolo film. In generale quindi è possibile dire che il mercato cinematografico americano odierno si organizza in un sistema semi-integrato, in cui la produzione è frammentata, la distribuzione è un oligopolio e l'esercizio presenta livelli elevati di concentrazione con prevalenza di circuiti di sale indipendenti dalle imprese di produzione e distribuzione.

L’evoluzione in Europa
L’evoluzione del settore cinematografico in Europa si articola in 3 fasi storiche:

1)       Dal 1895 al 1914, periodo del dominio europeo nell’industria cinematografica. La nascita del mercato cinematografico europeo risale al 1895, con l’invenzione del Kinetoscope e i suoi tentativi d’imitazione. Le prime fasi dell’evoluzione del mercato cinematografico continentale furono caratterizzate da una stretta collaborazione tra la fabbricazione e la commercializzazione di componenti hardware e software. In Francia le importazioni di prodotti cinematografici provenienti dagli U.S.A., da proiettare poi con il Kinetoscope, era molto costosa. Allora i fratelli Lumière, che progettavano lastre fotografiche, pianificarono di inserirsi in tale mercato e a questo scopo realizzarono il Cinematographe, apparecchio per la riproduzione di immagini in movimento che utilizzava una pellicola da 35 mm. Il Cinematographe fu presentato nel 1895 a Parigi. Inoltre i fratelli Lumière acquistarono due teatri per assicurarsi uno sbocco per le proprie pellicole. Ma le pellicole prodotte dai Lumière furono presto vittima di imitazioni e il loro successo si esaurì già nel 1899, con il definitivo abbandono dell’attività di produzione cinematografica nel 1905.
Le imprese che prima del 1915 determinarono il dominio europeo nel settore cinematografico a livello internazionale furono Pathé Frères e, in misura minore, Gaumont. Si tratta dei produttori responsabili dell’istituzionalizzazione a livello industriale del settore cinematografico, non solo in Francia ma a livello internazionale. Tra il 1907 e il 1914, in particolare, Pathé divenne il primo produttore di film al mondo, con un  processo di integrazione verticale completo nella filiera cinematografica, esteso non solo sul mercato nazionale ma anche su quelli esteri.
Gaumont realizzò la società Comptoir General de Photographie Léon Gaumont et Cie nel 1893. Il business della produzione cinematografica, associato all’opportunità di promuovere macchinari, determinò l’interesse di Gaumont nel settore.
Motivi che spinsero anche Pathé ad entrare nel mercato cinematografico nel 1894, vendendo fonografi e apparecchi Kinetoscope contraffatti. Nel 1897 Pathé fondò la Compagnie Generale des Cinematographes, Phonographes et Pellicules.
Regolari attività di produzione cinematografica furono organizzate in modo parallelo da Gaumont e Pathé tra il 1898 e il 1900. Tutte e due le imprese costruirono studi e assunsero amministratori per la gestione delle strutture e delle operazioni di produzione. Alice Guy per Gaumont e Ferdinand Zucca per Pathé svolsero funzioni di regista, scrittore, attore e montatore. Nel 1901 Gaumont e Pathé diventarono  i più grandi produttori cinematografici in Francia. Dopo il 1902, le due imprese ampliarono sia la capacità produttiva sia la capacità distributiva di pellicole e macchinari, iniziando operazioni commerciali internazionali. Tra il 1902 e il 1905 Gaumont iniziò a esportare i prodotti cinematografici negli Stati Uniti, prima attraverso la sussidiaria Bromhead e poi attraverso il produttore americano Kleine.
Nello stesso periodo Pathé iniziò un processo di integrazione verticale che riguardò non soltanto le componenti software della filiera (produzione, distribuzione ed esercizio) ma anche le componenti hardware (produzione di cineprese, duplicazione delle pellicole ecc.). Sempre nel 1902 l’impresa di Pathé fu la prima del settore a introdurre la catena di montaggio nei suoi stabilimenti di produzione. L’impresa di Pathé continuò  a crescere, non solo per mezzo dell’acquisizione di nuovi teatri, ma anche attraverso la gestione di un sistema capillare di distribuzione. Allo stesso tempo Pathé cessò di commercializzare i propri prodotti attraverso la vendita degli stessi, adottando invece politiche di noleggio. Dopo il 1904 Pathé fu in grado di estendere il processo di integrazione verticale su scala internazionale. Al centro della strategia di internazionalizzazione vi era il mercato americano. I film prodotti da Pathé si dimostrarono molto popolari anche negli U.S.A. e nel 1904 fu in grado di vendere una media di 100-120 copie delle sue pellicole al mercato americano. Nel 1907 Pathé pianificò la costruzione di uno stabilimento per la duplicazione di copie delle pellicole nel New Jersey, con l’obiettivo di ridurre i costi di trasporto derivanti dall’importazione negli U.S.A. dei suoi prodotti. Nello stesso periodo la Edison Manufacturing Company stava organizzando la costruzione del cartello della MPPC. Edison Company, allarmata per il rafforzamento dell’impresa francese sul mercato statunitense, convinse Pathé a rinviare il progetto dello stabilimento nel New Jersey, proponendogli un accordo in cui (la Edison Company) si sarebbe impegnata a duplicare e distribuire i suoi prodotti (i prodotti di Pathé) e non gli avrebbe mosso causa (Edison a Pathé) sull’utilizzo improprio di alcuni brevetti che erano invece di proprietà di Edison.
Pathé inizialmente accettò l’accordo e insieme a Edison costituì la società AEL nel 1907. Società che l’anno successivo avrebbe costituito il nucleo della MPPC. Tuttavia sebbene la MPPC risultasse una barriera insormontabile per tutte quelle imprese europee che tentarono di inserirsi nel mercato cinematografico americano dopo il 1908, la stessa (la MPPC) non riuscì a impedire l’espansione dell’offerta indipendente, minacciando così anche la crescita di Pathé. Inoltre il cartello imponeva alle imprese aderenti un’organizzazione economica da rispettare, consistente nel produrre pellicole non superiori alle 4 mono-bobina. Ma Pathé disponeva di prodotti più lunghi e decise di abbandonare la MPPC, realizzando lo stabilimento produttivo nel New Jersey nel 1912.
Ma con l’uscita dalla MPPC la quota di mercato dei prodotti di Pathé declinò del 10%, dovendosi scontrare sia con le barriere economiche innalzate dal Trust, sia con un cambiamento di produzione in atto, la transizione verso il lungometraggio, cui Pathé non prese parte. Infine Pathé non controllava nessuna sala cinematografica nel mercato statunitense, cui poter proiettare i propri prodotti. La continua e sistematica perdita di quote di mercato, spinsero Pathé ad abbandonare la produzione cinematografica. L’uscita di scena di Pathé, associata allo scoppio della prima guerra mondiale (1915), generò un’involuzione del settore cinematografico francese verso una sua de-industrializzazione.

2)       Dal 1915 al 1950, cioè il periodo del declino europeo. Al termine della prima guerra mondiale (1918) la produzione cinematografica europea diventò frammentata. Il lungometraggio nonostante fosse un’innovazione sviluppata da imprese europee (italiane e francesi in particolare) fu implementato e perfezionato da imprese statunitensi.
Mentre negli U.S.A. le strategie di integrazione verticale dei produttori e le dimensioni del mercato interno consentirono la crescita delle attività produttive attraverso la standardizzazione e il coordinamento manageriale, in Europa l’organizzazione della produzione cinematografica rimase ad uno stato sperimentale, gestito dalle risorse creative (produttori – registi – autori) e fu meno influenzata dall’esigenza di garantire una fornitura regolare a un mercato di massa. Così, nel vecchio continente, la produzione era suddivisa in iniziative disgiunte, mentre la distribuzione e l’esercizio subivano processi di concentrazione. La separazione della produzione dalle fasi a valle della filiera (distribuzione ed esercizio) determinò una divergenza di interessi all’interno della filiera stessa. Data la limitata varietà di prodotti offerti dalle imprese di produzione europee e la loro ridotta quantità in termini di volumi prodotti (pochi film e poco differenziati nel genere) gli esercizi francesi si rivolsero progressivamente all’acquisto di prodotti statunitensi che riscuotevano invece grande successo. Persino Pathé e Gaumont programmavano nelle proprie sale film americani.
Al fine di contenere il successo e l’importazione dei prodotti cinematografici U.S.A., diversi paesi europei tra il 1921 e il 1927 introdussero un sistema di restrizione degli scambi. La Germania, nel 1921, istituì delle quote alla distribuzione di film, l’Italia impose, nel 1925, quote alla programmazione, la Gran Bretagna emanò una specifica legislazione protezionistica nel 1927, “Quota Act”, la Francia introdusse regole rigide per l’importazione tra il 1927 e il 1928.
L’intervento pubblico di restrizione degli scambi produsse però benefici solo nel breve periodo, ma nel medio lungo periodo non contribuì a modificare l’organizzazione economica del settore. Si prenda come esempio il caso dell’impresa tedesca UFA (Universal Film AG). Fondata nel 1917, l’UFA era un’impresa verticalmente integrata in tutti i comparti della filiera (produzione, distribuzione, esercizio) cinematografica e, sin da subito, pianificò una strategia di crescita attraverso processi di acquisizione: nel 1921 comprò le società di produzione tedesche Decla-Bioscop, Nordisk, Union e Messter, diventando così il più grande produttore e distributore della Germania. Nonostante l’espansione, nel 1925 l’UFA si trovò a fronteggiare delle difficoltà economiche, con un passivo di 36 milioni di marchi. Per ripianare il buco di bilancio, l’UFA accettò gli investimenti di capitali americani, provenienti dalle società Paramount e Mgm, le quali sfruttarono l’accordo per aggirare le barriere protezionistiche statali relative all’importazione di film esteri, e introdurre film americani nel mercato tedesco. UFA si indebitò perché aveva costi di realizzazione di pellicole troppo alte che non riuscivano ad essere contenuti da manager dei progetti. Questo accadeva perché i manager tedeschi non erano dei professionisti del settore, a differenza di quelli americani, bensì registi a cui si richiedevano anche delle responsabilità economiche. Date le seguenti condizioni il fallimento, economico, dell’impresa era inevitabile.
Così mentre grandi imprese europee, come l’UFA appunto, entravano in declino, le concorrenti statunitensi sviluppavano con successo nuove strategie produttive e distributive. A partire dal 1927 poi, cioè con l’introduzione del sonoro, il divario competitivo tra imprese americane e quelle europee crebbe maggiormente. Questo perché mentre negli U.S.A. la conversione al sonoro favorì processi di integrazione verticale delle imprese, favorendo l’instaurazione di un sistema oligopolistico che sarebbe durato sino al 1948, in Europa il sonoro fu introdotto in un momento in cui le principali imprese avevano abbandonato l’integrazione verticale, come Pathé in Francia, oppure erano incapaci di espandere le proprie attività a causa di problemi economici, come UFA in Germania. Tali ragioni contribuiscono a spiegare perché le imprese cinematografiche europee non riuscirono a trasformare il sonoro in un’opportunità per riacquistare forza competitiva a livello industriale. Inoltre, relativamente al sonoro, esisteva un problema di barriere linguistiche di adattamento dei prodotti ai differenti mercati nazionali. Mentre infatti le imprese Major statunitensi effettuarono investimenti in Europa al fine di costruire studi in cui poter realizzare pellicole in più lingue da distribuire poi ai vari mercati locali, sviluppando in questo senso anche tecniche di doppiaggio e di sottotitolazione, le imprese europee non riuscirono, sia per problemi economici, sia per l’oligopolio venutosi a creare negli Stati Uniti, a reggere il confronto e a distribuire le proprie pellicole con un sonoro tradotto in lingue diverse da quella originale. I motivi illustrati dimostrano le cause per le quali le imprese europee trovarono nelle imprese americane una fonte di finanziamento costante, con la conseguenza però di una maggiore dipendenza del settore europeo da quello estero. Situazione che perdurerà, seppur con condizione leggermente differenti, sino al presente.

3)       Dal 1951 al presente, cioè il riorientamento del mercato europeo. L’organizzazione del settore cinematografico è rimasta relativamente stabile dopo la seconda guerra mondiale. La frammentazione ha continuato a caratterizzare l’attività di produzione, mentre l’integrazione con la distribuzione ha continuato ad essere limitata. Le uniche strutture distributive operanti in Europa erano controllate dalle imprese majors statunitensi.
Una modificazione radicale è intervenuta solamente con l’introduzione della televisione, specialmente delle emittenti commerciali a partire dagli anni Settanta. La nascita del nuovo mezzo causò una forte riduzione della domanda nelle sale, divenendo concorrente diretto  del cinema nell’industria dell’intrattenimento.
Nonostante la riduzione della domanda di film nelle sale si sia verificata a livello internazionale, le imprese che meno hanno sofferto furono quelle americane, che nella televisione europea trovarono nuovi mercati di sbocco per i film precedentemente distribuiti nelle sale e nel mercato televisivo nazionale (americano). Al contempo però la tv divenne un ottimo canale secondario per i prodotti dell’industria cinematografica, negli U.S.A. e in Europa. Furono però soprattutto i prodotti americani a soddisfare la domanda crescente degli sbocchi secondari (la tv) e ciò contribuì ad aumentare il divario esistente nel settore, con le imprese europee. In Europa, la mancata industrializzazione del settore cinematografico e la debolezza della sua offerta, si sono confrontate con l’esplosione di una domanda di contenuti proveniente dalla diffusione della televisione. Il che ha comportato una contrazione del mercato cinematografico primario, appannaggio di prodotti da destinare al mercato televisivo. Conseguenza di tale accadimento fu la dipendenza che il settore cinematografico assunse, e assume tutt’oggi, nei riguardi del sistema televisivo.
Il condizionamento della produzione cinematografica da parte delle imprese televisive, tende a esprimersi in una sostanziale diminuzione dei budget medi destinati alla realizzazione di film. Tra i gruppi televisivi maggiormente impegnati nella produzione di film, Canal+ rappresenta l’esempio più importante, in Francia e in Europa.

Parte 2 (Doyle G., paragrafi 1.4; 6.2; 6.3) Introduzione all’economia dei media


Strutture concorrenziali del mercato

Le imprese che desiderano massimizzare i profitti non devono preoccuparsi solo dei costi di produzione, ma devono anche sapere quali ricavi conseguono dai diversi livelli di produzione.
I ricavi conseguibili dipendono, in larga misura, dal tipo di struttura concorrenziale di mercato in cui un’impresa si troverà ad operare. Definendo il mercato come il luogo metaforico dove avviene lo scambio di domanda (pubblico) e offerta (produttore), il cui incontro fa nascere il prezzo di un bene, è possibile individuare tre strutture di mercato, che si differenzieranno per le diverse “capacità di controllare il mercato” attribuibile a ciascuna impresa e per le capacità delle aziende operanti in quel mercato di influenzare operazioni economiche (es. fissare i prezzi):

1.       Concorrenza Perfetta: i mercati sono concorrenziali e aperti e il controllo sul mercato di ciascuna impresa è pari a zero. La competizione perfetta esiste laddove ci sono molti venditori di un bene o di un servizio che possono ritenersi omogenei (cioè medesimi) e dove nessuna impresa domina il mercato. In una situazione di questo tipo le forze economiche sono libere di agire. Si presume che ciascuna impresa debba fissare prezzi in linea con il mercato e l’industria è caratterizzata dalla massima libertà di ingresso e di uscita. Nella situazione di concorrenza perfetta non esistono barriere all’entrata, non ci sono cioè ostacoli che impediscano l’ingresso di nuovi rivali sul mercato. E’ molto raro trovare un esempio di concorrenza perfetta nel mondo reale.
2.       Concorrenza Imperfetta: i venditori di prodotti omogenei presenti sul mercato sono “pochi”, ma tra di essi si instaura comunque un fenomeno di concorrenza. Con “pochi” venditori si intende che il numero delle imprese presenti sul mercato viene misurato attraverso un “indice di concentrazione” che misura, relativamente alle prime 4 o 5 aziende del settore, la loro quota di produzione, o il numero degli occupati o ancora il fatturato complessivo. La concorrenza imperfetta è dunque sinonimo di oligopolio in cui le imprese che operano sul mercato, hanno un maggior grado di controllo di quanto non accada in una situazione di competizione monopolistica. La situazione di concorrenza imperfetta può venirsi a creare laddove il mercato non preveda interventi o regolamenti governativi che lo controllino e che cioè impediscano alle imprese di conseguire il livello dimensionale in cui ottengano la massima efficienza. In assenza di tali interventi, le imprese attive in un certo settore industriale possono creare barriere artificiali all’ingresso, con la conseguenza che il settore sarà dominato da un piccolo gruppo di grandi imprese capaci di tenere fuori i possibili concorrenti. Il mercato dei media è di tipo oligopolistico.
3.       Monopolio: una sola impresa ha il controllo su tutto il mercato. Esiste un solo venditore capace di produrre un bene differenziato e la concorrenza è inesistente. In questo caso le imprese hanno un certo controllo sui prezzi che praticano.

Il modello americano

L’industria Usa è composta da due gruppi di imprese:
·         le Majors: Paramount Pictures, Universal, 20th Century Fox, Warner Bros., Disney, MGM, Sony/Columbia Pictures. Sono grandi aziende di distribuzione verticalmente integrate. I film prodotti e distribuiti da queste sette imprese dominano i mercati internazionali del cinema in tutto il mondo. Uno dei fattori più importanti a favore delle Major di Hollywood è la loro dimensione, sia in rapporto alla domanda (la grandezza del mercato americano che può assorbire i loro prodotti) sia in rapporto all’offerta (la grandezza dell’attività produttiva in cui ognuna di loro è impiegata).
I grandi studios, tutti insieme, arrivano a produrre non più di 140 film l’anno, ma si tratta dei 140 film che tendono a occupare le posizioni di vertice nel mercato cinematografico internazionale;
·         le Minors: produttori indipendenti, il cui ruolo nel mercato internazionale della cinematografia è meno rilevante a dispetto di quello delle Major. I produttori indipendenti includono tutti i produttori cinematografici del mondo, che sviluppano, finanziano e distribuiscono i film in maniera indipendente dalle Major. In qualche caso questa indipendenza non è proprio assoluta, nel senso che un gruppetto tra gli indipendenti di maggior successo è oggi spalleggiato da alcune Major di Hollywood. Per esempio la New Line Cinema (produttore indipendente) è di proprietà della Time Warner Inc. (conglomerata Major), oppure la Miramax è di Disney. A parte questi casi nel mondo c’è una grande quantità di case di produzione cinematografica effettivamente indipendenti. Negli U.S.A. I produttori indipendenti producono, ogni anno, un numero di film anche tre volte superiore a quello degli studios hollywoodiani. Tuttavia meno della metà dei film prodotti dal settore indipendente viene effettivamente distribuito nelle sale.
La principale differenza fra i grandi studios e le Minors sta nel fatto che le prime sono integrate verticalmente, controllando sia la produzione che la distribuzione dei prodotti cinematografici, intendendo con distribuzione non soltanto l’individuazione delle sale in cui proiettare il film ma anche il coordinamento di attività pubblicitarie e di marketing per stimolare un interesse verso il film stesso. Avendo la distribuzione assicurata, le major sono in grado di investire risorse significative sia nella produzione che nel marketing (Print & Advertising, cioè Copie e Pubblicità), in modo da costruire un alto livello di attenzione del prodotto verso il pubblico. Cioè, controllando la  distribuzione le majors si assicurano l’arrivo nelle sale dei film prodotti, garantendosi un incasso sicuro. Inoltre una quota dei profitti ottenuti viene reinvestita in nuove produzioni, in modo da tenere in vita un circolo virtuoso.
I produttori indipendenti non hanno questo tipo di controllo sulla distribuzione. Per questo i loro film corrono il rischio di non raggiungere le sale. Un modello così strutturato con il controllo dei canali distributivi, da parte delle majors, associato a un reinvestimento di una parte dei profitti, consente ai grandi studios di avere molte entrate derivanti dalla produzione di unico film di successo (blockbuster) e di coprire con gli incassi dello stesso, tutte le perdite derivanti dalla produzione di film che non hanno lo stessa fortuna.

Struttura verticale e riduzione del rischio

L’obiettivo principale che qualsiasi impresa cinematografica si è sempre posto di raggiungere, in qualsiasi periodo storico, è quello di ridurre i rischi derivanti da un mercato altamente imprevedibile e caratterizzato da investimenti particolarmente costosi. A tal proposito basti pensare che il costo medio di un film supera i 50 milioni di dollari, cui vanno aggiunti i costi di marketing del Print & Advertising (copie e pubblicità). I pesanti investimenti da effettuare aumentano così i tassi di rischio delle imprese, che in qualche misura cercano di cautelarsi per non chiudere il bilancio annuale in perdita. Le possibilità infatti che un film non possa avere il successo desiderato sono molto elevate. E se un film fa flop al botteghino o, peggio ancora, non arriva neppure nelle sale, tutti i costi di produzione si certificano in passivi da ripianare. Bisogna poi aggiungere che anche quando un film va bene, esso produrrà guadagni solo quando arriverà nelle sale, cioè due o tre anni dopo la sua produzione, momento nel quale l’investitore impiega i suoi capitali.
Tutti questi fattori spiegano perché l’industria cinematografica presenti alti rischi d’investimento che hanno spinto le più grandi aziende operanti nel settore a cautelarsi attraverso strategie di controllo della filiera. Così, sin dal 1908, anno di costruzione del cartello, tutte le majors americane hanno cercato di governare le diverse fasi di attività della filiera: produzione, distribuzione ed esercizio, attraverso un processo definito di integrazione verticale.
Una sentenza della corte suprema, nel 1948, dichiarò però illegale l’integrazione verticale di qualsiasi impresa cinematografica sul suolo americano, perché limitatrice della libera concorrenza sul mercato. Tuttavia l’integrazione verticale vietata dal provvedimento ha valenza solo a livello nazionale. Questo significa che le majors possono ancora oggi integrarsi verticalmente nel settore cinematografico in molti mercati esteri. In Gran Bretagna, per esempio, sono numerose le multisale cinematografiche gestite dalle Major. E, in questo senso, anche l’Italia non fa eccezione, consentendo cioè alle Major di essere proprietarie di esercizi cinematografici (es. Warner Village), garantendo a queste grandi imprese una integrazione verticale sul mercato cinematografico nazionale. Ciò vuol dire che in questi stati esteri, non soltanto la maggior parte dei ricavi da botteghino spettano a distributori e produttori hollywoodiani, ma anche la quota dell’esercizio finisce frequentemente nelle tasche U.S.A., invece che in quelli degli operatori nazionali.
L’integrazione verticale, inoltre, garantisce all’impresa un guadagno netto nelle entrate dal momento che non ci sono distributori terzi o agenti intermediari che sottraggono una quota dei rientri dall’investimento originale.
Nella ripartizione dei profitti si segue il seguente iter:
·         il primo a coprire i suoi costi è l’esercizio che ha proiettato il film. Il proprietario della sala trattiene direttamente una quota degli incassi lordi al botteghino per coprire i costi di gestione. Detratte queste spese ciò che rimane viene diviso fra distributore ed esercente, in un rapporto generalmente 90/10 a vantaggio del distributore;
·         il lordo restante torna al distributore che provvede a detrarre le sue commissioni e i suoi costi, compresi quelli promozionali e pubblicitari;
·         quel che rimane dopo questa fase finisce nelle tasche di chi ha investito nel film, o di chi ha sostenuto i costi di produzione (i finanziatori);
·         infine i profitti restanti vanno al produttore e, nel caso, allo studio di produzione.
La posizione del produttore potrà essere ancora più arretrata laddove qualcuno dei personaggi chiave per la produzione del film (es. un attore che riceve un compenso a percentuale sulla base degli incassi del film) imponga che una quota dei suoi compensi gli sia riconosciuta sotto forma di partecipazione di ricavi lordi.

Parte 3 (King., pag. 74-82) La nuova Hollywood


Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster

La sentenza Paramount del 1948 pose fine all’integrazione verticale delle Majors americane, al fine di favorire una libera concorrenza all’interno del mercato cinematografico (fine della old Hollywood) . Eppure è palese, a distanza di anni, come quella sentenza non abbia scalfito la leadership economica di queste grandi imprese. Come mai?
E’ vero che le major furono costrette a vendere le loro sale cinematografiche negli anni ’50, separando le fasi di produzione e distribuzione da quella dell’esercizio, ma sottraendo il controllo degli esercizi si lasciò la distribuzione nelle loro mani. Di conseguenza la distribuzione era diventata, e lo è tutt’oggi, la principale fonte strategica di controllo dell’industria. Rinunciando all’esercizio, i grandi studios si liberarono dei loro notevoli costi fissi. Erano cioè in grado di controllare l’industria cinematografica attraverso la distribuzione, senza dover incorrere in tali spese.
La domanda allora diventa: perché furono frammentate la produzione e l’esercizio ma non la distribuzione?
La risposta risiede nel fatto che Hollywood possedeva il mercato cinematografico mondiale. E mentre il governo statunitense si mostrò avverso al dominio economico delle Major sul mercato nazionale, ben diversa era la posizione assunta dallo stesso (dal governo) nei riguardi di queste grandi imprese a stelle e strisce nei mercati esteri. Cioè, per il governo, le Major non potevano costituire barriere economiche a livello nazionale, ma a livello globale erano libere d’agire. Non a caso una legge del 1918 che consentiva agli studios di agire in collusione all’estero, non fu abolita neanche dopo la sentenza Paramount. Non mancarono di fatti, in questo senso delle collaborazioni in terra straniera, come quelle che intercorsero tra la Paramount e la Universal che, nel 1977, formarono la Cinema International Corporation, poi divenuta UIP, o come quelle tra la MGM e la United Artist, la Warner e la Fox, la Sony e la Columbia, che finirono per creare associazioni in partecipazione in Europa e nell’America Latina.
La collusione tra le major ha reso la concorrenza difficile per chiunque volesse inserirsi sul mercato, poiché nessun investitore avrebbe potuto operare su una scala tanto vasta e affrontare un mercato già monopolizzato.
Il mercato estero divenne sempre più importante per Hollywood al punto che, durante gli anni 50 e 60, le grandi imprese cinematografiche americane ricavarono da esso (dal mercato estero) circa il 50% degli incassi. E nel tempo le Major puntarono sempre di più su tale mercato, soprattutto quando si è trattato di realizzare blockbuster d’azione o legati alla fama di una star.
Il successo sul mercato estero si basa su un ristretto numero di film che riscuotono grande popolarità, molto di più oltreoceano che negli Stati Uniti, dove il numero di film in uscita è maggiore.
Con la New Hollywood le imprese cinematografiche americane sono dunque rimaste protagoniste del sistema, controllando la distribuzione, i cui profitti danno loro la possibilità di continuare a occupare un ruolo strategico dominante al livello della produzione. I profitti stabili della distribuzione sono i fondi cui gli studios attingono per finanziare la produzione dei costosi blockbuster. Il finanziamento, come si evince, non si è frazionato, in quanto sono sempre le major i principali finanziatori dei principali prodotti cinematografici. Gli studios sono impegnati in vari tipi di finanziamento.
Alcuni film sono finanziati, prodotti e distribuiti interamente all’interno di una singola società sotto i propri marchi di produzione integrata. Altri film sono girati altrove, ma finanziati e distribuiti dalle major.
Molti film sono realizzati da società di produzione indipendenti, legate a particolari studios con diversi accordi: finanziamenti per le spese promozionali, oppure utilizzo delle attrezzature cinematografiche degli studios in cambio del diritto di prelazione sul film da concedere allo studio stesso.
Talvolta le major si suddividono i costi, soprattutto quando si tratta di progetti particolarmente dispendiosi, come Titanic, cofinanziato dalla 20th Century Fox e dalla Paramount. In questo caso, di solito, gli studios si spartiscono i diritti di distribuzione: uno prende il mercato nazionale, l’altro quello estero.
Negli anni ’80 gli studios entrarono in società con solide compagnie indipendenti come Carolco (TriStar), Castle Rock (Columbia) e Morgan’s Creek (Warner). Questi accordi consentirono alle major una partecipazione ai film blockbuster senza rischiare enormi investimenti di tasca propria. Le Major poi, possono usare il loro controllo sull’accesso a prodotti appetibili per chiedere condizioni di favore. La Sony ad esempio richiese inizialmente l’80% degli incassi lordi per il film Godzilla nelle settimane di lancio, suscitando l’indignazione degli esercenti.
Generalmente sono gli esercenti ad essere spremuti, i quali sono costretti ad accettare richieste di pagamenti anticipati o con un minimo garantito e devono assicurare la proiezione di un film per almeno un tot di tempo.
Come distributori, gli studios guadagnano sostanziosi proventi senza correre grossi rischi. Le loro tariffe e spese sono di solito tra le prime voci da saldare con gli incassi ai botteghini. Le major inoltre usano il loro potere per riservare le migliori date ai film su cui hanno investito di più. Questo è un altro aspetto del loro persistente controllo dell’industria. I blockbuster più costosi vengono infatti generalmente proiettati nei periodi di alta stagione, Natale e Pasqua. Date in cui garantiscono importanti rientri economici. Gli esercenti, continuando a dipendere dalle major per i film che assicurano guadagni, possono opporre solo una resistenza limitata alle loro richieste.

Parte 4 (Cap. 3, libro, Perretti – Negro) Il prodotto cinematografico


L’economia del settore cinematografico è legata sia alle proprietà dei beni culturali sia a quelle dei prodotti di intrattenimento.

L’economia dei beni culturali

L’economia della cultura comprende delle tipologie di beni: a) artistici, cioè quei beni appartenenti sia alle arti visive (come la pittura o la scultura) sia a quelle rappresentate (come un concerto, una danza, uno spettacolo teatrale), in cui il prodotto dell’artista è un’opera unica;
b) i prodotti dell’industria culturale, cioè quelle opere, per esempio i libri, riproducibili e concepite per essere riprodotte.
In entrambi i casi si tratta di beni realizzati da artisti, ma mentre nella prima categoria la riproduzione non esiste o, se esiste, richiede l’intervento diretto dell’artista, e non produce copie di un originale bensì nuovi originali (per esempio le repliche nel caso dei concerti, dell’opera, o degli spettacoli teatrali), nella seconda categoria la produzione si fonda sulla riproduzione di copie perfettamente uguali all’originale e l’intervento dell’artista è limitato alla realizzazione di quest’ultimo.
Il prodotto cinematografico presenta caratteristiche comuni ad entrambe le tipologie. Si tratta infatti di un prodotto il cui output sul mercato primario (rappresentato dalle sale cinematografiche) è misurabile sia attraverso parametri che contraddistinguono le arti rappresentate (come il numero dei biglietti venduti, posti a sedere occupati ecc.), sia i prodotti riproducibili in copie dell’industria culturale (il negativo della pellicola).
Nel caso del mercato delle sale cinematografiche le copie rappresentano i fattori di produzione necessari per vendere i biglietti d’ingresso nelle sale. Nel caso dei mercati secondari (es. l’home video) le copie rappresentano i prodotti finali acquistati dai consumatori.
In generale è possibile dire che il prodotto cinematografico rispetti più le caratteristiche dei prodotti riproducibili dell’industria culturali che non quelle dei beni artistici, tuttavia  alla pari di questi ultimi (bene artistico) un prodotto cinematografico condivide alcune proprietà, quali:
a) il concetto di spettacolo e la non flessibilità dei prezzi. Il prodotto cinematografico è, cioè strutturato per favorirne un consumo collettivo, dietro il pagamento di un biglietto d’ingresso il cui prezzo non varia in funzione del tipo di spettacolo offerto, ma cambia in funzione del periodo in cui avviene la rappresentazione (matinèe, pomeriggio o sera), del tipo di spettatori (studenti, militari ecc.) o tutt’al più sulla posizione dei posti a sedere (platea, galleria ecc.).
Poiché l’offerta d’ingressi è fissa e la domanda non ha alcun effetto sui prezzi, il successo dello spettacolo si riflette sulla sua permanenza nella sala, ma non sul prezzo del biglietto. Ecco perché si parla di non flessibilità dei prezzi, in quanto, cioè, il prezzo non ha alcuna funzione segnaletica circa la qualità del prodotto nei confronti del consumatore. A tal proposito è opportuno distinguere tra differenziazione verticale e differenziazione orizzontale. La prima (differenziazione verticale) fa riferimento alla qualità che un prodotto lascia percepire di se dai potenziali consumatori. Queste qualità possono legarsi al costo di un biglietto per esempio (più è alto il prezzo del biglietto e più si presume che lo spettacolo sia di qualità). La seconda invece (differenziazione orizzontale) risiede nelle differenze di gusto, cioè in quelle che sono le preferenze di genere, a priori, dei singoli consumatori.
b) rilevanza degli elementi segnaletici. La domanda del prodotto cinematografico è influenzata da elementi segnaletici diversi dai prezzi che sono:
1) riconducibili alla domanda stessa dal comportamento assunto dai consumatori, cioè i consumatori dei prodotti cinematografici generano comportamenti imitativi attraverso contagi informativi (ad esempio attraverso il passaparola si possono influenzare più persone ad assumere un certo tipo di aspettative sul film ed indirizzarle verso la visione in sala dello stesso o meno) e sono influenzati dai benefici sociali legati alla condivisione dell’esperienza di consumo (si consumano prodotti creativi perché questi rappresentano un mezzo di condivisione di esperienze con gli altri). Il processo attraverso cui le informazioni influenzano le decisioni di acquisto dei consumatori può essere spiegato facendo ricorso a due concetti: “code di consumo” (o “effetto traino” secondo il quale la visibilità del consumo di un bene tende ad aumentare la domanda per il bene stesso da parte di altri individui) e “cascate informative” (sequenze di decisioni in cui risulta ottimale per un agente ignorare le proprie preferenze e imitare le scelte degli altri agenti che lo precedono);
2) dalle caratteristiche del prodotto (attori, regista, trama ecc.. La presenza di artisti famosi il cui talento è riconosciuto costituisce un elemento segnaletico in quanto riduce sia il bisogno dei consumatori di reperire informazioni sull’offerta sia il rischio associato ad un consumo incerto) e dalla segnalazione da parte della critica.
c) ripetizione del consumo. Il consumo di un prodotto cinematografico è regolato dalla “legge di decrescenza del piacere” in base alla quale: 1) la grandezza di uno stesso piacere, quando soddisfatto in modo continuo e ininterrotto, decresce fino a sazietà; 2) la ripetizione di un piacere precedentemente soddisfatto ne diminuisce la grandezza iniziale e la sazietà avverrà tanto prima quanto a intervalli più brevi avverrà la ripetizione.
Tale legge trova conferma nel caso del prodotto cinematografico, in cui la ripetizione del consumo avviene o a distanza molto ravvicinata dal primo acquisto, per approfondire alcuni elementi particolari dello spettacolo, o dopo un periodo di tempo piuttosto lungo, per riprodurre il piacere iniziale.
Tuttavia affinché possa esservi un consumo ripetuto sarà necessaria una riduzione del prezzo oppure, laddove la riduzione non sia possibile, un’innovazione del prodotto originario (per esempio le versioni restaurate o arricchite di effetti speciali, in film già visti).

L’evoluzione della struttura nel settore cinematografico

Le caratteristiche del prodotto cinematografico permettono di comprendere le principali determinanti economiche a fondamento del settore della cinematografia. Come visto dalla “legge di decrescenza del piacere” la domanda di consumo dei prodotti cinematografici consente di avere un’utilità ripetuta della pellicola, ma il cui consumo si concentra in intervalli di tempo.
Dal punto di vista del consumo del prodotto nelle sale cinematografiche (della domanda), il film ha un ciclo di vita breve, resiste cioè in media non più di sei settimane. I film sono dunque prodotti soggetti a rapida obsolescenza il cui periodo di vendita è molto breve, la cui domanda è soggetta a variazioni stagionali e il cui picco temporale delle vendite è generalmente prevedibile. Dal punto di vista dell’offerta, i prodotti con ciclo di vita breve impongono un tasso di sostituzione molto elevato. Il prodotto cinematografico assume inoltre le caratteristiche degli investimenti contraddistinti da “effetti di irreversibilità”, in cui cioè le decisioni di investimento riducono la varietà delle scelte che sarebbero state altrimenti possibili in futuro. La “proprietà di irreversibilità” si manifesta nel prodotto cinematografico con riferimento alle caratteristiche del prodotto: poiché la possibilità di replicare la stessa composizione delle squadre artistiche (attore, regista, sceneggiatore ecc.) è molto bassa, produrre un film significa esercitare un diritto di opzione rispetto al futuro impiego. Il prodotto cinematografico infine, è contraddistinto da un grado di incertezza, molto elevato rispetto alle possibilità di successo del film ai botteghini. L’elevato grado di incertezza aumenta l’irreversibilità dell’investimento a esso associato. In alcuni casi i produttori potrebbero scegliere di non proseguire il lavoro iniziato per limitare le perdite. Ciò accade soprattutto quando gli investimenti sono caratterizzati da costi non recuperabili. In particolare, gli investimenti potrebbero essere interrotti in quei progetti sequenziali, cioè progetti che per essere completati debbono essere suddivisi in stadi da completare in sequenza. L’interruzione può verificarsi quando il produttore, ricevuta una certa mole di informazioni indicanti una diminuzione nel valore del prodotto finale rispetto agli investimenti che occorrerebbe operare, decide sospendere il progetto.  Il completamento di ciascuno stadio conferisce invece all’impresa un’opzione per il completamento dello stadio successivo.
Il prodotto cinematografico nonostante sia considerabile un investimento di tipo sequenziale, non condivide con tale struttura (la struttura sequenziale) la fase a opzioni sopra descritta. Non è possibile infatti raccogliere informazioni utili a determinare il valore commerciale del film, se non al completamento e alla distribuzione dello stesso.
L’insieme di queste proprietà trasformano il film in un prodotto ad alto rischio. L’evoluzione economica del settore cinematografico negli U.S.A. viene ricompresa in due periodi:
·         il periodo dominato dal modello di produzione “fordista”, in cui avviene la nascita delle strutture produttive cinematografiche di massa fondate sul metodo degli Studio, sul controllo dello Star system attraverso contratti a lungo termine e sull’integrazione verticale dell’esercizio;
·         il periodo, successivo alla sentenza Paramount del 1948, dominato da un modello di produzione e organizzazione “flessibile”, in cui si assiste alla diffusione dei contratti di impiego nei confronti degli input artistici e tecnici, e alla disintegrazione verticale tra le diverse fasi dell’industria cinematografica.
In entrambi i casi la prospettiva basata sulla riduzione del rischio è in grado di spiegare la configurazione economica e organizzativa di ciascun periodo. Le tre caratteristiche principali del primo periodo (concentrazione della produzione, creazione e controllo dello star system, integrazione verticale) possono essere considerate come il risultato di strategie di contenimento dei rischi.
a) La concentrazione della produzione permetteva infatti, di sfruttare sia la legge dei grandi numeri, sia la diversificazione del portafoglio (cioè la diversificazione dei titoli prodotti), entrambe fondate su un alto numero di film. Produrre un numero elevato di film di uguale genere (legge dei grandi numeri) o tanti film ma di diverso genere (diversificazione del portafoglio) aumenta infatti le probabilità di realizzare almeno un film capace di incontrare il successo del pubblico e di recuperare così gli investimenti totali relativi a tutti i film prodotti.
b) la creazione dello star system, attraverso adeguati investimenti pubblicitari e di comunicazione da parte delle Majors, permetteva di sfruttare il valore segnaletico di alcuni attori nei confronti del pubblico, riducendo il rischio di insuccesso del film.
c) le strategie di integrazione verticale, concretizzatesi nel periodo 1917 – 1923 con l’acquisto degli esercizi da parte delle grandi imprese cinematografiche che già detenevano il possesso della produzione e della distribuzione, garantiva uno sbocco assicurato per il film e un controllo diretto degli incassi. La struttura oligopolistica verticalmente integrata rappresentata dalle Majors e la necessità da parte di ciascuna di queste di saturare la domanda delle sale, attraverso il ricorso alle produzioni delle altre, permettevano un’ulteriore riduzione del rischio. Un film di successo, da chiunque fosse prodotto, consentiva guadagni per tutte le imprese integrate.
In questo senso, anche la creazione di un modello “flessibile” è da ricondurre alla ricerca, da parte delle imprese, di ridurre i propri rischi d’investimento. Evoluzione, quella del modello “flessibile”, che viene innescata da 2 eventi esogeni al settore cinematografico: la sentenza Paramount del 1948 e l’avvento della tv del 1946. In seguito a questi due eventi le imprese cinematografiche si trovano in un ambiente maggiormente rischioso. La risposta delle imprese fu duplice:
a) aumento degli investimenti unitari, attraverso la riduzione dei titoli prodotti (meno film ma più costosi), per realizzare film spettacolari in grado di contrastare l’offerta televisiva.
b) riduzione dei costi di struttura, derivanti dalla concentrazione della produzione. Questa strategia si è tradotta nel passaggio a forme di controllo gerarchico della produzione a forme mediate di mercato, attraverso l’apertura a soggetti indipendenti delle strutture produttive (gli studios, cioè, concedono alle imprese indipendenti l’utilizzo dei propri studi cinematografici a patto di ottenere accordi economici con le società produttrici della pellicola).
Le strategie elaborate dall’industria cinematografica al fine di contenere i rischi si possono pertanto suddividere in:

a)       strategie di riduzione del rischio, che tentano di contenere il rischio individuale associato a ogni singolo film. Le imprese di produzione hanno cercato di perseguire questo obiettivo sia mediante il sistema divistico dello star system (basato sulla fedeltà del pubblico nei confronti di un attore per un film realizzato in precedenza), sia attraverso lo sfruttamento di opere letterarie di grande successo commerciale da cui trarre la sceneggiatura del film, sia realizzando sequel di film che hanno ottenuto notevole successo (es. Rambo, Rocky, Guerre Stellari), sia trasformando alcuni costi da fissi in variabili (es. il compenso destinato ad attori e registi), sia attraverso una consistente pubblicizzazione del prodotto attraverso campagne promozionali, sia internazionalizzando il prodotto vendendolo anche ai mercati esteri e sia, infine, commercializzando prodotti collegati (merchandising) al film;
b)       strategie di ripartizione del rischio, che consiste nel ripartire l’alto rischio derivante dalla produzione di un singolo film, tra più produttori. Piccoli e grandi produttori possono così associarsi per realizzare una pellicola, dividendosi spese e futuri guadagni.
Nonostante il tentativo di contenimento dei rischi, la percentuale di fallimento è sempre elevata.

Parte 5 (Cap. 4, libro, Perretti – Negro) La produzione cinematografica


La filiera del settore cinematografico è l’insieme di attività che dallo sviluppo del prodotto portano alla sua commercializzazione al pubblico, nelle sale o in altri canali di sbocco. Il sistema di offerta del prodotto cinematografico si articola in 3 fasi:
·         produzione, insieme delle attività finalizzate alla realizzazione di un film. Tale fase richiede l’impiego di numerosi fattori di tipo creativo e tecnico, nonché investimenti finanziari elevati. I produttori, intesi come i detentori del diritto di sfruttamento commerciale sul film, negoziano l’acquisizione degli input, coordinano il loro flusso e il loro impiego;
·         distribuzione, attività di duplicazione del film in più copie destinate alla proiezione nelle sale cinematografiche e ai mercati secondari. I distributori gestiscono il flusso fisico delle copie e i flussi finanziari collegati agli incassi, ripartendoli tra i diversi soggetti coinvolti nella realizzazione del film;
·         esercizio, spazio fisico in cui vengono realizzate una serie di proiezioni al pubblico (spettacoli) di una copia del film. Oltre alla proiezione, all’interno di questo spazio debbono essere garantiti un insieme di servizi complementari quali la vendita dei biglietti, vendita di cibi e bevande ecc.. Successivamente il prodotto (film) verrà distribuito in una serie di mercati secondari, come la televisione a pagamento, l’home video ecc..
Il settore cinematografico è definito da una struttura a clessidra, in cui numerose imprese a monte cedono i prodotti che realizzano a un numero di imprese inferiore a valle, impegnate nella loro distribuzione sul mercato. A loro volta le imprese di distribuzione commercializzano i prodotti acquisiti alle più numerose imprese dell’esercizio, cui si rivolgeranno i consumatori finali.
La filiera cinematografica è dunque definita a clessidra poiché esistono tante imprese di produzione, poche imprese di distribuzione (le quali costituiscono forti barriere all’entrata per eventuali competitors) e tanti esercizi.
Dal punto di vista del flusso di beni, il settore cinematografico presenta invece una struttura a imbuto. Vengono cioè prodotti tanti film in fase di produzione, che però vengono scremati e selezionati in fase di distribuzione. Solo i migliori cioè raggiungeranno gli esercizi, risultando così sul mercato (i film) in una quota molto minore di quella prodotta.

La fase di produzione

Produrre, finanziare e distribuire un film richiede la collaborazione di numerosi agenti economici, quali produttori, scrittori, attori, registi e poi distributori ed esercenti.
Realizzare, e poi commercializzare, un film costituisce un’impresa collettiva. Inoltre, svolgere le attività di finanziamento e distribuzione da un lato e di produzione dall’altro, implica sostenere costi elevati con grande anticipo rispetto al momento in cui il prodotto finito (sempre che verrà portato  a termine) raggiungerà il mercato. Il film è infatti un prodotto che presenta una domanda estremamente incerta e che però, al contempo, richiede per la sua realizzazione alti costi d’investimento, la maggior parte dei quali devono essere sostenuti nelle fasi iniziali del processo di produzione.
Il sistema di produzione cinematografica è basato su progetti singoli e sulla produzione di squadra, attraverso relazioni contrattuali a breve termine. L’organizzazione su progetti singoli è considerata una risposta efficiente all’incertezza presentata dal settore cinematografico.
Negli Stati Uniti sono stati identificati diversi sistemi di organizzazione della produzione cinematografica, ciascuno prevalente in un diverso periodo storico dell’evoluzione del settore:
1.       il sistema fondato sul regista (director system), impiegato tra il 1907 e il 1909, cioè nella fase in cui il prodotto cinematografico ha adottato una struttura narrativa e adattato i modi di produzione delle arti rappresentate, in particolare del teatro. Il sistema del regista si basa sulla distinzione tra il ruolo creativo che precede le riprese e l’esecuzione (quindi sulla specializzazione dei ruoli), ma anche sulla funzione del regista come coordinatore delle attività di diversi input creativi e tecnici (quindi sulla creazione di una gerarchia manageriale) e sulla centralizzazione del lavoro di produzione all’interno degli studi;
2.       il sistema del regista a capo di un’unita (unit director system), sviluppato a partire dal 1909 con l’aumento dei volumi di produzione e che corrisponde a un sostanziale mantenimento del sistema precedente con livelli maggiori di specializzazione e gerarchia, introducendo però al contempo alcune innovazioni importanti, quali la creazione di unità tecniche permanenti all’interno degli studi che facevano capo a uno specifico regista e l’utilizzo della sceneggiatura come piano di produzione che sostituiva la logica sequenziale delle riprese;
3.       il sistema del produttore centrale (central producer system), consolidatosi intorno al 1914 e che corrisponde all’introduzione del lungometraggio come formato standard di produzione. Il lungometraggio costituiva un prodotto più complesso da realizzare e ciò ha determinato la divisione delle funzioni di coordinamento del regista e del produttore: il produttore diventa il manager delle fasi a monte e a valle della produzione, mentre il regista mantiene il controllo della fase di lavorazione, ma non è più a capo dell’unità produttiva. Il produttore diventa manager e agente dell’impresa selezionando gli input creativi e tecnici, mentre il regista rimane responsabile di un certo numero di film ma non del budget e dell’assemblaggio dei progetti. In questo momento si perfeziona anche la sceneggiatura come documento scritto che razionalizza l’intero processo di realizzazione del film;
4.       il sistema del produttore a capo dell’unità (producer unit system) avvenuto agli inizi degli anni ’30, presenta un unico produttore come coordinatore dell’intera produzione. Le grandi imprese adottarono quindi una variazione del sistema basato su più unità, sostituendo il produttore al regista come coordinatore di ciascuna unità (il produttore diventa responsabile di produrre 6-8 film l’anno), mantenendo elevati livelli di specializzazione e varietà. Questo cambiamento non può però essere considerato un vero e proprio decentramento, in quanto le strutture produttive e le decisioni manageriali più importanti, come l’acquisizione dei soggetti, la scelta della sceneggiatura, rimasero centralizzate e non delegate ai produttori;
5.       il sistema del pacchetto unità (package unit sistem) si è sviluppato nei primi anni ’40 e consolidato nel decennio successivo, in seguito alla sentenza Paramount e all’avvento della televisione, fenomeni esogeni che hanno reso più concorrenziale il mercato e reso meno sostenibile la concentrazione della produzione cinematografica. E’ attualmente la forma più diffusa per organizzare la realizzazione del prodotto cinematografico e consiste in una riorganizzazione della produzione cinematografica intorno a progetti individuali e a relazioni a breve termine. Al posto dell’impresa individuale che controlla direttamente gli input, l’intero settore è diventato una riserva di risorse per la produzione, e l’organizzazione dei prodotti cinematografici è delegata a produttori esterni. I produttori assicurano quindi le fonti di finanziamento, gli input produttivi e i mezzi di produzione. Questa soluzione riduce i costi fissi di struttura e consente di avere maggior flessibilità, mantenendo elevati i livelli di specializzazione delle funzioni.

Ora è necessario fornire un quadro semplificato del complesso insieme di attività e processi associati alla produzione cinematografica. Nella fase di produzione cinematografica, avviata dal produttore che è il soggetto economico responsabile della realizzazione e del completamento del film, si possono individuare 4 sotto-fasi principali:
·         lo sviluppo, in cui viene acquisito il soggetto letterario alla base del film ed elaborata una sceneggiatura sufficientemente dettagliata che consenta alla società di produzione e ai finanziatori di stimare i costi di produzione del film. Occorre infatti ricordare che la stragrande maggioranza dei film si basa su un’opera letteraria, dal romanzo all’opera teatrale ecc.. Condizione necessaria per lo sviluppo è l’acquisizione, da parte del produttore, dei diritti di sfruttamento economico della proprietà. Il produttore potrà acquisire dall’autore dell’opera letteraria tutti o parte dei diritti patrimoniali ad essa riconducibili, di cui i principali, nell’ambito dell’industria cinematografica, sono: il diritto di programmare il film nelle sale cinematografiche a fronte del pagamento di un biglietto; diritto di trasmettere il film su tutti i tipi di televisione, comprendendo sia la trasmissione dal vivo che quella registrata, sia su canali nazionali che su quelli a pagamento; il diritto di distribuzione del film attraverso canali home video; il diritto alla produzione e alla distribuzione di una colonna sonora tratta dal film e alla pubblicazione della musica del film; il diritto di produrre o distribuire articoli di consumo, come vestiario, giocattoli, articoli da regalo, che portino il nome dei personaggi del film (merchandising); il diritto di adattare e presentare la proprietà letteraria e/o film come rappresentazione teatrale. Spesso i produttori preferiscono acquistare un’opzione, ovvero il diritto esclusivo sull’utilizzo dell’opera limitato per un certo periodo di tempo. Alcune delle variabili che includono la durata di un’opzione includono: la reputazione dell’autore, il numero delle copie vendute e la possibilità che l’autore sviluppi la sceneggiatura cinematografica. La negoziazione dell’opzione utilizza in alcuni casi la figura dell’agente letterario.
La realizzazione della sceneggiatura segue un processo diviso in fasi:
a) la prima è quella del “trattamento”, consistente in un resoconto narrativo della trama, una descrizione dei caratteri principali e dell’ambientazione;
b) la fase successiva è quella della composizione delle bozze della sceneggiatura, che comprende i dialoghi complete, le schede dei personaggi, le scene;
c) la terza fase è quella di “riscrittura” della sceneggiatura, basata sulle modifiche imposte dal produttore;
d) la quarta fase è quella della “pulitura”, che consiste nella rifinitura e nella presentazione della versione finale della sceneggiatura. La divisione in fasi della stesura della sceneggiatura è legata a problemi contrattuali che possono insorgere tra produttore e sceneggiatore. Un primo problema potrebbe essere legato al tipo di remunerazione assegnata allo sceneggiatore. Un secondo problema è legato alla natura creativa del risultato ed è piuttosto difficile determinare che cosa rappresenti una buona sceneggiatura. Per risolvere simili problemi il processo della sceneggiatura viene diviso in fasi. Lo sceneggiatore viene così pagato per realizzare una prima versione completa. Le eventuali revisioni successive hanno ciascuna un proprio prezzo.
Il risultato del processo di sviluppo è dunque la sceneggiatura che, sotto il profilo economico, ha la funzione di fornire informazioni necessarie, ma non sufficienti, affinché la società di produzione sia in grado di valutare l’opportunità e il costo del film. Una volta entrato nella fase di sviluppo un progetto cinematografico può proseguire nella fase di pre-produzione oppure interrompersi;
·         la pre-produzione, fase in cui la società di produzione seleziona gli input creativi principali, il regista e gli attori protagonisti, prepara un budget e si assicura le fonti di finanziamento.
Tuttavia, riguardo alle fonti di finanziamento, è necessario specificare la fonte presso cui il produttore reperisce i fondi per la realizzazione del film. In particolare sarà necessario distinguere tra, fonti disponibili negli Stati Uniti e fonti disponibili in Europa, perché le differenze che esistono nei due mercati conducono a forme di produzioni diverse.
Negli Stati Uniti la produzione può essere distinta in produzione major e produzione indipendente. La produzione Major si distingue a sua volta in: produzione interna (realizzata direttamente dalle major) e produzione esternalizzata (realizzata da terzi). La produzione indipendente si distingue a sua volta in: produzione finanziata indirettamente dalle Majors (attraverso contratti di distribuzione stipulati prima dalle imprese), e produzione indipendente “pura” (la cui distribuzione avviene al di fuori del circuito delle Majors). La produzione Major presenta garanzie di solvibilità più elevate che consentono un accesso più facile al mercato dei capitali.
La produzione indipendente finanziata indirettamente dalle Majors si situa in una posizione intermedia, poiché se l’impresa di produzione non è in grado di fornire garanzie proprie è almeno in grado di presentare l’accordo con il distributore major come elemento per certificare le possibilità di accesso al mercato. La produzione indipendente “pura” appare come la soluzione più costosa e modesta, poiché la mancanza di accordi di distribuzione aumenta il rischio di perdita per i finanziamenti. In Europa il modello di finanziamento dei film si concentra intorno alla figura del produttore più che a quella dello studio distributore come negli Stati Uniti. In generale, il produttore europeo reperisce, attraverso prestiti, i fondi per finanziare il progetto cinematografico e organizza anche la sua commercializzazione. Ma nel vecchio continente il finanziamento può pervenire anche da sussidi statali, quali esenzione fiscale, istituti di pubblici di credito, oppure da gruppi televisivi. Un’ulteriore fonte sono le coproduzioni, progetti gestiti da produttori di diversa nazionalità che possono combinare il finanziamento attraverso sussidi in più paesi.
In generale quindi, i prodotti cinematografici europei sono finanziati in prevalenza dallo Stato o dalle emittenti televisive e ciò non rende sostenibile il sistema dell’offerta così come configurato nel contesto hollywoodiano.
Le imprese televisive sono infatti prevalentemente interessate alle possibilità di distribuzione del prodotto cinematografico sul mercato televisivo, quindi gli investimenti effettuati saranno correlati più al mercato televisivo che a quello cinematografico. Ed ecco perché le attività di produttori e distributori europei si concentrano quasi esclusivamente sui mercati domestici. Il film non viene finanziato semplicemente quando è disponibile un soggetto (un’idea su cui lavorare), ma deve essere assemblato un insieme di risorse che viene a costruire il pacchetto, cioè una sceneggiatura, il regista e gli attori principali. La presenza degli agenti creativi consente ai produttori un più facile accesso al mercato delle risorse artistiche e contribuisce a ridurre i costi di transazione e di informazione per le parti coinvolte nella produzione. Gli agenti svolgono una funzione di allocazione (distribuzione) delle risorse. L’allocazione si realizza attraverso un processo di selezione gestito proprio dagli agenti che è legato da una parte all’eccesso di offerta che caratterizza la produzione di beni creativi (cioè ci sono molti artisti nel mercato della cinematografia e gli agenti li selezionano per le loro qualità e caratteristiche, offrendo in questo modo un vantaggio ai produttori che vogliono realizzare un film ma non sanno chi selezionare per l’assegnazione dei ruoli) e dall’altra al grado elevato di differenziazione orizzontale e verticale sui prodotti (cioè gli agenti raccolgono informazioni molto costose, inerenti al mercato cinematografico, e le trasferiscono da chi ha più bisogno di diffonderle a chi ha più bisogno di riceverle). Gli agenti intervengono dunque per mitigare gli effetti di una situazione di asimmetria informativa, dove in pratica c’è una situazione in cui una o più parti godono di un vantaggio informativo rispetto alle altre. Solitamente chi vende un bene è la parte che possiede informazioni sulle caratteristiche di qualità rispetto ai potenziali acquirenti, mentre i potenziali acquirenti non potrebbero conoscere la qualità del prodotto se non dopo l’acquisto. Nel caso del settore cinematografico la qualità di alcuni input non è nota neppure ai venditori, è il caso degli attori esordienti. Le agenzie creative svolgono quindi una funzione di certificazione e garanzia per questo tipo di input nei confronti delle società di produzione, mentre nel caso di artisti con qualche esperienza, specie se di successo, questa funzione sembra essere meno rilevante. L’artista di successo infatti non ha bisogno di certificare la propria qualità nei confronti dei produttori perché nonostante questa non sia sufficiente a rendere profittevole un film, rimane la migliore scommessa che i finanziatori possono giocare.
Le agenzie dunque non negoziano semplicemente i termini contrattuali della componente creativa con la produzione, ma partecipano attivamente alla realizzazione del progetto (il film). Il ruolo degli agenti è cresciuto nel processo che ha portato alla transizione verso un sistema flessibile, cioè a partire dagli anni Sessanta ad oggi, dove la produzione cinematografica è caratterizzata dalla presenza di sistemi temporanei (le produzioni lavorano sul singolo film e non instaurano più con le star un rapporto contrattuale di lungo periodo).
In assenza di un’organizzazione permanente l’agente ha la responsabilità di costruire la carriera del suo cliente.
In cambio dei servizi forniti l’agente solitamente chiede una percentuale fissa compresa tra il 10% e il 15% su tutti i tipi di compenso che il produttore riceve. Per ciò che concerne il compenso ricevuto dagli artisti (attori, regista, sceneggiatori, ecc.) invece, essi presentano livelli salariali minimi regolati da accordi sindacali, cui vanno aggiunti compensi variabili quali: rimborsi per le spese di trasporto e alloggio, e, laddove previste, royalty sui ricavi provenienti dalla vendita di merchandising, pagamenti addizionali riguardanti la distribuzione del film attraverso mercati secondari (pagamento per i diritti residuali), accrediti sui titoli di testa e/o di coda. I pagamenti odierni, comprendenti sia compensi fissi che variabili, sono diversi da quelli dei tempi dello Studio System, in cui i contratti stipulati includevano esclusivamente componenti fisse. Il fatto che i contratti con componente variabile si siano diffusi ampiamente a partire dalla fine degli anni ’40, è stato messo in relazione ai cambiamenti economici che il settore statunitense ha attraversato, quali: a) la ristrutturazione degli studio e la riduzione della domanda di film nelle sale, che ridusse il volume complessivo dei film prodotti, generando così un eccesso di offerta (troppi attori) e una rivalutazione delle proprietà immobiliari occupate dagli studio; b) la trasformazione del settore, da sistema legato alla figura del produttore centrale a sistema composto da forme di organizzazione più flessibili, che hanno contribuito anche a ridefinire i ruoli creativi e non e il loro grado di specializzazione. L’aggiunta dei compensi variabili si è resa necessaria, non tanto per migliorare le performance artistiche degli addetti ai lavori stimolandoli con un compenso maggiore, quanto piuttosto per consentire ai produttori e ai finanziatori del progetto di ripartire i rischi derivanti dalla realizzazione del prodotto e, non di rado, da un suo potenziale fallimento. Riducendo i costi fissi e aumentando quelli variabili, strettamente interconnessi ai risultati raggiunti dal film, i produttori e i finanziatori riducono i loro rischi d’investimento, riducendo i costi di produzione della pellicola. D’altro canto, poiché le componenti artistiche dovranno sostenere una componente di rischio maggiore, derivante dall’aumento del compenso dei costi variabili, potranno pretendere percentuali di introito maggiori su tale tipo di compensi.
E dunque, nei casi in cui non è possibile integrarsi verticalmente, riducendo in tal modo i rischi attraverso un controllo pressoché totale del mercato, produttori ed attori adotteranno la soluzione dei contratti composti dalla duplice componente compensi fissi e compensi variabili, in quanto è la soluzione migliore per governare un mercato altamente incerto;
·         la produzione, fase in cui vengono effettuate le riprese, cioè quando viene registrata l’azione su pellicola. Questa attività è quella che coinvolge il maggior numero di persone ed è in generale la fase più costosa. Durante questa fase si pone il problema dell’insostituibilità degli input (per esempio attori o regista non possono più essere cambiati).
Il processo di produzione è specializzato e interdipendente. I vari specialisti (attori, cameramen, tecnici delle luci) non possono lavorare simultaneamente nella preparazione delle scene, ma lavorano sequenzialmente. La sequenza delle attività risulta organizzata in maniera elaborata. Tutti gli input devono essere disponibili nel momento in cui viene richiesta la loro partecipazione, ma in processi complessi il loro coordinamento non è affatto semplice;
·         la post-produzione, varie attività nelle quali la pellicola viene rilavorata. In particolare si realizzano gli effetti speciali, si eseguono il montaggio, il missaggio della colonna sonora e si realizza la copia originale del film. Nella post-produzione vengono prima montate le immagini e il dialogo, e se necessario alcune battute vengono doppiate dagli stessi attori, poi vengono aggiunti effetti sonori e tutte le tracce audio vengono mixate in modo da ricercare una soluzione di equilibrio. Il processo può richiedere da un mese fino a un anno. Sempre in questa fase vengono realizzati gli effetti speciali, suddividibili in ottici (effetti tradizionali come le dissolvenze e le sovra imposizioni), digitali (manipolazioni delle immagini attraverso il computer), speciali (creano e riprendono immagini originali come sfondi, miniature, animazioni). Il direttore del montaggio è a capo del team di post-produzione e collabora a stretto contatto con il regista. Anche la fase di post-produzione può rappresentare un terreno di confronto tra obiettivi creativi e artistici e obiettivi economici. In generale, la fase di montaggio viene realizzata in una duplice versione: first cut (o editor’s cut) sulla quale il regista può richiedere di apportare modifiche; final cut, la versione finale da destinare alla distribuzione cui l’ultima parola spetta al produttore, che può cambiare, anche sostanzialmente, la composizione definita dal regista. In generale però il distributore acquisisce oltre ai materiali, anche il diritto di tagliare e rimontare la pellicola. Nella fase di post-produzione si realizza la copia originale del film (master) destinata alla riproduzione per la distribuzione commerciale.

Parte 6 (Ciccarone, Usai ) Il mercato del cinema in Italia


L’ottica macroeconomica considera due aspetti che impattano sulle dinamiche del settore: la natura del prodotto e gli assetti di mercato. Il primo punto ha a che fare con l’opportunità di un eventuale sostegno pubblico al settore; il secondo con le dinamiche istituzionali e concorrenziali del mercato.

Il sostegno pubblico al cinema: bene meritorio o capacità commerciale?

Un’importante fonte di finanziamento dell’industria cinematografica è rappresentata dal sostegno pubblico. Il principale scopo dell’intervento pubblico italiano in questo settore è sempre stato quello di tutelare e promuovere la cinematografia culturale nazionale, prevedendo forme di sostegno in tutte le fasi cui si suddivide l’attività produttiva considerata. Ma perché lo Stato dovrebbe dare all’attività cinematografica questa tutela?
Gli interventi statali sono consentiti solo in presenza di “fallimenti del mercato”, ossia quando l’operare dei mercati privati non garantisce l’efficienza distributiva o quando si intende tutelare il consumo di alcuni beni, detti “beni meritori”, indipendentemente dalle preferenze individuali o quando, infine, mira a contenere fenomeni di “crisi”, che potrebbero generare eccessiva disoccupazione, tensioni sociali ecc.. Il sostegno pubblico all’industria cinematografica ha trovato nell’ultima motivazione (fenomeno di “crisi”) la logica del suo intervento, anche se la riorganizzazione del settore è stata alle volte sorretta da una presunta eccezione culturale del settore stesso rispetto ad altri.
La cosiddetta “legge cinema” l. n.1213 del 1965, che ordinò il settore cinematografico, afferma all’art. 1 che “lo Stato considera il cinema mezzo di espressione artistica, di formazione culturale di comunicazione sociale e ne riconosce l’importanza economica e industriale” e che “le attività di produzione e di distribuzione e di programmazione di film sono ritenute di rilevante interesse generale”. Dopo quarant’anni, le stesse motivazioni sono alla base della cosiddetta “legge Urbani” l. n. 128 del 2004, la quale all’art.1 riconosce nel cinema un fondamentale mezzo di espressione artistica, di formazione culturale e di comunicazione sociale e che per questi motivi la Repubblica Italiana incoraggia le iniziative volte a valorizzare e a diffondere con qualsiasi mezzo il cinema nazionale, con particolare riguardo ai film d’interesse culturale. Requisito dunque fondamentale per ricevere sussidi statali nella produzione e realizzazione dei lungometraggi (con rimborsi pari al massimo al 90% dei costi sostenuti) e dunque per accedere al “fondo di garanzia” dello Stato sui mutui contratti, è la qualifica d’interesse culturale nazionale. Qualifica accordata dalla Commissione consultiva per il cinema. E’ poi necessario che il film sia di nazionalità italiana, nel senso che debbono essere imprese nazionali a produrre il film. La motivazione che induce il settore pubblico a tutelare l’attività cinematografica deve essere individuata nella sua utilità sociale (l’interesse pubblico). Questa motivazione giustifica il convincimento che una gestione interamente privata non garantirebbe una soddisfacente valenza culturale, perché il produttore privato è orientato a produrre film che garantiscano il maggior profitto possibile e dunque non film culturali. Poiché impopolari, conseguentemente i film culturali rischierebbero di uscire all’offerta di mercato, dato appunto che nessun produttore li realizzerebbe.
Secondo la teoria economica, l’intervento statale sarebbe dunque spiegabile perché riconoscerebbe al prodotto un valore di “bene meritorio”, ossia un bene o un servizio che il soggetto pubblico ritiene di dover tutelare indipendentemente dalle preferenze rivelate dai cittadini attraverso il loro comportamento d’acquisto.
Il soggetto pubblico ritiene pertanto di dover intervenire nel settore per tutelare ciò che le preferenze degli spettatori trascurano per irrazionalità, per mancanza di informazioni (ossia strumenti culturali) e per tutelare dunque valori culturali che altrimenti rischierebbero di andare perduti.
Avendo deciso di tutelare l’attività cinematografica, lo Stato deve stabilire le modalità con le quali fornire i sussidi.
Una prima modalità può essere quella di dividere i costi di produzione tra spettatori (coloro che andranno a visionare il prodotto) e cittadini (coloro che non vedranno il prodotto ma in qualche modo lo finanzieranno), attraverso la fiscalità, cioè il pagamento di imposte. Una seconda può essere quello del prestito, in base al quale lo Stato offre un prestito che l’impresa di produzione si impegna a restituire entro tre anni dalla sua erogazione, altrimenti lo Stato acquisisce la quota dei diritti di utilizzazione e sfruttamento per la parte di finanziamento non ammortizzato. Inoltre se un’impresa di produzione non restituisce per due film consecutivi una somma pari almeno al 30% del finanziamento, non potrà richiedere finanziamenti per  i successivi 3 anni.
Infine la “legge Urbani” distingue un’attività cinematografica sulla base di due parametri: qualità dei film realizzati e stabilità dell’attività dimostrata. Più alti saranno questi parametri maggiori saranno le credenziali per concedere a quell’impresa un prestito.
Con la “legge Urbani” la produzione cinematografica viene, dunque, vista anche come un’attività commerciale che deve essere in grado di far recuperare l’investimento e generare profitto. A parte le opere culturali, il settore pubblico sostiene e finanzia soltanto la cinematografia capace di dimostrare la propria capacità di sviluppare prodotti di gradimento e di successo, anche perché la norma nota come reference system definisce la quota massima di finanziamento assegnabile in relazione alla comprovata capacità artistica degli artisti coinvolti.
Anche i finanziamenti accessori, come i premi di qualità, sono erogati solo se il film viene effettivamente erogato nelle sale cinematografiche.
Tuttavia non mancano le critiche al sostegno pubblico cinematografico. Secondo gli assertori del libero mercato del cinema, la dipendenza dai contributi pubblici comporta sempre scarsa oculatezza e inefficienza gestionale. In questa visione, i costi di produzione dei film aumentano in presenza di contribuzione pubblica perché questa genera comportamenti inefficienti, rendendo più facile l’accoglimento di richieste improprie, come assunzioni non necessarie, retribuzioni eccessive ecc.. Dunque, sostenuti dal finanziamento, le imprese cinematografiche non sarebbero incentivate a contenere i costi perché questi verrebbero comunque coperti dai finanziamenti pubblici, allontanandole (le imprese) dai corretti principi di condotta.

Parte 7 (Fondazione ente dello spettacolo, Rapporto 2008) Il mercato e l’industria del cinema in Italia


Nel panorama della pubblicistica italiana sul cinema è mancata sino ad oggi una sintesi che consentisse una visione organica del settore.
Il Rapporto 2008 su “Il Mercato e lʼIndustria del Cinema in Italia”, realizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo in collaborazione con Cinecittà Luce S.p.A , ha lo scopo primario di colmare questa lacuna, analizzando il mercato cinematografico italiano non soltanto in termini di consumo, dal lato cioè della domanda, di cui si è detto tanto, ma anche per la prima volta dal lato dell’offerta, cioè dal punto di vista di chi il film lo produce.
Tale rapporto è il risultato di una ricerca che esamina tutti i soggetti della filiera, ricostruendo anche attraverso l’analisi dei bilanci societari disponibili, le vere dimensioni economiche della cinematografia del Paese. Una realtà costituita da un tessuto di oltre 9.000 imprese, con un volume d’affari di quasi 5 miliardi di euro e un numero di addetti prossimo a 100.000 unità.
Il rapporto evidenzia anche come l’imprenditoria privata sia il vero fulcro del sistema-cinema, pur alla luce di un crescente aumento di interventi pubblici nel settore. E rivela la notevole frammentazione del mercato del lavoro, con una disponibilità di soggetti, (soprattutto della componente creativa) ampliamente superiore alla domanda e con un diffuso ricorso a prestazioni occasionali.
La stagione 2008 del cinema italiano ha registrato la più alta offerta degli ultimi dieci anni: 123 produzioni nazionali e 31 coproduzioni, per un totale di 154 opere, e una crescita della domanda con 99,4 milioni di presenze e 593,7 milioni di euro di incassi nelle sale.
La cinematografia nazionale sembra dunque aver ritrovato una nuova fase di sviluppo, dopo vari anni altalenanti.

Le imprese

I dati forniti dal database di Cerved Business Information, rivela che molte imprese cinematografiche sono state create in Italia negli ultimi anni: quasi 9.900 imprese registrate e oltre 9.000 quelle attive. Tuttavia a fronte di questi dati positivamente sorprendenti bisogna aggiungere come buona parte di queste imprese non abbia un’attività continuativa. La mancata attività continuativa viene meno soprattutto in quelle società non di capitali, ossia società di persone e ditte individuali, cioè società di piccole dimensioni, nelle quali complessivamente confluisce il 51,5% dell’intera “popolazione societaria” pari a 4.671 imprese.
Dal punto di vista del fatturato delle 4.400 società di capitali che nel complesso operano nel settore, oltre 3.650 hanno un fatturato inferiore a 1 milione di euro e coprono appena il 10,7%  del totale del fatturato realizzato.
Delle 3.064 imprese di produzione, circa il 74,6% (2.590 imprese di produzione) produce appena il 12,4% dei ricavi totali.
Delle 382 imprese di distribuzione circa il 76% (290 imprese di distribuzione) raccoglie appena il 4,7% dei proventi complessivi.
Delle 670 imprese d’esercizio, circa l’80% (540 imprese di esercizio) produce solamente il 17,2% dei ricavi del comparto.
Questo significa che il mercato cinematografico italiano è sostenuto in gran parte da poche aziende di grandi dimensioni.
Il mercato del lavoro
Il cinema non è un’attività ad alta intensità di lavoro, bensì di capitale. Il settore è per sua natura caratterizzato infatti dalla produzione su commessa e quindi risente della vita dei singoli progetti. E’ altresì vero che si tratta di progetti che richiedono alta professionalità e specializzazioni.
A livello di occupazione, l’Enpals sostiene che per le 3.471 aziende registrate, vi sono 76.442 posizioni contributive personali con una media di 22 addetti per azienda. Ma delle 76.442 posizioni contributive, solo 18.700 hanno un contratto a tempo indeterminato, il che riporta la media degli occupati per azienda a 5,3 persone.
La maggior parte dei contribuenti Enpals confluisce nella categoria “artisti e tecnici”, composta da oltre 58.700 soggetti, cioè il 77% degli addetti ai lavori. La seconda categoria, “maestranza e impiegati” annovera invece 17.500 unità, pari al 23%, e operano soprattutto nel comparto della produzione. La categoria “artisti e tecnici” produce il 59% del monte retributivo percepito da tutti gli addetti del settore, pari a 519 milioni di euro. La categoria “maestranza e impiegati invece”, produce il restante 41%, pari a 299 milioni di euro.
Molti degli addetti ai lavori però lavora meno di 12 giorni l’anno, denunciando che l’eccesso di offerta di prestazioni rispetto alla domanda porta con sé anche il fenomeno della turnazione forzata.
La saltuarietà dell’impiego riguarda anche i registi. Basti pensare ad esempio che ben 330 registi hanno girato tra il 1990 e il 1998 un solo film, mentre soltanto 23 ne hanno girato più di sei.
Dal 2005 al 2008 inoltre, un film su due tra quelli italiani è stato diretto da un regista esordiente.

Le risorse finanziarie

Gli investimenti necessari per realizzare i film nazionali sono le prime risorse finanziarie a essere immesse in circuito e rappresentano le fonti primarie del settore, quelle che innescano tutto il ciclo economico della cinematografia.
In Italia negli ultimi nove anni sono stati prodotti 1.076 film. La media è di 120 titoli all’anno ed esprime la capacità di produzione nazionale.
Gli investitori privati generano il 78,5% delle risorse globali messe in campo e pertanto appaiono quali primi artefici della cinematografia italiana.
Nel sovvenzionamento dei film italiani ha comunque il suo ruolo anche il sussidio statale, che si manifesta sotto due forme: il tax credit (credito d’imposta) e il tax shelter (detassazione degli utili).
Un ulteriore afflusso di capitali giunge per mezzo del product placement, tecnica di promozione pubblicitaria di alcuni prodotti di marca, effettuata attraverso l’inquadratura o la citazione di prodotti nel contesto cinematografico. Il product placement consente di coprire dall’8% al 10% dei costi di produzione.
Sul versante pubblico, il primo erogatore di risorse è lo Stato attraverso il ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mi-Bac), con uno specifico capitolo di spesa denominata Fus-Fondo.
Esiste poi una quota di finanziamento provenienti da capitali stranieri, realizzati in regime di coproduzione, ossia in compartecipazione da case di produzione nazionale e operatori esteri.
Tuttavia le risorse che l’imprenditoria nazionale cinematografica ha messo in campo negli ultimi anni, appaiono di entità abbastanza contenuta rispetto a quello degli altri paesi europei e degli Stati Uniti.
Per ciò che concerne gli esercizi, negli ultimi 15 anni la rete della sale di proiezione si è quasi triplicata. Una mutazione che ha portato dal 1994 a oggi alla nascita di 300 nuovi esercizi. La nascita di nuovi esercizi è stata possibile perché tale comparto della filiera ha visto convogliare su di se 3 miliardi di euro negli ultimi 15 anni, esattamente la stessa quota di denaro che l’imprenditoria ha investito nella produzione cinematografica. Gli investimenti che hanno portato allo sviluppo e alla riqualificazione dell’esercizio sono stati sostenuti anche grazie al supporto pubblico, con contributi concessi in conto capitale o in conto interessi.
Finanziamenti pubblici particolari li hanno poi ricevuti quegli esercizi riconosciuti come sale d’essai.

I comparti di attività

I produttori, oltre ad essere i primi investitori, sono anche coloro che danno vita concreta alle idee creative dei soggetti cinematografici. Costituiscono la base della filiera.
Le attività di produzione del mercato cinematografico riguardano:
a)       l’animazione, con almeno 100 imprese di produzione e distribuzione che operano nel segmento del cartoon, per un fatturato di 100 milioni di euro;
b)       documentari, filmati che hanno quali principali committenti i network televisivi satellitari o del digitale terrestre, free e/o a pagamento. Il valore della produzione documentaristica viene stimato in 60 milioni di euro, 20 dei quali relativi alla committenza dei broadcaster nazionali;
c)       cortometraggi, che conta 105 titoli in uscita all’anno e un volume d’affari di circa 2 milioni di euro;
d)       film tv, hanno un valore di produzione di 60 milioni di euro.

Le industrie tecniche ed esecutive del settore cinematografico sono circa 2.000, collocate principalmente tra Roma e Milano.
La distribuzione invece, è il comparto strategico di tutta la filiera. Quello del cinema è infatti un mercato fortemente intermediato e le aziende che producono film non hanno come clienti i consumatori ma altre aziende, che si incaricano di far arrivare i prodotti agli utenti finali.
Il numero delle imprese di distribuzione è molto contenuto, ed è ricoperto prevalentemente da aziende americane di Hollywood.
I canali secondari invece, sono sei: a) home video, quale il dvd, il blu ray ecc.. E’un canale prevalentemente di affitto dei prodotti e nel 2008 ha fatturato 780,5 milioni di euro; b) pay per view, attraverso canali satellitari, via cavo, digitale terrestre ecc., ha prodotto un valore pari a 38,4 milioni di euro; c) televisioni commerciali, i cui ricavi nel 2008 hanno ammontato a 585 milioni di euro; d) rete internet, il cui fatturato si aggira sui 10 milioni di euro; e) reti di telefonia mobile per servizi a pagamento, o in visione gratuita in cambio di pubblicità, sono loghi, wallpaper, suonerie, giochi ecc.. Per il mercato cinematografico hanno fatturato 169 milioni di euro; f) la diffusione sul mercato discografico dei contenuti musicali che fanno parte della colonna sonora del film, ha prodotto un giro d’affari compreso fra 5 e 6 milioni di euro.
L’esercizio, conserva una prerogativa insostituibile nonostante la concorrenza caratterizzata dai canali secondari. Tale comparto è determinante per la raccolta dei primi proventi che la produzione ricava per i suoi investimenti. L’esercizio è inoltre il canale primario di diffusione del prodotto filmico e ha conservato la sua centralità nel mercato della domanda e dell’intero sistema cinema.
Il fatturato del comparto è legato agli accordi di noleggio delle pellicole con i distributori e condizionato da una serie innumerevole di variabili. I proventi netti da incasso per i gestori delle sale, in ogni caso, è stimato nell’ordine di 245 milioni di euro.
Il settore allargato, fa riferimento al cinema come impresa in grado di collegarsi ad attività esterne alla filiera, quali:
a)       pubblicità, il cui gettito ha prodotto complessivamente un ricavo da 58,3 milioni di dollari;
b)       merchandising, relativo ai gadget, prodotti o pubblicazioni strettamente legati ai contenuti del film, il cui fatturato ha raggiunto i 20 milioni di euro;
c)       production service, società che organizzano produzioni di film, video e documenti, realizzati principalmente grazie a partecipazioni finanziarie estere. Hanno prodotto un fatturato da 25 milioni di euro;
d)       festival, grandi rassegne internazionali come quelle che si svolgono a Roma, Venezia e Torino;
e)       premi, come il David di Donatello e Nastri d’argento, la cui organizzazione richiede oltre i 10 milioni di euro;
f)        formazione e istruzione, realizzazione di corsi e scuole a livello nazionale per tutte le attività dello spettacolo che danno vita ogni anno a migliaia di giovani artisti;
g)       agenzie di rappresentanza, curano gli interessi dei singoli artisti e producono un volume d’affare che si aggira sui 50 milioni di euro;
h)       editoria, comprendente riviste, libri, cataloghi ecc., con fatturati stimabili intorno ai 20 milioni di euro;
i)         marketing e ricerca, capitolo di spesa che comporta passivi di circa 5 milioni di euro annui.
Infine per ciò che concerne l’export, l’Italia è un paese che importa molti film e ne esporta pochissimi, se non nessuno, all’estero.
Le quote di mercato

Il mercato del cinema italiano è caratterizzato dalla predominanza di grandi holding internazionali del settore e la consistenza elevata di quote occupate dai prodotti stranieri.
La situazione nei tre comparti del settore prevede un calo del numero delle imprese presenti sia nella produzione, che nella distribuzione, mentre stanno aumentando gli esercizi.
Le imprese cinematografiche statunitensi producono il 35% delle pellicole commercializzate e  si aggiudicano il 60% dei biglietti venduti. L’altra produzione straniera (Europa e resto del mondo) copre il 30%, lasciando ai prodotti nazionali il rimanente 35% della quota di mercato. Non va comunque dimenticato che lo stato d’inferiorità del cinema italiano era ancor più accentuato fino a poche stagioni fa.
Il problema competitivo con le imprese straniere, statunitensi in particolare, è determinato dalla loro integrazione verticale nel settore, il che li porta a raccogliere anche i costi di produzione ed esercizio oltre a quelli di distribuzione.
Il mercato italiano prevede l’individuazione di 3 fasce principali di operatori: a) le major, holding internazionali quali Warner Bros., Universal, 20th Century Fox, Sony, Disney; b) le mini major, composta dai gruppi nazionali Rai-01 Distribution e Medusa-Mediaset, con l’affiancamento di Filmauro, anch’essa intergrata verticalmente; c) indie, società italiane indipendenti di media-piccola dimensione, ma a maggiori intensità e continuità di lavoro.

Parte 8 (Cap.8 Perretti Negro ) Il divario competitivo tra Stati Uniti ed Europa e l’intervento pubblico nel settore


Nel periodo 1988-1999, l’evoluzione del commercio del settore audiovisivo dell’Unione Europea con gli Stati Uniti evidenzia la continua crescita delle importazioni (da 2,4 a 8,1 miliardi di dollari). Anche le esportazioni europee verso gli Stati Uniti sono cresciute, ma a ritmo più contenuto (da 360 a 850 milioni di dollari).
Ciò significa che il valore complessivo del disavanzo del settore europeo si è quasi quadruplicato.
I contributi che hanno cercato di spiegare il vantaggio competitivo del settore audiovisivo americano rispetto a quello europeo sono ricompresi in 3 filoni:
1)       quello che individua la fonte del vantaggio americano principalmente nel prodotto. Appartengono a questo filone tre diverse teorie: 1a) teoria sulla dimensione del mercato interno, la quale attribuisce il successo dei prodotti americani alla più elevata consistenza delle risorse finanziarie che le imprese statunitensi investono nella produzione di film, rispetto ai concorrenti di altri paesi. Alla base di tale teoria vi è il cosiddetto “effetto del mercato interno”, secondo il quale la produttività marginale degli investimenti aumenta con l’aumentare delle dimensioni del mercato domestico; 1b) teoria sulla dimensione del mercato linguistico, fondata anch’essa sulla relazione esistente tra il livello degli investimenti e la dimensione del mercato, ma a differenza della teoria precedente, considera rilevante la dimensione linguistica. Secondo questa teoria i consumatori preferiscono i prodotti cinematografici realizzati nella propria lingua. I film di lingua straniera, quindi, risentono di una riduzione del proprio valore (“cultural discount”). La grande diffusione internazionale della lingua inglese rende possibili livelli d’investimento superiori capaci di ridurre il “cultural discount” dei prodotti realizzati in quella lingua; 1c) teorie sulla specializzazione funzionale, spiegano il vantaggio competitivo dei prodotti americani in base al maggior grado di divisione del lavoro e di specializzazione funzionale che contraddistinguono il settore cinematografico negli U.S.A.. Una maggiore divisione e specializzazione hanno permesso, da una parte la creazione di imprese in cui l’organizzazione del lavoro si fonda sulla distinzione tra ruoli creativi o artistici, tecnici e manageriali, dall’altra la formazione di figure professionali specializzate, caratterizzate da un livello di competenze superiori.;
2)       quello che individua la fonte del vantaggio americano nelle fasi di distribuzione. Appartengono a questo secondo filone due principali teorie: 2a) teorie dell’accesso al mercato, le quali sostengono che il controllo della fase di distribuzione nei mercati esteri da parte delle imprese americane, determina il successo dei prodotti americani, impedendo invece l’accesso al mercato alle imprese nazionali dei singoli paesi; 2b) teorie del vantaggio della prima mossa, sostengono che il controllo delle reti di distribuzione esercitato dalle imprese americane nei mercati internazionali a partire dagli anni della prima guerra mondiale, attraverso l’impiego di meccanismi collusivi, ha garantito loro di mantenere una posizione dominante (tali teorie sono però criticate alla luce di quanto accaduto nei primi anni di sviluppo del settore, dove le imprese europee erano i più importanti distributori e produttori cinematografici a livello mondiale, eppure, pur detenendo un vantaggio di prima mossa, non hanno conservato la leadership che detenevano);
3)       quello che individua la fonte del vantaggio americano nei fattori esterni al settore cinematografico, a cui appartengono due teorie: 3a) teorie sull’egemonia culturale, sono il risultato di una sovrapposizione di concetti economici, politici e sub-culturali e inseriscono il commercio di prodotti audiovisivi non in un contesto di mercato, bensì all’interno di un paradigma politico ed economico al centro del quale si trovano le imprese americane. Il vantaggio conseguito dai prodotti cinematografici americani sarebbe la conseguenza della supremazia politica americana e avrebbe origine quindi al di fuori delle dinamiche del settore; 3b) teorie sull’esposizione ripetuta, riconducono il successo dell’offerta cinematografica americana alle esternalità positive generate dal consumo di altri prodotti culturali provenienti dagli U.S.A. e, in generale, connesse alla diffusione della cultura americana nel mondo. Alla base di tali teorie vi è dunque un circolo virtuoso di cause ed effetti in cui risulta però difficile risalire all’origine.





Il confronto (Stati Uniti – Europa) tra le variabili strutturali

Per comprendere il divario competitivo tra Stati Uniti ed Europa è necessario innanzitutto comprendere le differenze strutturali, riguardanti le variabili della domanda e dell’offerta, che contraddistinguono i due continenti.
Sul piano della domanda, le variabili strutturali sono costituite da:
·         incassi totali, parametro definito dalla sommatoria degli incassi relativi a ciascun film distribuito, laddove gli incassi del singolo film sono determinati dal prodotto del numero dei biglietti venduti e del prezzo di vendita dei singoli biglietti;
·         il prezzo di vendita del biglietto, soggetto a discriminazioni in funzione degli orari di programmazione del film (la sera costa di più) e delle categorie di spettatori (i militari ad esempio hanno delle agevolazioni);
·         il numero di biglietti venduti, analizzabili attraverso due variabili, una spaziale, definita dal numero di schermi in cui il film viene programmato (numero schermi = capacità dell’offerta, poiché a ogni schermo corrisponde un numero limitato di posti) e dalla distribuzione degli schermi sul territorio di uno Stato (gli schermi non sono infatti distribuiti omogeneamente su tutto il territorio), e una temporale, definita dal numero di giorni assegnati alla programmazione, dalla data prescelta per l’uscita del film, e dal numero di spettacoli.
Le domande strutturali del prezzo di vendita e del numero di biglietti venduti, sono a loro volta determinate dalle scelte di allocazione dei consumatori, in riferimento sia al tempo libero (concorrenza che altri canali di distribuzioni, quali tv, home video ecc., esercitano sul tempo libero a disposizione dei consumatori da destinare al consumo di prodotti audiovisivi), sia al reddito disponibile (cioè se il prezzo del biglietto è accessibile al reddito disponibile dai consumatori).
Sul piano dell’offerta, le variabili strutturali sono costituite da:
·         gli esercenti delle sale, il numero degli schermi è il risultato della negoziazione che coinvolge i distributori e gli esercenti. Entrambi detengono un potere contrattuale di forza diversa ;
·         i distributori, i quali detengono il controllo del mercato geografico e condizionano le decisioni sulle date di rilascio, di uscita, dei film nelle sale, condizionando in tal modo la stagionalità dei prodotti dei singoli mercati;
·         i produttori, detentori del copyright sul film, possono influenzare le opzioni strategiche dei distributori, hanno responsabilità sull’attività di realizzazione del film e determinano l’output finale che viene consegnato ai distributori.
Sul piano dell’offerta, i numeri di spettatori messi a disposizione dalle sale cinematografiche e la varietà delle preferenze esistenti, incidono sulle decisioni di chi offre il servizio. Poiché ogni esercizio è composto da uno o più schermi e  a ciascuno di questi corrisponde un numero di posti,
numero e varietà influiscono, con le scelte imprenditoriali, sul numero totale e sulla tipologia di cinema presenti in una determinata area geografica. Inoltre la frequenza e il prezzo d’acquisto influenzano, attraverso le relazioni di break-even, l’importo medio del budget di produzione e marketing da destinare a ogni film. Un mercato più ampio infatti permette investimenti più elevati.
La struttura dell’offerta, a sua volta, condiziona le modalità di consumo e la possibilità di soddisfazione della domanda. In riferimento al comparto dell’esercizio cinematografico, il numero, la concentrazione e la gestione degli esercizi presenti, determinano la capacità massima e le condizioni di offerta.
E’ dunque ora possibile analizzare le differenze strutturali esistenti tra Stati Uniti e Europa, relative a:
1.       scelte di allocazione dei consumatori, in riferimento al tempo libero e al reddito disponibile, facendo ricorso agli indici sul consumo cinematografico pro-capite e sulla spesa pro-capite. Nel 2000 sia il consumo sia la spesa pro-capite annuali risultavano notevolmente più elevati negli Stati Uniti (5,2 biglietti e 27,8 dollari) rispetto a tutti i principali paesi europei (la cui media era pari 2,5 biglietti e 12,6 dollari);
2.       sistema di prodotto, realizzate facendo riferimento a due variabili principali: a) la qualità del prodotto, misurata in termine di potenziali incassi (il valore degli investimenti medi Usa risulta superiore a quello dei singoli paesi europei e mentre i paesi europei non sono mai stati in grado di generare incassi sufficienti a recuperare gli investimenti sostenuti, negli Stati Uniti gli investimenti sono sempre stati recuperati), b) la composizione dell’offerta cinematografica in termini di ricambio di film distribuiti (gli Usa sono dotati, a differenza dei paesi europei, di una sovraccapacità produttiva, ciò consente di avere un tasso di ricambio più elevato nelle sale e di aumentare la frequenza di consumo);
3.       infrastrutture dell’offerta, sono rappresentate dalle sale di programmazione. Le differenze tra i vari paesi sono evidenziate dal numero di abitanti per cinema (in cui gli Stati Uniti hanno una copertura maggiore di quella europea) e dal valore degli incassi per schermo (situazione di sostanziale allineamento tra Usa e Europa).
Al fine di illustrare sinteticamente le differenze esistenti tra il settore cinematografico europeo e quello americano, utile far riferimento allo schema d’analisi del punto di pareggio (break even point). L’analisi del break-even point viene applicata non a un’impresa ma a un settore. L’analisi del punto di pareggio intende individuare il livello di produzione che deve essere raggiunto affinché i ricavi generati siano uguali ai costi totali sostenuti nella produzione di un bene. Il punto di pareggio individua il punto di equilibrio, al di sotto del quale la produzione incorre in perdite e al di sopra del quale genera profitti.
Nel caso del settore cinematografico le ipotesi specifiche sono due: a) non esistono costi variabili, ma solo costi di produzione fissi; b) il prezzo dei biglietti è unico e non vengono considerate possibili discriminazioni di prezzo.
Il punto di pareggio che quindi si vuole individuare coincide con il numero di biglietti (affluenza totale) che devono essere venduti per coprire l’investimento sostenuto nella produzione.
In sintesi l’analisi di break-even ci permette di riconoscere in quale misura i mercati nazionali sono in grado di ripagare gli investimenti sostenuti dalle imprese europee e americane nella produzione cinematografica. Sull’asse delle ascisse andranno posizionate le coordinate relative al numero di biglietti venduti, mentre sull’asse delle ordinate i costi/ricavi, in milioni di dollari, generati dagli investimenti effettuati dalle imprese.
Dai dati relativi agli anni 1999-2000 emerge che mentre negli Usa gli investimenti delle imprese sono maggiori e sono accompagnati da un numero di biglietti venduti che consente di coprire, alle imprese, i costi sostenuti, in Europa gli investimenti dei produttori sono di molto inferiori e l’affluenza è decisamente minore nelle sale a dispetto che negli Stati Uniti, motivo per cui il settore cinematografico europeo è in perdita.
Il divario riscontrato nel livello di investimenti sostenuti nell’attività di produzione dipende da due fattori: a) la dimensione del mercato, b) la frequenza di consumo. Gli Usa rappresentano un unico mercato molto ampio, in cui la frequenza del consumo cinematografico è notevolmente più elevata rispetto ai paesi europei.
Il divario di qualità, associato alle differenze nei livelli di investimento medio e il divario di volume derivante da un’industrializzazione incompleta, si riflettono in una situazione di deficit commerciale a sfavore dei paesi europei.

L’intervento pubblico nel settore cinematografico

In Europa l’intervento pubblico costituisce una componente strutturale dell’industria audiovisiva. Alla base di tale intervento vi sono spiegazioni di ordine culturale e di ordine economico.
Le giustificazioni di natura culturale si fondano sul riconoscimento dell’industria audiovisiva quale “industria culturale per eccellenza” e sulla necessità di salvaguardare e promuovere la diversità delle culture.
Le giustificazioni di carattere economico sono da ricondursi ai livelli di deficit commerciale crescenti nel comparto del settore audiovisivo rispetto agli Stati Uniti.
Il problema del disavanzo e del deficit commerciale può essere affrontato secondo due approcci:
a)  riducendo le importazioni, o attraverso l’introduzione di barriere dirette (quali quote, tariffe, ecc.) o indirette (rimpatrio degli utili) nei confronti dei soggetti non-nazionali oppure attraverso sussidi e incentivi fiscali volte a stimolare il consumo interno di prodotti nazionali; b) favorendo le esportazioni, attraverso la riduzione di barriere all’uscita e attraverso sussidi diretti e indiretti volti a migliorare la competitività dei prodotti nazionali.
In Europa, la politica di intervento pubblico per ridurre il deficit del settore cinematografico si è concentrata quasi esclusivamente sulla riduzione delle importazioni attraverso barriere e sussidi.
L’introduzione di barriere all’entrata nel mercato europeo si è verificata tra la prima guerra mondiale e la fine degli anni 50.
Il ricorso a sussidi ha invece avuto luogo a partire dagli anni Sessanta e perdura sino a oggi.
L’impiego di sussidi possono essere distinti in: a) attività di destinazione (formazione, sviluppo e distribuzione, esercizio); b) meccanismi di assegnazione (automatici, selettivi); c) forma (prestiti pienamente rimborsabili, prestiti non rimborsabili, co-produzioni).
I fondi nazionali destinati dai paesi europei al sostegno del settore cinematografico nel 1998 sono stati superiori a 600 milioni di Ecu. La Francia rappresenta il primo Paese per disponibilità di fondi (con 371,57 milioni di Ecu), l’Italia è invece al terzo posto (con circa 95,8 milioni di Ecu).
I fondi europei sono alimentati soprattutto da: a) contribuenti dello Stato; b) dalle tasse sugli incassi delle sale cinematografiche; c) dalle tasse sugli incassi pubblicitari o sul fatturato delle imprese televisive.
I contributi dello Stato rappresentano il 90% dei fondi disponibili in Italia e in alcuni paesi, come la Spagna, anche il 100% dei fondi. Le tasse sugli incassi cinematografici costituiscono, in Italia, il 7% dei fondi. Le tasse sugli incassi pubblicitari o sul fatturato delle imprese televisive costituisco, in Italia, il restante 3%.
Per quanto riguarda la destinazione dei fondi, la produzione generalmente raccoglie la stragrande maggioranza degli stessi (dal 90% al 100%).
L’Italia destina al comparto produttivo più del 90% dei fondi disponibili, alle attività di pre-produzione e sviluppo l’1% dei fondi e all’attività di distribuzione ed esercizio l’1%.
I destinatari dell’intervento pubblico sono rappresentati per la maggior parte dai singoli progetti audiovisivi, piuttosto che dalle imprese.
Per quanto riguarda i meccanismi di assegnazione, nel caso della pre-produzione e dello sviluppo prevalgono meccanismi di tipo selettivo, nel caso della produzione prevalgono oggi meccanismi di tipo automatici (contro quelli degli anni passati di tipo selettivo), nel caso delle attività di distribuzione e di esercizio esistono meccanismi sia di tipo selettivo che di tipo automatico.
Per quanto riguarda le forme scelte per il finanziamento (in Europa) prevalgono i prestiti concessi a condizioni agevolate e le sovvenzioni. In Italia sono maggiormente diffusi i prestiti.
In alcuni Paesi, tra cui l’Italia, le agevolazioni fiscali vengono concesse solo in presenza di determinate condizioni, come per esempio un reinvestimento del capitale guadagnato in altri progetti cinematografici.
Generalmente, per l’assegnazione dei fondi, ogni nazione presenta organismi responsabili, operanti a livello nazionale e/o locale. La Francia ha per esempio la CNC, la Germania la FFA, la Spagna l’ICAA. L’Italia invece costituisce un’eccezione, poiché non è dotata di un ente dedicato.
Tuttavia è bene precisare che gli investimenti statali non basteranno mai, da soli, a rilanciare il mercato cinematografico europeo nei confronti di quello statunitense.
Affinché la cinematografia del vecchio continente competa con quella made in Usa, sarà necessario che le imprese europee imitino le strategie dei concorrenti, realizzando film “americani” negli Stati Uniti, spostando la produzione là dove le risorse risultano più competitive, rendendo in questo modo il prodotto esportabile.
Questo però comporterebbe, in termini economici, effetti opposti e deleteri rispetto a quanto auspicato dalle politiche economiche europee. Esportando la produzione infatti, si toglierebbero posti di lavoro e imprese al mercato europeo.
In riferimento al posizionamento internazionale allora, l’offerta cinematografica europea dovrebbe concentrarsi sui mercati di nicchia, rappresentati dai cosiddetti “film d’arte” o di qualità e da quei segmenti di pubblico che considerano il cinema come un’esperienza culturale prima che un prodotto d’intrattenimento. Entrare nel mercato americano per conquistare un pubblico di nicchia non è comunque facile, data la presenza dei produttori indipendenti che trovano in questa porzione la propria fetta di consumatori.
Parte 9 (dispense Asimmetria Informativa, Costi di transazione, Modello principale-agente)

Asimmetria informativa e Modello principale-agente (o modello di agenzia)

In alcune circostanze, la realizzazione di transazioni efficienti viene annullata dal rischio di opportunismo, cioè da situazioni di asimmetrie informative che vengono a crearsi tra un principale e un agente. Nelle situazioni più drastiche, questa condizione può generare la “scomparsa” del mercato, cioè problemi di efficienza economica e allontanamenti dalle situazioni di ottimo, dell’equilibrio economico generale.
Il modello principale-agente (o modello di agenzia) è lo strumento analitico fondamentale usato nella teoria economica per analizzare le relazioni economiche caratterizzate da problemi di asimmetrie informative, sia quelle in cui il principale non ha informazioni sulle azioni intraprese dall’agente (azioni nascoste), sia quelle in cui il principale non conosce le caratteristiche dell’agente o dell’oggetto di scambio (informazioni nascoste).
Di maggior rilievo, ai fini dello studio, sono le caratteristiche riconducibili al primo tipo di asimmetria informativa, in cui cioè vengono a crearsi situazioni di azzardo morale indotte dalla possibilità di intraprendere azioni nascoste, che si verificano all’interno delle organizzazioni o nell’ambito dei rapporti di mercato.
Nel modello d’agenzia, come visto, sono presenti due soggetti stilizzati: un principale e un agente. Il principale e l’agente possono essere singoli individui o intere imprese. Nell’ambito della transazione economica il principale si rivolge ad un agente (lavoratore), presupposto come competente del settore, incaricandolo di svolgere una certa attività.
L’impegno dell’agente nello svolgimento di tale attività, indicato con la variabile e (e = livello d’impegno dell’agente), è costoso da fornire, ma accresce i costi della transazione y (y = transazione, cioè risultato finale di un lavoro), che saranno pagati, a transazione conclusa, dal principale.
Il problema di azzardo morale nasce dalla circostanza  che l’azione compiuta dall’agente non è osservabile dal principale. In assenza di un pieno controllo da parte del principale sulle azioni svolte dall’agente, quest’ultimo (l’agente) è indotto a selezionare l’azione per lui meno costosa, indipendentemente dall’impatto che tale scelta avrà sul risultato atteso dal principale, determinando un risultato inefficiente.
Al fine di massimizzare i benefici economici della relazione, il principale deve allora tentare di indurre l’agente ad agire nel suo interesse (nell’interesse del principale) attraverso un sistema di incentivazione contrattuale e la determinazione di una regola di pagamento idonea a stimolare l’agente a compiere l’azione.
Ne deriva che è possibile stipulare un contratto incentivante definendo uno schema di compensi dell’agente basato sul valore osservato di y (risultato finale del lavoro). Grazie alla possibilità di verificare la variabile y, l’applicazione di tale contratto è garantita dal sistema legale e giudiziario.
La moderna divisione del lavoro e i vantaggi della specializzazione hanno favorito un’ampia diffusione dei rapporti d’agenzia: per compiere gran parte delle attività economiche i singoli attori economici devono ricorrere ad altri soggetti, dotati delle necessarie capacità professionali e conoscenze specializzate.
Costituiscono esempi di relazione di agenzia i rapporti di impiego tra imprese e lavoratori, i rapporti tra gli azionisti e i manager, tra l’assicurato e la compagnia assicurativa ecc..
L’applicazione più diffusa del modello di agenzia riguarda il rapporto tra impresa (principale) e lavoratore (agente). L’azione e rappresenta il livello di impegno del lavoratore (agente), non osservabile dall’impresa, che contribuisce a determinare il valore della produzione dell’impresa y.
Lo sforzo del lavoratore non riguarda solo lo sforzo fisico, ma anche creativo cooperativo ecc..
In alcuni casi l’asimmetria informativa non riguarda solo l’impegno prestato, ma anche altri comportamenti dell’agente che possono danneggiare il principale, come ad esempio il cattivo uso dei macchinari, le mancate precauzioni, il furto ecc..
In tutte queste situazioni, a rendere i problemi di agenzia complessi è l’esistenza di variabili, al di fuori del controllo delle parti (O), capaci di influenzare il legame esistente tra la variabile controllata dall’agente (e) e i risultati della transazione (y). In altri termini, la relazione intercorrente tra l’azione e il risultato finale non è deterministica, ma ha invece una natura casuale. La soluzione contrattuale dei problemi d’agenzia sarebbe banale se l’incertezza non condizionasse le relazioni economiche, dal momento che altrimenti sarebbe semplice risalire dai risultati della transazione alle azioni effettivamente eseguite dall’agente.
L’incertezza (O) è invece pervasiva nei rapporti economici, cioè variabili sulle quali l’agente non ha alcuna influenza. Ad esempio i manager contribuiscono a determinare i profitti dell’impresa, ma i profitti dipendono anche dall’andamento della domanda dei consumatori, dal comportamento delle imprese concorrenti ecc..
In termini formali, si assume che il risultato di una transazione y sia influenzato dall’impegno dell’agente e e da una variabile casuale O: y = y (e, O). In questo quadro si assume che il principale non possa osservare il valore assunto dalla variabile O, altrimenti egli sarebbe in grado di infierire anche e.
Un altro elemento centrale nel rapporto di agenzia è la ragionevole ipotesi di avversione al rischio da parte dell’agente. La maggior parte degli individui non ama il rischio, preferendo una remunerazione certa a una remunerazione probabilistica con un uguale valore atteso. L’ipotesi di avversione al rischio dell’agente, ha come conseguenze che ogniqualvolta il contratto addossa una parte del rischio sull’agente, quest’ultimo debba essere compensato con una remunerazione più elevata.
Il principale è invece generalmente considerato neutrale rispetto al rischio. Questa ipotesi è giustificata con il fatto che il principale è in grado di stipulare una molteplicità di contratti e può quindi diversificare il rischio.
Da queste ipotesi, l’essenza del rapporto di agenzia consiste nella definizione di un contratto che deve coniugare due obiettivi contrastanti: quello dell’efficienza produttiva (conseguibile mediante incentivi all’agente a selezionare l’azione ottimale) e quello dell’efficienza dell’allocazione del rischio (assicurazione), che può essere raggiunto evitando di attribuire rischi all’agente, addossandoli sul principale.
La teoria economica dell’impresa e i Costi di transazione

Perché esiste l’impresa? L’impresa infatti potrebbe anche non esistere, sostituita da un insieme di scambi fra proprietari dei fattori di produzione e agenti economici col ruolo di organizzatori della produzione (imprenditori e intermediari della produzione) che poi si accorderebbero con i compratori sulle condizioni di vendita dei beni e servizi.
Eppure esistono delle ragioni economiche alla base dell’esistenza dell’impresa, sviluppabili secondo 3 approcci:
1.        approccio tecnologico. Secondo quest’impostazione, l’impresa va interpretata come un’organizzazione specializzata nella trasformazione economica di fattori di produzione in beni e servizi da vendere sul mercato. In questo senso, chi gestisce l’impresa (imprenditore, manager ecc.) svolge la funzione di “ingegnere”, sceglie cioè una combinazione produttiva che tenda a raggiungere la massimizzazione dei profitti. Questa scelta deve tenere conto dei costi e delle tecnologie da adottare, nonché della domanda di mercato. In questa visione, incentrata sul problema della scelta dei piani efficienti di produzione, l’impresa viene descritta come una “scatola nera”, ovvero una pura e semplice macchina che, a partire da certi fattori produttivi, sforna beni o servizi da offrire sul mercato.
Questo tipo di approccio però non dice nulla sulle relazioni che intercorrono tra coloro che operano all’interno dell’impresa (dipendenti, manager, proprietari ecc.). Di conseguenza manca una spiegazione delle motivazioni che spingono questi ultimi a organizzare la loro attività economica in un’impresa, piuttosto che limitarsi a scambiare sul mercato;
2.       approccio contrattuale. Secondo questo approccio l’impresa trova origine in un insieme di contratti che mettono in relazione i vari agenti economici che operano in essa. L’impresa si configura dunque come un’organizzazione che sfrutta stabilmente le relazioni contrattuali al fine di garantire uno svolgimento dell’attività produttiva.
Ma perché conviene formare un’impresa per regolare queste transazioni anziché avvalersi del mercato? Secondo questo approccio i rapporti economici sono generalmente caratterizzati dalla presenza di costi di transazione, ovvero richiedono l’utilizzo di risorse. Due sono le cause principali di questi costi: a) il coordinamento fra venditore e compratore, relativamente alla specificazione dell’oggetto e alla valutazione di un prezzo (fissare i termini contrattuali, stendere il contratto, stabilire le modalità di pagamento ecc.); b) la differenza di informazioni a disposizione delle parti sulle caratteristiche dell’oggetto della transazione, l’esistenza cioè di un’asimmetria informativa tra le parti. Tali differenze possono dare luogo a comportamenti opportunistici fra i contraenti, nel senso che una delle parti può avvantaggiarsi a spese dell’altra (ad esempio il venditore di un’automobile usata, che ne conosce lo stato, può spuntare un prezzo troppo elevato a spese del compratore). Ciò comporta un’inefficienza contrattuale.
L’impresa diviene allora un’istituzione economica alternativa al mercato, in quanto si configura come una struttura organizzativa che permette di ridurre i costi di transazione. Nell’impresa la riduzione dei costi di transazione viene garantita da 2 fattori: a) la configurazione gerarchica dell’impresa che permette, mediante l’identificazione di ruoli decisionali, l’esercizio di un potere d’autorità, riducendo i costi di coordinamento fra i componenti dell’impresa; b) la durata delle relazioni economiche fra i membri dell’impresa riduce le asimmetrie informative, in quanto permette una miglior conoscenza fra le parti, attraverso l’insaturazione di un rapporto quasi fiduciario.
Tuttavia, la definizione di impresa come esercizio dotato di un potere d’autorità, configurano un aspetto produttivo più rigido rispetto alla flessibilità garantita degli scambi sul mercato;
3.       l’approccio dei diritti di proprietà. Secondo l’approccio contrattuale, l’autorità esercitata nell’impresa permette di ridurre i costi di transazione, cioè di ridurre le inefficienze contrattuali. Ora occorre capire chi deve essere investito di autorità nell’impresa e occorre spiegare la motivazione economica alla base dell’esercizio di tale autorità.
L’approccio dei diritti di proprietà interpreta l’esercizio di un potere d’autorità come il risultato della titolarità, di uno o più individui, di capitali fisici, finanziari o di capitale umano che sono indispensabili per il funzionamento dell’organizzazione produttiva. L’impresa viene definita come una coalizione di individui che apportano capitali fisici, capitali finanziari o capitale umano per lo svolgimento di un’attività produttiva comune.
L’impresa si qualifica per 2 ragioni: a) la complementarità fra i diversi fattori della produzione, nel senso che il rendimento dei singoli fattori della produzione aumenta in seguito al coordinamento produttivo operato nell’impresa; b) l’incentivo a comportamenti cooperativi all’interno della coalizione al fine di aumentare il rendimento ottenuto dagli investimenti (in risorse umane, fisiche e finanziarie) che i vari membri della coalizione hanno apportato all’impresa. Un fattore produttivo viene allora considerato indispensabile per la coalizione quando non sia possibile formare un’altra coalizione che escluda quel fattore e che riesca a creare un valore economico superiore. Ciò giustifica il conferimento del potere residuale di controllo sull’impresa (l’autorità di definire i compiti e organizzare la produzione) al proprietario di quel capitale (fisico, finanziario o umano).

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