mercoledì 1 febbraio 2012

Filosofia morale - Siamo davvero liberi?

Siamo Davvero Liberi

Introduzione ( M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori)

Il concetto di libero arbitrio è problematico, non c’è infatti accordo se esso si applichi solo all’agire o concerna anche la volontà. La gran parte degli autori concorda nel ritenere che il libero arbitrio presupponga due condizioni: che all’agente si prospettino diversi corsi d’azione alternativi e che la scelta tra tali corsi non avvenga casualmente, ma dipende da una autonoma e razionale determinazione. Per rispondere bisogna riferirsi a una importante distinzione scientifico-metafisica: quella tra determinismo e indeterminismo. Il DETERMINISMO è la tesi secondo la quale ogni evento è effetto di un insieme di altri eventi che invariabilmente lo producono, in accordo alle leggi di natura ( è spesso sinonimo di fatalismo). L’ INDETERMINISMO è la negazione della tesi deterministica, secondo l’indeterminismo possono seguirsi molteplici futuri possibili. Una delle questioni cruciali sul libero arbitrio è stabilire l’eventuale compatibilità del libero arbitrio con il determinismo e/o con l’indeterminismo. La distinzione fondamentale, in questo senso, è quella tra due famiglie di concezioni: quella del compatibilismo e dell’incompatibilismo. Il COMPATIBILISMO afferma che il libero arbitrio è compatibile con il determinismo o addirittura lo richiede. Secondo la versione tradizionale del compatibilismo ( risalente a Locke, Leibniz, Hume e Mill) ciò che conta è soltanto che le nostre azioni discendano causalmente dalla nostra volontà, anche se questa è interamente determinata. Secondo una versione più avanzata di compatibilismo invece ciò che conta è la libertà e la capacità di offrire ragioni razionali per giustificare le nostre azioni e che le nostre azioni riflettano il nostro sé e i nostri fini, le nostre credenze e i nostri valori, sebbene la decisione che alla fine prenderemo non possa che essere quella determinata da fattori fuori dal nostro controllo; la scelta è necessariamente univoca, ma se facessimo una scelta diversa sarebbe irrazionale, e l’irrazionalità è in contrasto con la libertà. L’obiezione principale a questa concezione è che essa pare fondarsi su una riformulazione ad hoc dell’idea di libero arbitrio, lontana da quella ordinaria,intuitiva e diffusa, su cui si basano le idee di responsabilità, dignità e razionalità. Secondo le concezioni che formano la famiglia dell’INCOMPATIBILISMO, invece, la libertà è inconciliabile con il determinismo. Questa concezione si divide a sua volta in due sottofamiglie. La prima è quella dell’ ILLUSIONISMO, secondo il quale il determinismo è vero e dunque la libertà è impossibile. La seconda concezione è invece il LIBERTARISMO, che afferma sia che il determinismo è falso sia che gli esseri umani godono del libero arbitrio.

Benjamin Libet fu il primo scienziato ad applicare metodi di indagine neurofisiologica per studiare la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Nei suoi esperimenti invitava i partecipanti a muovere quando avessero voluto il polso della mano destra e contemporaneamente a riferire il momento preciso in cui avevano avuto l’impressione di aver deciso di avviare il movimento: l’obiettivo era infatti quello di indagare il rapporto tra la coscienza dell’inizio di un atto e la dinamica neurofisiologica sottostante. Libet ideò un artificio sperimentale costituito da un quadrante d’orologio circolare con un cursore luminoso che si muoveva velocemente ai suoi margini e impiegava 2,56 secondi a rotazione. Lo sperimentatore chiedeva ai soggetti di indicare in quale posizione si trovasse il cursore nel momento della presa di decisione. Durante l’esecuzione del compito veniva registrata l’attività cerebrale tramite elettrodi posti sullo scalpo al fine di determinare il profilo temporale dei potenziali cerebrali associati al movimento. L’attenzione era focalizzata su uno specifico potenziale elettrico cerebrale, il cosiddetto potenziale di prontezza motoria ( PPM ). Questo potenziale elettrico è visibile nel segnale dell’elettroencefalogramma come un’onda lenta che comincia un secondo prima di ogni movimento volontario. Il risultato degli esperimenti di Libet emerge dalla comparazione del tempo soggettivo della decisione con quello neurale: si rileva infatti che il potenziale di prontezza motoria ( PPM ), che culmina nell’esecuzione del movimento, comincia nelle aree motorie prefrontali del cervello molto prima del momento in cui al soggetto sembra di aver preso la decisione. I volontari diventavano infatti consapevoli dell’intenzione di agire circa 350 millisecondi ( ms ) dopo l’instaurarsi del PPM di tipo II ( tipico delle azioni non pianificate e spontanee) e 500-800 ms dopo l’instaurarsi del PPM di tipo I ( tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate). Il cervello sembra quindi prepararsi all’azione molto prima che il soggetto diventi consapevole di aver deciso di compiere il movimento. Da ciò molti inferiscono che le intenzioni coscienti non sono all’origine del nostro comportamento volontario, perché esse seguono cronologicamente l’attività cerebrale di preparazione motoria, inaccessibile alla coscienza per un dato intervallo temporale, facendo la loro comparsa solo quando il processo che porta al movimento è già stato innescato. In questa luce gli esperimenti di Libet dimostrano che le intenzioni non sono veramente causa delle nostre azioni, perché il lavoro causale genuino è svolto da processi neurali che le precedono ampiamente nel tempo. Se è così le decisioni sono causalmente inefficaci, ovvero epifenomeniche. Secondo Libet dagli esperimenti emerge anche un aspetto che in qualche misura salverebbe il libero arbitrio: circa 200 ms prima dell’inizio del movimento infatti i soggetti diventano coscienti della decisione di piegare il polso ( ovvero sono sul punto di piegarlo..). Ma ciò lascia aperta una finestra temporale all’interno del quale gli individui sono in grado di decidere se compiere effettivamente tale azione oppure no.

Cap.1- scritto da John-Dylan Haynes : ” Posso prevedere quello che farai”

In questo capitolo egli spiega come, studiando l’attività di un’area del lobo frontale( BA IO), gli sperimentatori possano predire, con un ragionevole margine di accuratezza, una scelta comportamentale ( li movimento della mano destra oppure di quella di sinistra), alcuni secondi prima che il soggetto acquisisca coscienza della propria determinazione. In altre parole, secondo Haynes, il cervello ha già deciso quale mano muovere quando nel soggetto la consapevolezza della scelta è ancora lontana dal maturare; inoltre grazie al brain-imaging e a un software istruito, un investigatore esterno può prevedere con un buon grado di accuratezza quale mano il soggetto muoverà. Haynes parte dalle critiche che è possibile rivolgere all’esperimento di Libet: anche se si dimostra che vi è un PPM prima dell’impulso al movimento, non è indicato se la circostanza valga per ogni singola prova, elemento necessario per fornire l’esistenza di una connessione costante. L’inizio anticipato del PPM potrebbe ad esempio essere un effetto provocato dal trascinamento temporale e rivelare soltanto l’inizio dei primissimi impulsi al movimento. Non si chiarisce inoltre in quale modo altre aree potrebbero contribuire alla costruzione delle decisioni. Per superare questi scogli Haynes e il suo gruppo utilizzano la risonanza magnetica funzionale ( fMRI), la quale misura i cambiamenti del livello di ossigenazione nel sangue, il quale a sua volta è indotto dall’attività neuronale. Ai soggetti veniva chiesto di decidere deliberatamente tra due pulsanti di risposta mentre si trovavano all’interno di uno scanner per la fMRI. Veniva mostrata loro una sequenza di lettere, oltre alla decisione veniva chiesto loro di ricordare la lettera vista quando la decisione stessa aveva raggiunto la consapevolezza. Il gruppo di Haynes ha utilizzato un decoder per i suoi esperimenti, e riuscendo a dimostrare che l’informazione presente nei segnali cerebrali può venire estratta solamente analizzando congiuntamente localizzazioni multiple, grazie all’uso di algoritmi di decodifica basati sugli schemi. Il suo gruppo ha trovato che due regioni cerebrali predicono, prima della decisione cosciente, se il soggetto sta per scegliere la risposta di destra o quella di sinistra, anche se il soggetto stesso non sa ancora come stia per decidere. La prima regione è la corteccia frontopolare (FPC), l’area BA IO. L’informazione predittiva contenuta nei segnali della fMRI provenienti da questa regione cerebrale è presente già sette secondi prima della decisione del soggetto. C’è una seconda regione predittiva, localizzata nella corteccia parietale, che si allunga dal precuneo alla corteccia cingolata posteriore. In uno studio di Haynes e del suo gruppo è stato mostrato che BA IO mantiene le intenzioni anche per lunghi periodi dopo che esse hanno raggiunto la coscienza, specialmente se vi è uno stacco tra decisione e esecuzione. Un punto chiave è se i soggetti stiano effettivamente seguendo il compito correttamente, potrebbero ad esempio decidere prima, all’inizio della prova, quale bottone premere, e poi aspettare alcuni secondi prima di manifestare la risposta; in realtà ciò è non-plausibile in quanto il movimento corrispondente è già del tutto preparato nell’area motoria primaria in questo caso. Questo studio dimostra che il cervello può inconsciamente cominciare a preparare le decisioni alcuni secondi prima che queste raggiungano la consapevolezza. I risultati indicano che una intera cascata di processi cerebrali inconsci si dispiega in alcuni secondi e contribuisce a preparare decisioni esperite soggettivamente come libere e assunte in un momento stabilito dal soggetto.

Cap. 2 – Scritto da Daniel M Wegner :” L’illusione della volontà cosciente”

Ugualmente legata al ruolo della consapevolezza esplicita è la ricerca di Wegner, che presenta la VOLONTA’ COSCIENTE come una mera apparenza senza capacità causali. A suo giudizio, infatti, gli strumenti della psicologia sperimentale mostrano come l’esperienza della volontà ( che pure nella gran parte dei casi è accoppiata alle nostre decisioni e ci dà dunque l’illusione della paternità sulle nostre azioni) faccia in realtà capo a un modulo mentale distinto dai reali meccanismi della volizione. Da ciò segue che Wegner ritiene che la volontà cosciente sia una bussola utile per comprendere il nostro agire nel mondo, una bussola che non ha però potere causale, al pari di una bussola che non agisce sulla rotta della nave, nonostante possa indicarla. La volontà è una sensazione. David Hume era colpito da questa idea al punto di definire la volontà come “nient’altro che quella impressione interna che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente.” Si consideri il caso delle persone affette dalla sindrome della mano aliena, un disturbo neuropsicologico nel quale la mano agisce con una propria autonomia. Questa sindrome è spesso connessa a un danno al centro del lobo frontale dal lato opposto del cervello rispetto alla mano colpita. I suoi movimenti vanno intesi come volontari o involontari? In realtà l’esperienza della volontà può essere manipolata per trasformarla in una azione spontanea. Nel caso dell’involontarietà tipica dell’ipnosi, la persona ha un’idea ben precisa e sperimentata dell’azione imminente. In classe in data 7/12/2011, in una lezione tenuta dal prof. De Caro e Il prof. Marraffa, abbiamo per l’appunto visionato diversi video tra i quali alcuni basati sulla storia romanzata di Freud, nel quale viene mostrato come sotto ipnosi alcuni pazienti guariscano da tic nervosi e sindromi della schizofrenia, ma solo temporaneamente, infatti gli effetti tornavano una volta ripresa “coscienza di sé”. Wegner ci parla appunto di illusione della volontà cosciente, egli vuole costruire una teoria dell’esperienza della volontà cosciente, un “feeling of doing ”, ma l’idea è che questo feeling viene costruito: la causazione è un evento, non un attributo di qualche oggetto. Dobbiamo distinguere tra volontà empirica e volontà fenomenica. La VOLONTA’ EMPIRICA è la causalità dei pensieri consci in quanto stabilita da un’analisi scientifica della loro covariazione con il comportamento, ovvero essa è la relazione reale tra mente e azione, la VOLONTA’ FENOMENICA è l’esperienza riferita della volontà. Noi umani tendiamo a creare una illusione continua perché davvero non sa cosa causi le sue azioni. “Gli uomini tendono a ingannarsi nel ritenersi liberi, in quanto sono consapevoli delle loro azioni ma ignari delle cause de cui sono determinati” ( cit. Spinoza ). Tutto ciò che appare necessario è una adeguata conoscenza anticipata dell’azione ( il libro fa l’esempio della sensazione che abbiamo di influire sul movimento di un ramo solo osservandolo)à CAUSAZIONE MENTALE APPARENTE. Come abbiamo visto a lezione ci sono dei meccanismi dell’autoinganno, tendiamo a rappresentarci come agenti di azioni che in realtà non dipendono da noi, questo avviene anche in PSICOLOGIA SOCIALE nella quale i soggetti tendono a confabulare, ovvero ad “appropriarsi” della PATERNITA’ dell’azione ( abbiamo visto come avviene sotto ipnosi, grazie al comando post-ipnosiàai soggetti veniva detto di fare tre giri della stanza una volta svegliati dall’ipnosi, e questi li facevano confabulando, ovvero rispondendo poi che erano motivati da dolori alle gambe e da altre necessità, costruivano quindi una vera e propria bugia pur di porsi al centro dell’azione, pur di farla propria). L’essere umano tende a mentalizzare il mondo e i processi che ne fanno parte. L’AUTOCOSCIENZA può essere allora definita come una costruzione che produce autoinganni. A lezione abbiamo visto che la coscienza, definita come concetto eterogeneo, può essere suddivisa in coscienza VIGILE, coscienza SEMPLICE, e coscienza d’OGGETTO, quest’ultima, che condividiamo con gli animali, ci permette di creare modelli di realtà e schemi d’azione. Abbiamo inoltre visionato alcuni video che mostrano come la COSCIENZA RIFLESSIVA si sviluppi nella specie umana tra il terzo e il quarto anno d’età, essa rappresenterebbe uno spazio distinto tra quello corporeo ed extracorporeo. Secondo Freud questa coscienza introspettiva è caratterizzata da una dimensione auto difensiva. In conclusione Wegner sostiene che le vere cause delle azioni umane sono inconsce, dunque non è sorprendente che il comportamento possa spesso sorgere, come negli esperimenti di automaticità, senza che la persona abbia accesso cosciente alla causazione. I processi controllati e coscienti sono semplicemente quelli che si trascinano in modo così inefficiente che vi è molto tempo perché le anteprime delle azioni loro associate arrivino alla mente e ci permettano di inferire l’operare della volontà cosciente. L’idea che la volontà cosciente sia un’EMOZIONE DÌ PATERNITA’ va al di là della maniera tradizionale in cui di solito si pensa al libero arbitrio e al determinismo. Il libero arbitrio è una sensazione , mentre il determinismo è un processo. Sono incommensurabili. La volontà non è una facoltà che si possa definire libera, almeno di questa idea era Voltaire quando affermava che “il volere senza una causa, è una chimera che non merita di essere combattuta.” La volontà serve allora ad accentuare l’azione e ad ancorarla nel corpo. Ciò rende l’azione molto più intensamente nostra di quanto possa esserlo un pensiero, proprio per questo la volontà viene definita un tipo di emozione di paternità. L’esperienza di volere coscientemente un’azione appartiene alla classe delle sensazioni cognitive. Le nostre esperienze della volontà corrispondono spesso in modo corretto alla volontà empirica, la vera connessione causale tra pensiero e azione. La volontà cosciente è allora utile come guida a noi stessi, essa ci dice quali eventi intorno a noi sembrano attribuibili a noi stessi. Noi arriviamo a pensare di essere buoni o cattivi sulla base della nostra emozione di paternità, l’esperienza della volontà cosciente può avere molta più influenza sulle nostre vite morali di quanto ne abbia l’effettiva realtà della causazione del nostro comportamento.

Cap.3 - scritto da Adina L. Roskies : “ Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni?”

Nel suo saggio A. L. Roskies argomenta contro due tesi molto diffuse, sulla base di una aggiornata descrizione neurofisiologica dei meccanismi decisionali. In primo luogo, a suo avviso, anche qualora riuscissimo a stabilire se i processi decisionali sono deterministici oppure indeterministici, ciò sarebbe irrilevante per la questione del libero arbitrio. In secondo luogo, il problema del libero arbitrio è indipendente dalle discussioni sulla coscienza: e per ciò per Roskies implica che, seppure la ricerca neuro scientifica riuscisse a dimostrare l’illusorietà dell’idea di un sé unitario che perdura nel tempo, la nostra fiducia nella libertà non ne sarebbe inficiata. Per la Roskies le tecniche neuro scientifiche non forniscono l’ampiezza di informazione necessaria per rispondere alla questione del determinismo in un modo rilevante per il dibattito sul libero arbitrio. Le neuroscienze non possono mai dare una informazione completa, e quindi non sono in grado di fornire una risposta definitiva alla questione del determinismo. Se qualcosa darà mai tale verdetto, sarà la nostra migliore teoria fisica e non le scoperte delle neuroscienze. Il lavoro di Bill Newsome, Michael Shadlen e colleghi fornisce uno dei migliori esempi di come la PRESA DÌ DECISIONE avvenga a livello neuronale. Questi neuro scienziati studiano la presa di decisione nei primati non umani e sono stati in grado di registrare l’attività di uno o di pochi neuroni mentre una scimmia svolgeva compiti di decisione. Il quadro delineato finora e’ quello dei neuroni sensoriali, sensibili a particolari caratteristiche dello stimolo, che riforniscono le aree superiori nelle quali l’informazione è raccolta nel tempo e nello spazio. I neuroni che codificano per scelte e azioni alternative raccolgono informazione affinché si raggiunge una soglia di attivazione per qualche risultato: a quel punto viene presa una decisione e generata una risposta. Questo schema di trasformazione dell’informazione sensoriale in azione può essere considerato lo scheletro del sistema di decisione. Si potrebbe affermare che quando parliamo di “decidere liberamente”, stiamo decidendo di fare qualcosa, non decidendo che c’e’ qualcosa. Il funzionamento di questo processo nei primati è simile a quello umano, noi siamo spesso chiamati a decidere tra diverse opzioni sulla base di valori che assegniamo ad esse, ad esempio, l’opzione che ha il miglior risultato, quella che è più degna moralmente o quella che evita il male peggiore. La presenza della coscienza può essere una condizione necessaria della libertà, nella misura in cui qualunque agente deve essere consapevole perché sia considerato libero. La tesi generale della Roskies è che la consapevolezza, o l’accesso conscio alle ragioni per l’azione, sia necessaria affinché un’azione sia libera. Se non abbiamo accesso ad alcuna proposizione rilevante per le nostre scelte, allora sembriamo davvero automi che non agiscono in base a ragioni, ma che semplicemente si comportano in un modo descrivibile dall’esterno in termini di ragioni. Si potrebbe pensare che la semplice coscienza delle ragioni non sia sufficiente per rendere possibile la libertà. Infatti, se la coscienze rende consapevoli delle ragioni per agire, ma è altrimenti slegata dal processo di deliberazione e incapace di influenzarlo in qualche modo, si potrebbe pensare che la coscienza sia troppo debole per fondare la libertà o che una persona cosciente non abbia nulla di più rilevante rispetto a uno zombie che non consideriamo libero. Possiamo definire questa idea di coscienza la PROSPETTIVA DELLO SPETTATORE. In essa, il processo di deliberazione si svolge in modo meccanicistico, seguendo qualche corso inevitabile, mentre la persona cosciente semplicemente lo osserva, ma non fa parte dell’apparato decisionale. Per la coscienza potrebbe essere richiesto un ruolo ancora più forte di quello dello spettatore e di quello dell’adesione a ragioni. Potremmo chiamarlo il RUOLO DELL’IMPEGNO. Esso va incontro alle intuizioni diffuse sulla libertà. La Roskies dissenta dall’interpretazione che molti hanno avuto degli esperimenti di Libet, ovvero che la volontà non è libera. Ella ritiene che, piuttosto che essere uno spettatore impotente, l’agente è coinvolto coscientemente nella valutazione e nella riconsiderazione del valore delle ragioni disponibili per l’azione, e nel fare ciò diventa parte attiva e impegnata nel meccanismo di deliberazione. Questa forma di impegno avviene durante il processo decisionale, ma ciò non significa che le intenzioni di agire debbano essere consapevoli in qualunque momento del processo di decisione/azione.

Cap.4 – scritto da Davide Rigoni e Marcel Brass:” La libertà : da illusione a necessità”

Rigoni e Brass discutono qui del ruolo che le intenzioni coscienti svolgono nei processi decisionali. Oggi molti esperimenti sembrano indicare che, quando noi spieghiamo per quale ragione abbiamo agito in un certo modo, assai spesso stiamo offrendo mere ricostruzioni razionali post factum: e ciò perché in realtà il nostro comportamento è prevalentemente determinato da processi automatici, senza consapevolezza o guida cosciente da parte nostra. In questa prospettiva, l’intenzione cosciente può essere interpretata come un elemento cruciale del processo ricostruttivo razionale successivo all’azione. Ciò, secondo Rigoni e Brass, non implica però che, pragmaticamente, l’idea di libero arbitrio non possa essere preservata, in quanto necessaria per evitare il proliferare di comportamenti antisociali e di violazioni delle regole condivise. Va sottolineato che nella totalità degli studi i ricercatori si sono concentrati, più o meno esplicitamente, sull’esperienza soggettiva e fenomenologica del libero arbitrio, in altre parole sulla sensazione di volontà che accompagna le nostre azioni. Nessuno degli studi ha potuto dimostrare l’esistenza del libero arbitrio in senso filosofico: ciò rimane indimostrato e presumibilmente, indimostrabile. Quando scegliamo di eseguire una determinata azione abbiamo la sensazione che la nostra scelta sia in qualche modo la causa dell’azione: intuitivamente sentiamo che l’azione è stata causata dalla nostra intenzione di metterla in atto. A questa sensazione ci si riferisce con il termine INTENZIONE COSCIENTE. Alcuni dati suggeriscono oggi che l’intenzione cosciente di un’azione sia fortemente influenzata da eventi che si verificano dopo che l’azione stessa è stata eseguita. Le intenzioni sarebbero quindi parzialmente ricostruite, secondo un processo di inferenza, sulla base di elementi successivi all’azione ( es. il video già citato sul’ipnosi e i 3 giri della stanza). In un esperimento del 2009 Banks e Isham hanno utilizzato una versione modificata dell’esperimento di Libet nei quali ai soggetti veniva chiesto di premere un pulsante a piacimento e successivamente di indicare il momento in cui era maturata tale decisione. In realtà ai soggetti veniva presentato un feedback uditivo con un ritardo da 5 a 60 ms rispetto all’effettiva pressione del tasto. Benché i soggetti fossero ignari del ritardo tra pressione e feedback uditivo, l’intenzione di premere il tasto veniva riportata più avanti nel tempo, secondo una funzione lineare con il segnale uditivo del feedback. L’identificazione del momento in cui il soggetto aveva avuto l’intenzione di premere il tasto era quindi largamente determinata dall’apparente momento della risposta del soggetto, e non dalla risposta effettiva. Questo risultato indica che le persone valutano il momento in cui hanno avuto l’intenzione di compiere un’azione basandosi sulle conseguenze dell’azione e non solo sull’azione motoria in sé. Tutti questi studi costituiscono per Rigoni e Brass la conferma alla teoria secondo la quale il libero arbitrio non sia la forza motrice del nostro comportamento: il sistema motorio cerebrale produrrebbe un movimento come risultato finale dei suoi input e output; la coscienza verrebbe “informata” del fatto che un movimento sta per avvenire e ciò produrrebbe la percezione soggettiva che il movimento è stato deciso volontariamente. Le azioni guidate da fattori interni sono percepite come più volontarie rispetto a quelle che ci vengono imposte dall’esterno. Altri studi ed esperimenti basati sull’uso della fMRI hanno dimostrato inoltre che almeno due componenti dell’azione volontaria, il COSA e il QUANDO, sono dissociate dal punto di vista neuroanatomo-funzionale all’interno della corteccia prefrontale mediale. Altri esperimenti hanno inoltre dimostrato che l’inibizione intenzionale dell’azione è associata a una regione cerebrale distinta dalle regioni coinvolte nell’inibizione dell’azione regolata da segnali esterni. Ciò suggerisce che il controllo volontario dell’azione include un meccanismo che permette l’interruzione all’ultimo momento di un comportamento volontario e pianificato. Questo meccanismo di inibizione gioca un ruolo fondamentale nel controllo volontario del comportamento. E’ stato dimostrato che l’esecuzione di un compito che richiede un grande impiego della forza della volontà porta a una diminuzione delle risorse della volontà stessa, processo definito IMPOVERIMENTO DELL’IO, e quindi a una prestazione deficitaria in altri compiti che richiedono ugualmente forza di volontà. Il comportamento volontario richiede uno sforzo elevato e quindi un impiego maggiore di energie rispetto a un comportamento che non si basa sulla forza di volontà. Alcuni studi hanno dimostrato inoltre che i soggetti esposti a una visione deterministica del mondo tendono a comportarsi in modo più immorale degli altri. Non credere nel libero arbitrio favorirebbe quindi atteggiamenti antisociali e allo stesso tempo ridurrebbe comportamenti pro sociali. Sembra quindi che le persone tendano normalmente a relazionarsi con gli altri tenendo conto dell’esistenza e della libertà umana. Questi studi dimostrano che una semplice esposizione a una visione del mondo deterministica aumenta la probabilità che le persone si comportino in maniera immorale e antisociale. Credere infatti che le persone possano effettivamente esercitare un controllo consapevole e volontario sulle proprie azioni aumenta il senso di responsabilità personale e promuove la messa in atto di comportamenti pro sociali e altruistici.

Cap.5 – scritto da Filippo Tempia : “Decisioni libere e giudizi morali: la mente conta.”

Tempia sostiene che l’interpretazione dei risultati neuro scientifici non implica affatto la negazione del libero arbitrio. In primo luogo infatti i dati sperimentali e le evidenze neurofisiologiche di cui disponiamo sono suscettibili di letture assai diverse tra loro. In secondo luogo, le nostre conoscenze rispetto ai processi neurobiologici presentano ancora vaste lacune. Infine, molte interpretazioni sono possibili quando si considera, più in particolare, il rapporto mente-cervello rispetto ai processi decisionali e alla condotta morale. In questa prospettiva, per Tempia, è corretto concludere che la scienza non ci offre oggi ragioni che ci impediscano di continuare a pensarci liberi e responsabili. Il LIBERO ARBITRIO si può definire come la possibilità di un soggetto di operare, almeno in alcune situazioni, scelte che nascano dalla propria volontà e che non siano quindi predeterminate dagli antecedenti fisici. Quando fissiamo un’immagine gli occhi non rimangono fermi ma compiono continui movimenti rapidi, detti saccadi, che permettono di spostare lo sguardo da un punto a un altro. Per evitare immagini offuscate, per tutta la durata del movimento saccadico i segnali visivi sono inibiti da determinati centri nervosi che generano un segnale in grado di bloccare il flusso di informazioni visive che dagli occhi sta viaggiando verso l’area visiva primaria della corteccia cerebrale. Pertanto i segnali visivi, nei brevi periodi di tempo in cui gli occhi stanno eseguendo un movimento saccadico, non raggiungono la corteccia cerebrale e di conseguenza non arrivano a livello cosciente. In altre parole, abbiamo episodi di cecità temporanea. E’ interessante che non siamo coscienti di tali periodi di cecità. In sintesi vengono eliminati dalla coscienza i periodi di cecità associati alle saccadi, che interferirebbero inutilmente con la nostra percezione visiva e temporale. Il neurochirurgo canadese Wilder Penfield operò su pazienti svegli a cranio aperto, con degli interventi che avevano il fine di curarne l’epilessia. Penfield inseriva un elettrodo nella corteccia cerebrale dei pazienti in modo da poterne attivare i neuroni mediante il passaggio di corrente elettrica. Questi esperimenti avevano dimostrato che, se anziché applicare uno stimolo tattile sulla cute si stimola direttamente il punto della corteccia cerebrale in cui giungono le vie nervose provenienti da quell’area cutanea, la sensazione non viene sentita localizzata nel cervello, ma sulla cute da cui normalmente provengono i segnali. Il movimento volontario è dunque una delle situazioni in cui la percezione temporale viene modificata rispetto agli altri parametri soggettivi di riferimento. Questo fenomeno rafforza l’ipotesi che, nei movimenti volontari,l’istante della presa di coscienza della volontà di agire venga spostato in un tempo che precede di poco l’inizio del movimento, operandone una vera postdatazione a livello cosciente. Per quanto riguarda l’esperimento effettuato da Haynes e colleghi, Tempia ritiene che i risultati ottenuti, seppur molto interessanti, non permettono di concludere quale sia il correlato nervoso della scelta né quale sia l’istante in cui essa viene realmente compiuta ( Haynes predice correttamente la decisione solo per il 10 % in più rispetto a una predizione casuale). Da molti secoli alcuni filosofi hanno sostenuto che il GIUDIZIO MORALE scaturisce dall’emozione provocata dallo scenario che ci si pone dinanzi. Questa è stata la posizione di David Hume, il quale scoprì dei riscontri sperimentali autorevoli nelle osservazioni neuropsicologiche del gruppo di ricerca di Antonio Damasio e negli esperimenti di psicologia morale di Jonathan Haidt. All’estremo opposto si situava la tradizione razionalista , che considera il giudizio morale come un prodotto del ragionamento cosciente basato su principi espliciti espressi verbalmente. Attualmente, quest’ultima posizione è stata ampliamente abbandonata, ma diversi gruppi di ricerca neuro scientifica considerano di grande importanza, nella formulazione del giudizio morale, anche gli aspetti cognitivi, pur senza eliminare il ruolo dell’emozione. Tuttavia, nell’accezione più recente, COGNITIVO non è sinonimo di razionale, ma comprende anche aspetti di analisi il cui soggetto non è consapevole, come l’intuizione. Per quanto riguarda il ruolo dell’emozione, il laboratorio di ricerca di Antonio Damasio si propose di valutare se i pazienti con un danno a un’area corticale implicata nell’analisi delle emozioni presentassero o meno deficit di valutazione morale, ovvero, secondo la sua teoria l’attivazione della corteccia prefrontale ventromediale ( VMPFC ), dovrebbe portare a scelte morali guidate dagli aspetti emotivi. Il suo lavoro ha dimostrato che nei pazienti con una lesione alla VMPFC, in alcuni dilemmi morali prevalevano giudizi più utilitaristici rispetto a quelli formulati da soggetti di controllo. Era come se i pazienti con lesione alla VMPFC non provassero tale avversione emotiva o non ne tenessero conto nei loro giudizi, che di conseguenza erano meno emotivi, più razionali e utilitaristici. Un’altra linea in evidenza a favore di un’azione delle emozioni nel giudizio morale deriva da esperimenti di psicologia compiuti dal gruppo di ricerca di Jonathan Haidt. Egli afferma che i giudizi morali nascono solitamente da intuizioni di cui non siamo coscienti. I soggetti riescono comunque a dare una spiegazione razionale delle loro scelte, ma questa è sovente una costruzione post hoc, che non ha esercitato nessun ruolo nella decisione. Haidt ha dimostrato che l’intuizione morale è fortemente influenzata dalle emozioni, senza che il soggetto ne abbia coscienza. Ad esempio, il disgusto, evocato tramite odori sgradevoli o mediante suggestione post-ipnotica, provoca un aumento della severità con cui viene giudicata un’azione altrui. Tuttavia, Haidt afferma che le emozioni sono una spinta a decidere in una determinata direzione, ma non ci possono forzare in modo incondizionato. Vi sono meccanismi razionali e, soprattutto, sociali che ci possono permettere di inibire le risposte dettate dall’intuizione. Le scelte razionali o puramente cognitive non si possono considerare come scelte reali perché manca loro la forza della motivazione. Quindi, tutte le scelte moralmente rilevanti sono da considerare complessi di associazioni emotivo - cognitive. Secondo questa concezione,la razionalità e l’emozione, anziché essere in competizione, vengono continuamente integrate nel corso delle decisioni morali. Nelle valutazioni morali entra quindi in gioco l’attività di aree cerebrali che sono correlate con il pensiero cosciente, senza che il risultato possa scaturire automaticamente da una competizione tra aree. Dal punto di vista scientifico, il problema che rimane è se l’uomo possa decidere in maniera non determinata dagli antecedenti fisici del proprio cervello. L’opinione di Tempia è che non si possa negare tale possibilità, perché durante le decisioni coscienti non è solo il cervello ad essere attivo, ma è presente un’attività correlata mente-cervello. Finché non conosceremo la reale natura degli eventi mentali, e la loro reazione con le leggi della fisica della materia, non sarà possibile negare né confermare scientificamente un ruolo causale della mente. Dunque, per Tempia, allo stato attuale delle conoscenze, non si può scientificamente negare il libero arbitrio dell’uomo.

Cap.7 – scritto da Mario De Caro ( prof.) :” La moralità è riducibile alle emozioni?”

In questo capitolo M. De Caro critica l’idea, oggi molto fiorente, secondo cui le capacità morali altro non sarebbero che peculiari emozioni selezionate nel corso della storia evolutiva: un quadro, questo, in cui le scelte libere e razionali degli individui non giocherebbero dunque alcun ruolo rilevante. Secondo De Caro, tuttavia, il ruolo fondamentale della teoria dell’evoluzione nella spiegazione delle condizioni psicobiologi che abilitanti della moralità non va confuso con la comprensione della capacità morale in quanto tale: quest’ultima presuppone infatti la possibilità di dissociarsi razionalmente dalle proprie predisposizioni emotive per valutarne l’adeguatezza morale. Quando si tenta di ricondurre i concetti fondamentali investigati dalla filosofia ( concetti normativi, intenzionali, morali, fenomenologici e astratti) al mondo della natura, così come ci viene descritto dalla scienza, sorge un problema sostanzialmente nuovo, il PROBLEMA DELLA COLLOCAZIONE. Sullo sfondo di questo problema c’e’ l’adesione di molti filosofi al NATURALISMO SCIENTIFICO, la concezione filosofica probabilmente oggi più diffusa, almeno nel mondo anglofono. Nella prospettiva del naturalismo scientifico, nessuna entità può esistere che non sia compresa, almeno potenzialmente, nell’ontologia delle scienze naturali: una tesi, questa, che pone immediatamente un problema per i concetti filosofici, dato che, almeno a prima vista, essi sembrano intrinsecamente diversi dai concetti scientifici. Ne segue un’alternativa drastica: o al di là delle apparenze, tali concetti sono in realtà riconducibili all’apparato concettuale delle scienze naturali oppure essi sono del tutto illusori. Nel quadro del naturalismo scientifico, pertanto, l’alternativa per i concetti filosofici è quella tra riduzione e eliminazione. Nella loro versione classica, i programmi di naturalizzazione si fondano sulla concezione fisicalista, ovvero sull’idea che tutte le entità sono riducibili al loro sostrato microfisico .Il RIDUZIONISMO FISICALISTICO non può che rimanere in buona misura teorico e astratto, in quanto postula riduzioni che assai spesso sono possibili soltanto in linea di principio. Oltre a questa forma astratta e radicale di riduzionismo, ve ne sono altre più moderate. In particolare, una forma che gode oggi di una notevole popolarità è quella secondo la quale i concetti normativi, intenzionali, modali e fenomenologici con cui descriviamo gli esseri umani possono essere ridotti a concetti neuro scientifici, biologici e psicologo-computazionali. Mentre la maggior parte dei saggi contenuti in questo volume si concentra sulla questione della presunta illusorietà della libertà, De Caro vuole qui affrontare la questione degli attacchi alla nozione di responsabilità morale che sempre più frequentemente provengono dagli ambiti scientifici. Nell’articolo di Chapman e colleghi si viene rimandati alla concezione classica detta EMOTIVISMO, secondo cui i concetti morali non hanno carattere rappresentazionale, ossia non rappresentano alcuna proprietà, né nel mondo esterno né nella mente individuale. Secondo la prospettiva emotivistica, piuttosto, i concetti morali esprimono le reazioni fisiologiche di approvazione o rifiuto da parte degli agenti in contesti in cui sono on gioco relazioni interpersonali. Nell’articolo si sostiene che il disgusto morale è fisiologicamente identico al disgusto gustativo, ovvero al fenomeno che si produce quando si sperimenta un sapore spiacevole. In realtà De Caro afferma che il disgusto morale, in virtù dell’essenziale componente normativa cui è legato, ha proprietà diverse dal disgusto alimentare:. dunque al contrario di quanto assunto da Chapman e colleghi, per la legge di Leibniz ( secondo la quale due cose sono identiche se e solo se hanno le stesse proprietà) queste due forme di disgusto non sono identiche. Il disgusto morale è insomma diverso da quello alimentare. Se mi si chiede ragione della reazione che ho avuto di fronte a una situazione moralmente rilevante, io devo poter offrire una ragione convincente: altrimenti moralmente sono tenuto a dissociarmi dalla mia reazione e forse anche a scusarmi per essa. Tutto ciò, si noti, non accade nel caso del disgusto alimentare. Concludendo, sul piano alimentare l’emotivismo si giustifica molto meglio che sul piano morale. Possiamo inoltre immaginare le reazioni di due persone presenti al momento di prendere una decisione riguardo all’eutanasia, prendiamo come esempio il caso di Eluana Englaro. Ipotizziamo vi siano due persone, la prima crede fortemente nell’ideale della sacralità della vita, e dunque trova l’interruzione dell’alimentazione una forma di eutanasia moralmente ripugnante. La seconda persona considera l’interruzione dell’alimentazione operata in questo caso come moralmente lodevole. Pertanto secondo i dati di Chapman, la prima persona, moralmente contraria all’azione compiuta in sua presenza, manifesterà la sua riprovazione morale con la tipica reazione fisiologica dell’inarcamento del labbro superiore, mentre, plausibilmente, la seconda persona manifesterà la sua approvazione morale con una reazione fisiologica conseguente ( ad esempio, distenderà i muscoli facciali). Per De Caro, la differenza nelle reazioni fisiologiche può essere spiegata facendo riferimento ai differenti sistemi culturali in cui i loro valori morali sono incastonati. Pertanto nell’esempio citato e nei casi analoghi la direzione delle imputazioni causalmente rilevanti va dal culturale al fisiologico: ovvero, detto diversamente, la relazione causale è tale che i fattori culturali devono essere considerati come cause e i fenomeni fisiologici come effetti ( inoltre i tempi di sviluppo dei fattori culturali sono molto più rapidi di quelli dell’evoluzione biologica). Un altro punto debole dell’articolo di Chapman e colleghi è legato al fatto che come prototipo delle situazioni morali viene perso in considerazione il gioco dell’ultimatum ( i giocatori interagiscono per decidere come dividere una somma di denaro data loro dagli sperimentatori, il primo giocatore decide come dividere la somma e il secondo può solo accettare o rifiutare la proposta. Se il secondo giocatore la rifiuta, nessuno dei due riceve alcunché; il gioco viene giocato una sola volta in modo che la possibilità di reciprocazione non divenga rilevante). De Caro ritiene che questo gioco sia troppo artificioso per fungere da prototipo delle situazioni moralmente controverse che accadono nella vita reale. La possibilità del distacco dalle nostre predisposizioni emotive è condizione necessaria della normativa morale ( esempio di un uomo di nome Ugo, cresciuto in un ambiente retrivo con un’etica per la quale la segregazione razziale è cosa buona.. e in età adulta è divenuto però antirazzista. Egli si trova a dover aiutare un signore di colore anziano che scivola sul marciapiede e rimane dolorante...Sicuramente all’inizio Ugo inarcherà il labbro in segno di disgusto ma successivamente probabilmente interverrà per aiutare l’anziano visto il suo recente atteggiamento antirazzista). Il fatto che noi possiamo dissociarci dalle nostre reazioni istintuali per valutarne l’accettabilità è moralmente cruciale. “ Un essere morale è un essere in grado di paragonare le sue azioni e le sue motivazioni passate e future e di approvarle o disapprovarle. Non abbiamo ragione di supporre che qualcuno degli animali inferiori abbia questa capacità” ( cit. Charles Robert Darwin ). Tutt’oggi secondo De Caro Darwin non avrebbe ragione di cambiare parere sull’idea della discontinuità dei concetti morali rispetto a quelli biologici.

Cap.8 – scritto da Andrea Lavazza e Luca Sammicheli : “ Se non siamo liberi, possiamo essere puniti? “

In questo capitolo Lavazza e Sammicheli discutono della questione della responsabilità penale alla luce dell’evidenza offerta dalle neuroscienze contemporanee. Si sostiene che sia insensato punire qualcuno il quale, stante la propria configurazione cerebrale, non poteva non volere commettere il crimine che ha compiuto; oggi, tuttavia, molti ricercatori sono convinti che gli esseri umani si trovino sempre in una tale condizione di determinazione e di mancanza d’autonomia. Lavazza e Sammicheli si domandano dunque se sia arrivato il momento di abbandonare completamente la concezione retributiva della pena, a favore di semplici misure di sicurezza per chi non abbiamo più ragione di definire reo, ma soltanto individuo socialmente pericoloso. Una tesi questa, la quale ovviamente apre scenari controversi, che non è difficile immaginare diverranno presto consueti nelle aule di giustizia. Il problema della spiegazione neuro scientifica del comportamento è che ogni cosa che facciamo è come un riflesso rotuleo nel seguente rilevante modo: discende da una catena di eventi puramente fisici resistere ai quali è impossibile come è impossibile resistere alle leggi della fisica. Il diritto, dunque, nei suoi istituti fondanti, realizza un’affascinante area di potenziale conflitto tra pensiero scientifico ed esperienza vissuta. I modelli di mente/cervello che implicitamente reggono i sistemi penali moderni appaiono quasi dualistici e si richiamano alla teoria dell’AGENT CAUSATION, ovvero la teoria che sostiene l’attribuzione all’agente consapevole dell’origine causale dell’azione. Il diritto si trova ad ammettere che ciò che lo fonda è proprio un’intuizione prefilosofica riconducibile a un fatto immediatamente dato dall’esperienza umana. Se tutte le azioni vengono prodotte da cause materiali che vanno oltre la possibilità di controllo degli individui, diventano inintelligibili i concetti di colpa e di punizioni meritate su cui poggia il sistema retributivo. Quella che i giuristi chiamano SIGNORIA DEL SOGGETTO è una precisa e giuridicamente rilevante, forma di causazione del comportamento che è differente dal’ipotesi ( indeterministica ) dell’assenza ( o dell’incapacità di individuare) il singolo fattore causale necessario e sufficiente. Il compatibilismo pare dunque il miglior alleato di un diritto basato sulla libertà del soggetto. Il diritto presuppone l’esistenza normale del libero arbitrio ma ammette l’ipotesi che in alcune situazioni, per ragioni patologiche, esso possa venire meno. Si cita il caso della sentenza del tribunale di Trieste il quale ha effettuato nel Settembre 2009 una riduzione di pena a un condannato per omicidio, sentenza scaturita da un’asserita predisposizione genetica riconosciuta come parte delle attenuanti: questo è stato il primo caso in Europa. Lavazza e Sammicheli sostengono quindi che i criminali a volte sono vittime del loro cervello , in attesa di una cura organica, si può soltanto sedarli, tenerli sotto controllo, incarcerarli, senza sperare in una redenzione, che soltanto gli agenti moralmente responsabili sono in grado di sperimentare. Le NEUROSCIENZE DELLA COGNIZIONE MORALE sono la disciplina che indaga i meccanismi psicologici alla base del pensiero e del comportamento morale. Si possono distinguere le ricerche di carattere normativo, rivolte a individuare i processi cognitivi attraverso i quali la mente compie la costruzione di un sistema di valori; e le ricerche di cognizione sociale relative alla neuropsicologia dei meccanismi attributivi e delle modalità con cui viene “costruita” la responsabilità individuale nell’interazione sociale. Non possiamo in definitiva rinunciare all’idea di libertà perché l’interazione sociale presuppone una patina normativa sulle nostre esperienze personali.

Cap. 9 – scritto da Giuseppe Sartori e Francesca Gnoato : “ Come quantificare il libero arbitrio”

In questo capitolo Sartori e Gnoato affrontano in una prospettiva empirica, con ricadute in ambito psichiatrico - forense, il tema dell’autodeterminazione, fino appannaggio della filosofia e del diritto. Dall’autodeterminazione discende l’accertamento della capacità di intendere e di volere, che è attribuzione rilevantissima nei contesti giuridici e sociali. Ciò che finora era riservato al colloquio clinico e alla valutazione di informazioni anamnestiche, con una forte componente soggettiva da parte dell’esperto, oggi può essere affidato a strumenti standardizzati per la formulazione diagnostica, riducendo il margine di discrezionalità. Come notano Sartori e Gnoato, in questo modo viene introdotta una sorta di libero arbitrio applicato, la cui misura verrà sempre più demandata agli strumenti della scienza. Quando il reato è stato commesso da un soggetto privo di capacità di intendere o di volere a causa di una infermità di mente, il soggetto non è imputabile per quel determinato reato. In sostanza, ciò che si afferma secondo questo principio è che bisogna distinguere BAD from MAD: solo il cattivo deve essere punito e non il pazzo, in quanto solo il primo ha liberamente scelto di agire in un determinato modo, mentre li libero arbitrio del secondo è stato sostituito dalla malattia mentale. La NEUROPSICOLOGIA è la disciplina che studia la struttura dei processi cognitivi e i deficit cognitivi, emotivi e comportamentali che seguono a lesioni o alterazione del sistema nervoso centrale. Il libero arbitrio prevede la possibilità di operare una scelta ragionata tra diverse possibili opzioni d’autore.

Esistono alcuni strumenti che possono essere utilizzati per valutare gli aspetti cognitivi e comportamentali in questo ambito:

1)La capacità di generare alternative di azione.

2)La capacità di operare scelte razionali.

3) Il test di teoria della mente ( indaga la capacità del soggetto di porsi nei panni degli altri e comprenderne gli stati mentali).

4) Il test di attribuzione delle emozioni ( valuta la capacità di attribuire stati emotivi agli altri).

5) Il test delle situazioni sociali ( misura l’adeguatezza dei comportamenti rispetto alle norme sociali).

6)Il test di distinzione morale/convenzionale ( permette di valutare la conoscenza delle regole sociali).

Ad ogni modo è ormai assodato che i geni giocano un ruolo fondamentale nella spiegazione del comportamento. L’ipotesi di Raine, è che specifici geni determinino alterazioni della struttura e delle funzionalità cerebrale, e che tali alterazioni, a loro volta, predispongano l’individuo al comportamento antisociale. E’ studiato che l’effetto di una data conformazione genetica non è diretto, ma mediato da alcune variabili ambientali, la più importante delle quali è l’esposizione a eventi stressanti in periodi critici dello sviluppo. Tale esposizione aumenta quindi l’originaria probabilità che un individuo ha di sviluppare una malattia mentale. Viene citato in questo capitolo il caso di JF, una giovane donna di 26 anni accusata dell’omicidio del figlio appena partorito. JF aveva alle spalle una storia di tossicodipendenza iniziata a 12 anni e proseguita con numerosi ricoveri. Dalle analisi è risultata portatrice di polimorfismi genetici che sono associati all’insorgenza di una varietà di forme psicopatologiche. Il suo profilo genetico la rendeva un soggetto particolarmente predisposto a sviluppare uno spettro di disturbi psichiatrici che comprendono depressione maggiore e altri disturbi dell’umore, oltre che alto rischio di suicidio, comportamento aggressivo e impulsivo e abuso di sostanze. Un altro caso riportato è quello di AB, extracomunitario accusato di aver ucciso a Udine un altro straniero dopo una lite sorta per alcune offese arrecate dalla vittima all’omicida. L’imputato, che si truccava per motivi religiosi, si era sentito apostrofare come gay, giungendo così alla colluttazione, motivo per la quale si era allontanato a comprare un coltello. Una volta tornato sul posto dell’aggressione aveva però ucciso una persona che non era quella che l’aveva offeso. La perizia sull’imputato ha rilevato sintomi allucinatori di tipo visivo, uditivo e somatico. Nel suo caso la spinta all’azione non poteva essere contrastata in quanto egli non vedeva alternative all’azione impulsiva. Il libero arbitrio del soggetto era significativamente ridotto a seguito del quadro psichiatrico cognitivo e il correlato biologico della malattia mentale era dimostrato dalla fMRI dell’esame genetico. Anche in questo caso è stata effettuata una riduzione della pena, eseguita Corte d’Assise d’Appello di Trieste. In definitiva si può cominciare a parlare di una quantificazione dei libero arbitrio che muove da un contesto specifico forense per allargarsi alla considerazione più generale di un concetto filosofico che si candida ad essere operazionalizzato e misurato empiricamente. Una svolta che le neuroscienze oggi rendono possibile, sopportando significativamente l’ambito forense.

Se siamo davvero liberi resta una domanda a cui non risulta legittimo dare risposte apodittiche, nell’una o nell’altra direzione.

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